L’opera di Adrián Bravi è un caso peculiare nelle vicende della letteratura italiana degli ultimi anni. Originario di San Fernando, Buenos Aires, Bravi vive in Italia da un trentennio e scrive narrativa nella nostra lingua da circa venti con esiti significativi, sia in termini di riconoscimento istituzionale che di consenso tra i lettori. Nel 2014 ha vinto il Premio Nazionale di Narrativa Bergamo con il romanzo L’albero e la vacca (Feltrinelli-Nottetempo) e nell’anno scorso il suo penultimo lavoro, L’idioma di Casilda Moreira è stato tra i libri finalisti in lizza per il titolo di Libro dell’Anno della trasmissione radiofonica Fahrenheit-Rai Radio 3. Da segnalare è il piccolo gioiello La gelosia delle lingue (EUM 2017), una raccolta di brevi interventi ibridi, tra l’appunto, il saggio e il memoriale, fluida da leggere come un racconto, che alterna episodi dell’autobiografia linguistica di Bravi – “approdato” all’italiano dal castellano – a brevi interventi dedicati ad autori ed autrici che, per ragioni differenti, sono accomunati dall’essere stati a loro volta ospiti più o meno spaesati in lingue diverse da quella natale. Il mese scorso ha visto la pubblicazione dell’ultimo titolo di Bravi, Il levitatore (Quodlibet “Compagnia Extra”), un breve romanzo dedicato ai casi della vita di Anteo Aldobrandi, il levitatore appunto, protagonista e narratore del libro.

Seguendo una suggestione di Bravi stesso (min. 2.30), la parabola di Anteo può essere accostata a quella del trapezista del racconto Primo dolore (Erstes Leid) di Kafka, il quale, per mantenere la sua arte in perfetto esercizio, vive giorno e notte sul suo trapezio, soffrendo orribilmente quando le necessità della vita lo obbligano a scendere e lo costringono ad abborracciare versioni surrogate di quella condizione beata, come il dormire nella rete portabagagli durante gli inevitabili spostamenti ferroviari da una località all’altra. In uno scritto che corona una silloge di quattro racconti di Kafka (Quodlibet 2009), che comprende anche quello sopra menzionato, Ermanno Cavazzoni suggerisce che le storie raccolte possono essere lette come «sola e insolita meditazione su questo fenomeno che è l’arte di dedicarsi a un’arte», per quanto essa possa essere minima o anomala. Potremmo dire che le peripezie di Anteo, che condivide con il trapezista kafkiano una vocazione aerea, raccontano la storia della difficoltà di dedicarsi alla propria arte e di contrastare quella «levitazione discenditiva», la stessa teorizzata nell’Hilarotragoedia di Manganelli, che spinge continuamente verso il basso l’universo e coloro che lo abitano.

La vita del nostro levitatore, descritto come un dimesso sfaccendato, trascorre tranquilla in un barcamenarsi di attività ordinarie che vanno dalla gestione di parenti un po’ assurdi, come lo zio Rocco e il cugino Kurgs, alle passeggiate al fiume con Plotina, l’amatissima cagnolina, che Anteo, nel rispetto dell’accordo legale stipulato con la sua ex-moglie, può vedere solamente in orari prestabiliti. La serena ripetitività di questa routine, condizione necessaria alla levitazione, viene bruscamente interrotta quando Anteo vede recapitarsi periodicamente da un postino un po’ grullo delle buste verde pastello e di altre tenui colorazioni, che lo trascinano in una vicenda giudiziaria, la «questione Ginetta», che lo ancorerà al terreno, impedendogli da un lato di dedicarsi alla sua arte, ma innescando dall’altro una serie di piccole avventure che gli permetteranno di fare nuove conoscenze. Il tutto è raccontato con uno stile che tende ora alla favola ora all’incubo, sempre con una sottile vena comica che innerva la narrazione: la leggerezza, oltre ad essere tematica del libro, è continuamente esemplificata nella scrittura di Bravi.

