Quando sono andata a scoprire Bigger than T. rex, la mostra su Spinosaurus che occuperà le sale milanesi di Palazzo Dugnani fino al 10 gennaio 2016, non ho potuto fare a meno di notare come fossi l’unica adulta non accompagnata da esseri umani entro i dieci anni. Eppure lo studio dei grandi sauri che hanno dominato il nostro mondo dal Triassico al Cretaceo è parte integrante di quel lungo percorso di comprensione della storia del pianeta che non abbiamo ancora concluso. Le nicchie ambientali occupate dalle singole specie di dinosauri, le loro abitudini, la ricostruzione di quel grande evento catastrofico che in migliaia di anni ha alterato l’ecosistema determinando la loro scomparsa e permettendo lo sviluppo di molte altre forme di vita, sono tutti tasselli nella scoperta delle situazioni ambientali che determinano l’espansione o il tramonto di specie animali e vegetali.
Un peccato, insomma, questa scarsa presenza di maggiorenni, perché quella sul “gigante perduto del Cretaceo”, che con la sua lunghezza di quindici metri ha abitato la lussureggiante Africa del Nord cento milioni di anni fa, è una mostra ambiziosa e multiforme. Approdata a Milano dopo un lungo periodo al National Geographic Museum di Washington, l’esposizione si struttura come una dettagliata narrazione al contempo storica e scientifica che va a toccare non solo il gigantesco sauro, con i suoi caratteri biologici e le sue abitudini, ma anche l’avventuroso ritrovamento dei fossili e quell’unione tra scienza, arte e tecnologia che ha reso possibile sia la ricostruzione di Spinosaurus, a partire dal suo scheletro, sia l’allestimento della stessa mostra.
Le sale sono divise in due sezioni, le prime ricreano mediante video, esposizioni di reperti e vere e proprie scenografie la lunga fase di ricerca dei fossili, le ultime, invece, si concentrano su Spinosaurus fornendo dettagliate specifiche biologiche, anatomiche e comportamentali (e a dominare la mostra, in ogni caso, sono i modelli a dimensione naturale dello scheletro e dell’intero animale – quest’ultima all’esterno del palazzo). Per questo raccontare l’iter della mostra su Spinosaurus è un’impresa ardua che rischia, come nel caso delle storie migliori, di cadere nella trappola sempre in agguato dello spoiler.

Un’avventura in Africa

Senza seguire gli avvenimenti nei minimi dettagli si possono però fare alcuni nomi. Il primo è quello di Ernst Stromer, paleontologo baverese che nel 1912 ha la fortuna di essere il primo ad avere tra le mani i grandi resti delle pale dorsali e della mandibola di un predatore preistorico mai visto prima, che decide di chiamare Spinosaurus aegyptiacus. La ricerca di Stromer è però destinata a bloccarsi con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e anche i resti del bestione vengono spazzati via dal conflitto: si trovano infatti all’interno del Museo di Monaco al momento di un bombardamento degli alleati nell’aprile 1944.
Altri nomi importanti per questo racconto sono quello di Nizar Ibrahim, giovane paleontologo dell’Università di Chicago ossessionato dalla storia di Stromer e dalla ricerca di nuovi fossili di Spinosaurus e quello di Cristiano dal Sasso, ricercatore del Museo di Storia Naturale di Milano che ha avuto la fortuna, nel 2008, di entrare in possesso di alcuni fondamentali resti di un nuovo, unico, esemplare. Quando Ibrahim ha modo di studiare i fossili di Milano si rende conto che questi presentano una sezione trasversale che combacia con quella di altri frammenti reperiti da lui cinque anni prima a Erfoud, in Marocco: appartengono allo stesso animale! L’avventurosa ricerca di Nizar Ibrahim può così prendere finalmente una direzione definita: quella verso il deserto del Kem Kem, un tempo florida terra fluviale e ora attivissimo mercato di fossili. Qui, a Erfoud, Nazir Ibrahim riesce fortunosamente a ritrovare lo stesso beduino da cui aveva acquistato i primi resti e a farsi portare sul luogo del ritrovamento. Forte delle nuove scoperte, Ibrahim partecipa a una nuova spedizione nel 2013, grazie alla quale vengono rinvenuti ulteriori fossili.