 

Come in altri tuoi libri, anche nel Levitatore il protagonista è vincolato a una piccola mania intorno alla quale ricami e che fornisce una sorta di circolarità alla scrittura. Nonostante la progressione delle vicende di Anteo, in qualche modo si torna sempre alla questione della levitazione. Che cosa ti affascina nell’idea dell’ossessione e quali possibilità apre il porre questa idea al centro del tuo modo di raccontare?

Non so perché, ma le ossessioni mi hanno sempre affascinato. Oltre alle tante ossessioni che ho, per la polvere, per l’ordine, ecc., ho anche l’ossessione per l’ossessione degli altri. Dal primo libro che ho scritto in italiano, Restituiscimi il cappotto, le perseguo. Trovo che sia un buon espediente narrativo. In verità, più che ossessioni le definirei chiodi fissi. Prendi un chiodo fisso, lo metti in punto della vita di un personaggio e poi ci giri intorno. I miei libri, non tutti ma quasi, sono deambulazioni intorno a dei chiodi fissi. Non succedono tante cose, ma come nei labirinti, in una breve porzione di spazio, ci sono molti giri intorno a un centro. Penso al personaggio di Il riporto, che passa il tempo aggiustandosi la sua ciocca di capelli o a quello di La pelusa e la sua battaglia contro la polvere di casa. Invece, il chiodo fisso di Il levitatore si gioca sull’impossibilità di poter fare qualcosa di vitale per il protagonista, Anteo Aldobrandi. La levitazione è lo scopo per cui sta al mondo, come una necessità irrinunciabile. Bisogna aggiungere anche che ogni mania, vista da fuori, fa un po’ ridere, no? Ed è questo che mi piace, guardare queste piccole manie a una certa distanza.

 

Alcune frasi che Anteo utilizza per descrivere l’arte della levitazione potrebbero essere applicate anche all’attività dello scrivere. Il levitare permette ad Anteo di «catalogare le microidee», espressione che interpreto come il porre le cose alla giusta distanza e di ridurre quelli che lui chiama i «pattumi della vita quotidiana» a una dimensione più gestibile. Da questo punto di vista lo scrivere e il levitare sono due arti paragonabili?

Non ho mai pensato a questo accostamento mentre lavoravo al testo, per me la levitazione si riduceva alla levitazione stessa, ma pensandoci bene mi sembra che ci sia un’affinità stretta tra lo scrivere e il levitare, secondo la concezione di Anteo Aldobrandi, si capisce. Anche nella scrittura, come nella levitazione, bisogna fare un po’ di pulizia mentale e catalogare le proprie microidee, metterle in ordine per poi riuscire a trovare le varie correlazioni consustanziali. Forse in questo c’è una deformazione professionale, visto che faccio il bibliotecario e catalogo dei libri, cerco il soggetto in base all’argomento, la classe, ecc. Poi, quando mi serve un determinato libro su un argomento preciso, consulto il catalogo di tutte le microidee per trovare quella che mi serve. È un lavoro faticoso che richiede tempo. C’è però una differenza tra il levitare e lo scrivere. Per tirarsi su da terra devi fare appello alle forze cosmiche che in qualche modo ti assistono, insieme a una dote interiore; invece lo scrivere, come dice Celati, chiama in causa le stesse doti interiori, ma è, soprattutto, una attività pratica che ha bisogno di una certa funzione ritmica e di un gusto per il memorabile.

 

Insisterei ancora un momento su questo accostamento fra scrittura e levitazione, che mi sembra molto istruttivo. La nascita della speciale vocazione di Anteo è legata a episodi biografici di mutilazione, penso al curioso episodio del «tutankamino», e più in generale di perdita. Sembra che non esista arte abbastanza minima da non richiedere un prezzo per essere esercitata…

Quell’episodio a cui ti riferisci è nato un po’ casualmente. Non saprei neanche io spiegare come sia venuta fuori l’idea del tutankamino. È entrata da sola nel testo mentre scrivevo quel passaggio e poi ha determinato una parte del racconto. Capita spesso che un particolare ti porti dove vuole lui. Da una parte, potrebbe essere interessante capire come nascono certe manie o certi chiodi fissi; dall’altra, però, sarebbe una delusione scoprire, per esempio, che l’artista del trapezio ama l’altezza per un determinato motivo. Per fortuna non riusciamo a spiegarci tutto e questo ci rende più bella la letteratura. Comunque, per venire alla domanda, c’è sempre uno scotto da pagare o una rinuncia da fare quando ti dedichi alla scrittura o a qualsiasi altra forma artistica; devi sacrificare un dito, anche se è di tuo padre, un orecchio o quello che sia. D’altra parte, sempre attraverso la scrittura, si ha la possibilità di esorcizzare i propri demoni, quelle talpe interiori che ti rodono dentro, plasmandole in varie forme. Credo che la finzione sia un modo per scongiurare quella levitazione discenditiva di cui parlava Manganelli e che tu citavi prima. Le varie forme della finzione sono un espediente ideale per sgravitarsi e staccarsi da quel pattume di incombenze, certe volte inutili, che ogni volta vogliono tirarti giù.

 

In un tuo intervento su Beckett definisci lo stile come «quel ritmo della voce che segna il tempo del racconto». La tua ricerca stilistica, che per te più che per altri scrittori è l’assemblaggio di un italiano ad hoc, sembra essere dopotutto un esercizio di leggerezza: lo si evince dalla tua capacità di selezionare il lessico quanto dalla tua sintassi piana e ariosa, che fa respirare i periodi. Quanto il tuo lavoro sulle parole è un esercizio di “sgravità”?

Credo che quel ritmo della voce abbia molto a che fare con la lingua in cui scrivi. Dentro questo grande corpo grammaticale nel quale ci muoviamo e impariamo a interpretare e a osservare le cose c’è un ritmo e un timbro particolare che uno scopre attraverso la scrittura. Per me, cominciare a scrivere in italiano è significato proprio questo, non tanto imparare a usare una sintassi ma trovare quella voce dentro questa lingua acquisita, o se vogliamo dirla con Deleuze: «dobbiamo avere una lingua minore all’interno della nostra lingua» o, detto in un altro modo, «parlare nella propria lingua come uno straniero». Non vorrei esagerare, ma per me scoprire l’italiano è stato una specie di rinascita. Il mio rapporto con lo spagnolo era diverso rispetto a quello che ho stabilito con l’italiano, anche stilisticamente. Non so se si tratti solo di un fatto di maturità. Questo per dire che l’uso dell’italiano per me è andato costruendosi di pari passo a un “esercizio di leggerezza” e di “sgravità”. Certo, questa «sottrazione di peso», per dirla questa volta con Calvino, passa anche attraverso una ricerca lessicale. Insomma, mi piace pensare che i fardelli della vita quotidiana si raccontino meglio svolazzandoci sopra.

 

Le storie che racconti sono sempre un po’ stravaganti, ma mai in maniera eccedente o esibita. Le pagine del libro sono alonate da una stravaganza sottotono, plausibile, che fornisce al romanzo una sua cifra di assurdità che non sfocia mai nello spettacolo dell’assurdità. Anteo possiede un’idea ordinaria e non-esibizionista delle suo levitare, è una visione che si può estendere anche alla tua scrittura? 