Bigger than T. rex

Quello che viene scoperto grazie alle ricerche di Ibrahim è un predatore di proporzioni superiori a quelle di qualsiasi altro mai conosciuto, con la schiena ricoperta da una gigantesca vela di circa due metri, usata probabilmente a scopi intimidatori o di corteggiamento. Ma sono le fauci di Spinosaurus ad attirare l’attenzione dei ricercatori: strette, simili a quelle dei coccodrilli, con denti differenti da quelli di tutti gli altri carnivori, conici, estremamente lunghi e ad incastro perfetto. Eppure questa è soltanto una tra le caratteristiche che rendono Spinosaurus unico tra i suoi simili. Infatti anche il cranio, dotato di una fitta rete neurovascolare sul muso e di narici ritratte, le ossa, dense come quelle dei mammiferi acquatici dei giorni nostri e le gambe corte, forti e con unghie piatte, indicano la storia di un predatore terrestre che si sarebbe adattato a passare la maggior parte della propria esistenza in acqua. Si può allora comprendere come Spinosaurus abbia potuto sopravvivere nell’ecosistema del Kem Kem, abitato da numerosi predatori ma povero di prede: pur non essendo un rettile marino, adattandosi a passare molto tempo in acqua Spinosaurus si è potuto nutrire dei giganteschi animali che popolavano i fiumi dell’Africa del Nord. Ed è questo il dato più straordinario degli studi condotti sui resti di Spinosaurus: il gigante del Cretaceo, ad oggi, resta l’unico dinosauro di cui è stato possibile determinare un simile adattamento semi-acquatico!

Dalla terra al digitale

Se il ritrovamento dei fossili di Spinosaurus è stata un’avventura lunga cent’anni, certamente più breve ma non per questo priva di insidie è stata la ricostruzione del corpo dell’animale a partire dai singoli frammenti. Per comprendere le abitudini di un sauro vissuto cento milioni di anni fa è infatti necessario capirne le movenze, a partire dalle caratteristiche fisiche dell’intero scheletro e di tutti quei complessi apparati che lo contornano. Ma di Spinosaurus si hanno solo reperti parziali e la strada per arrivare a determinarne le specifiche è lunga e piena di vicoli ciechi.
La prima tappa, allora, è stata quella di sottoporre i fossili ritrovati da Ibrahim a una tac, grazie alla quale si sono potute scoprire specificità quali, per esempio, la rete neurovascolare sul muso, e quindi aggiungere a queste prime immagini quelle di altre ossa, procurate sia grazie alle scansioni di resti conservati in altri musei, che alle vecchie foto dell’esemplare di Stromer. A questo punto con la modellazione digitale e lo studio di animali tutt’ora esistenti con caratteristiche simili – per esempio il camaleonte crestato per quanto riguarda la vela dorsale – è stato possibile ricostruire le parti ancora mancanti e portare l’insieme delle immagini delle ossa alle medesime proporzioni.
Una volta stabilito lo scheletro è stata aggiunta, sempre digitalmente, la pelle. Questo passaggio è di vitale importanza, perché consente di comprendere non solo la reale dimensione di Spinosaurus nello spazio, ma anche i movimenti che poteva essere effettivamente in grado di compiere.
Nel passaggio dal digitale al modello tridimensionale è stato poi necessario l’intervento di svariati professionisti e artigiani specializzati: per scolpire con una fresatrice l’animale su un blocco di polistirolo compatto, per ricoprire la sagoma, ancora grezza, con uno strato di plastilina e modellarla quindi in ogni dettaglio, in ogni scaglia, in ogni ruga. Con un medesimo procedimento è stato realizzato l’immenso scheletro che si può ammirare nell’ultima sala della mostra, ottenuto con polistirolo, resina e acciaio.
La produzione digitale di queste riproduzioni è assolutamente innovativo e, nella sua parte digitale, fin’ora non era mai stato applicato alla realizzazione di modelli tridimensionali di nuove specie di dinosauri, ricavati a partire da pochi frammenti ossei. Possiamo allora dire che oltre ad essere il primo dinosauro acquatico, Spinosaurus è anche, come scrive Tom Mueller di National Geographic, il “primo dinosauro digitale al mondo”.  Per questo la mostra su Spinosaurus rappresenta un unicum sia per la cura nell’esposizione che per la molteplicità di piani di interesse che va a toccare: è un’esibizione su un dinosauro, ma anche sul ritrovamento dei suoi resti e sulle tecniche usate per rendere la stessa mostra possibile. Andare a visitare questo enorme bestione non è allora solo un indulgere a vecchi ricordi d’infanzia, ma rivela la centralità che gli studi paleontologici continuano a rivestire e le potenzialità che una narrazione accurata sia contenutisticamente che visivamente può avere nella trasmissione scientifica rivolta a un pubblico anche e soprattutto amatoriale.
E poi, non scherziamo, Spinosaurus era più grosso del T. rex.