Credo che, con qualche variante, molti dei personaggi dei miei libri siano un po’ zoppicanti e stravaganti, ma senza esibizione, come hai ben sottolineato: c’è uno a cui rubano il cappotto e si barrica in casa, c’è chi vive pulendo le superfici, chi si aggiusta il riporto nella totale solitudine o chi va in giro in barca per le strade del paese inondato; allo stesso modo Anteo Aldobrandi levita chiuso nella sua stanza fuori dagli occhi indiscreti della gente. Lo fa per staccarsi dal mondo e da se stesso (la scrittura è anche questo, uscire da questo io ingombrante e osservare le cose dall’alto, giusto per farcele piacere). Si tratta di personaggi solitari, che si muovono al di fuori dagli occhi indiscreti, senza esibirsi mai.

 

Da La gelosia delle lingue emerge una visione organicistica del concetto di lingua, che è un qualcosa di permeabile, perennemente in evoluzione e suscettibile di apporti inaspettati. In fondo la mortalità delle lingue è uno dei temi principali dell’Idioma di Casilda Moreira. A che punto è arrivato il tuo rapporto con la lingua italiana e come è cambiato (se è cambiato) negli ultimi anni?

In quel libro, La gelosia delle lingue, ho provato a riflettere sul cambio di lingua e che cosa significa passare da una lingua a un’altra. Mi è servito per fare il punto della mia situazione con l’italiano, attraverso il confronto con altri autori che per una cosa o l’altra hanno cambiato lingua anche loro. È un tema che mi sta a cuore. Poi, alla luce di questo saggio, ho scritto L’idioma di Casilda Moreira che è la storia degli ultimi due parlanti della lingua dei günün a künä i quali, a causa di una vecchia storia d’amore, non si rivolgono la parola. Penso che nel momento in cui muore una lingua, muore anche un intero universo e con questo una visione del mondo.

Ora, la mia situazione attuale con l’italiano è la seguente. Penso che due lingue non riescano a coesistere allo stesso livello in una persona, una prevale sempre sull’altra: da un po’ di anni a questa parte (diciamo dopo il 2000 circa, quando ho cominciato a pubblicare qua) l’italiano è diventata la mia lingua dei sogni, della quotidianità, della scrittura, ecc., al punto che il mio castellano si è trasformato in una lingua un po’ scolorita, che con il tempo è andata impallidendo sempre di più. Tuttavia, certe volte, mi sembra di avere la testa in un immaginario prettamente sudamericano, ma investito da una nuova lingua, l’italiano.

 

Lo scorso anno si è festeggiato il centenario dalla nascita di Juan Rodolfo Wilcock, scrittore e traduttore che ha avuto un percorso per certi versi simile al tuo, migrando dall’Argentina all’Italia alla fine degli anni ’50 e iniziando progressivamente a esprimersi letterariamente nella nostra lingua. Quali sono i tuoi rapporti nei confronti di questo autore, che ancora oggi qui da noi fatica a ottenere il giusto riconoscimento?

A Wilcock mi unisce il cambio di lingua, dallo spagnolo all’italiano (anche se io mi sogno di scrivere un italiano meraviglioso come quello di Wilcock), e forse anche alcune strutture narrative che caratterizzano la letteratura rioplatense (passami la precisazione geografica, da prendere con le pinze). Tuttavia, bisogna ammettere che Wilcock è un autore inclassificabile, geograficamente e stilisticamente. Sono bellissime le minibiografie intellettuali di personaggi strampalati, con quel registro pseudo-scientifico o pseudo-filosofico, che teorizzano le cose più strane. Insomma, gli universi wilcockiani sembrano fatti da regole assurde e grottesche, ma sono sempre molto coerenti e rigorosissimi.

Mentre ero in Argentina (sono partito alla fine degli anni ’80) avevo letto solo alcune cose sue, giusto Il caos e I donghi. Quindi, è un autore che ho iniziato a leggere più assiduamente in Italia e da quando l’ho scoperto non ho smesso di leggerlo. Ogni tanto vado a visitare la sua tomba al cimitero Acattolico di Roma, giusto per un saluto.


 levAdrián N. Bravi, Il levitatore, Macerata, Quodlibet, 2020, 208 pp., € 15.