Quando l’umanità sarà composta da umani e robot e il livello di connessione e comprensione interindividuale raggiungerà il massimo grado, non solo non esisteranno più il fallimento e la menzogna, ma, secondo l’androide Adam, neanche la narrativa. Il genere letterario che resisterà a questa accelerazione evolutiva causata dall’immissione di macchine dotate di coscienza sul mercato e, perciò, nella società sarà quello dell’haiku. L’haiku celebrerà le cose per come sono e non si sentirà più il bisogno di ricorrere alla forma-romanzo per raccontare «le interminabili cronache di malintesi» (p.139) che hanno definito non solo la letteratura, ma la nostra identità collettiva in quanto esseri umani.

 

La storia alternativa in cui Ian McEwan ambienta il suo nuovo romanzo, Macchine come me (Einaudi, 2019), coincide con una versione distorta e futuristica dell’inizio degli anni Ottanta, che si discosta dalla realtà storica per incongruenze più o meno evidenti (l’attentato a Kennedy è fallito, la bomba atomica non è stata sganciata sul Giappone). L’incongruenza che ha più impatto non solo sulla storia collettiva, ma anche sulle vicende personali dei personaggi, è sicuramente il fatto che Alan Turing, «il più grande inglese in circolazione, nobile e libero di esprimere il suo amore per un altro uomo» (p.130) nel 1983 sia vivo e vegeto: il matematico non è stato perseguitato per la sua omosessualità, non si è sottoposto a cure ormonali e i trent’anni di vita in più che lo scrittore gli ha donato hanno costituito per il resto della specie umana un vero e proprio balzo in avanti a livello tecnologico.

In questo passato che non è mai stato, in cui «il futuro non smetteva mai di arrivare» (p.7), vengono condensati i risultati dello sviluppo tecnologico e la persona di Turing, personaggio attivo del romanzo, assume il ruolo del salvatore di cui il nostro tempo avrebbe bisogno: dopo essersi speso per diffondere le sue ricerche attraverso risorse open source (che causano tra l’altro la chiusura di riviste come «Nature» e «Science»), Turing si è impegnato per limitare l’epidemia di Aids, ha negoziato la protezione della foresta amazzonica con il presidente brasiliano, ha assunto la figura di benefattore dell’umanità, insomma «[ha contribuito] all’affermarsi di una crescente rivoluzione sociale» (p.39). Rivoluzione sociale che però deve fare i conti con la sconfitta delle isole Falkland subita dalla Gran Bretagna, che costringerà alle dimissioni Margaret Thatcher.

 

C’è un episodio specifico in questo libro che rappresenta il momento esatto in cui è avvenuta la svolta dell’evoluzione tecnologica dell’umanità: la soluzione del problema matematico P e NP (fuori dal romanzo, il problema esiste davvero e non è stato ancora risolto: c’è addirittura in palio un milione di dollari), che sarebbe legata alla possibilità di fornire una capacità decisionale alle macchine. L’acquisizione artificiale della coscienza viene spiegata direttamente da Turing nel romanzo: grazie al machine learning una macchina per poter primeggiare in una partita di scacchi o di go non deve più fare riferimento all’esperienza dei migliori giocatori esistenti e tararsi, perciò, sui dati delle partite già giocate: alla macchina vengono fornite le regole e le viene dato il comando di vincere; nei suoi nuovi modi, quindi, la macchina inizia a vincere, perché

in poche parole, la soluzione di certi problemi è facilmente verificabile una volta che si conosce la risposta corretta. Ma questo significa allora che è possibile risolverli anche prima di conoscerla? Finalmente la matematica diceva sì, è possibile, ed ecco come. I nostri computer non dovevano più setacciare il mondo in base a un sistema di tentativi di errori per approdare alla soluzione migliore. Adesso avevamo uno strumento che permetteva di indicare istantaneamente i percorsi più opportuni per ottenere una risposta (p. 166).

 

Nel contesto di questo miglioramento oggettivo delle condizioni dell’umanità, si innesta la storia del protagonista: il trentenne Charlie Friend non ha avuto un percorso di studi lineare; dopo aver manifestato interesse per l’elettronica, si laurea in antropologia, per approdare alla giurisprudenza e precisamente al diritto tributario. Non ha un lavoro vero, mette insieme un salario annuale «da portalettere» giocando in borsa online; vive sulla sponda sbagliata del Tamigi e ogni cosa, per lui, vale l’altra. Frequenta la sua vicina di casa, Miranda, che alterna stati di disinteresse a manifestazioni di tenerezza. Charlie decide di acquistare un androide, un Adam, con il denaro ereditato alla morte della madre, e nei suoi intenti la programmazione e l’uso della macchina devono corrispondere a un «progetto comune» con la ragazza del piano superiore: un progetto che in altri tempi si sarebbe chiamato mettere su famiglia, fare un figlio e che invece diventa l’esperimento antropologico di un surrogato di genitorialità deresponsabilizzata. Adam, l’uomo artificiale, fa parte del primo stock di androidi con coscienza appena messo sul mercato: oltre a lui ci sono altri dodici Adam e dodici donne – dodici Eve.

Basterebbe l’implicazione della coscienza e l‘immissione di un terzo elemento qualunque all’interno della pseudo-coppia (strategia che l’autore mette in pratica, tra l’altro) per costruire una trama avvincente, ma in questo romanzo McEwan decide di andare decisamente oltre e crea una sorta di trappola per coscienze in cui ingabbia umani e umanità artificiale: mentre i simili di Adam si rendono conto di essere perfetti in un mondo imperfetto, mentre nella quotidianità di Charlie precipita un bambino vittima di violenze familiari e bisognoso di cure e la società sembra arrivare a un punto di non ritorno, è allora che si rivela il mistero dietro la vita, apparentemente banale, di Miranda e della sua vendetta messa in pratica anni prima contro un uomo accusato di stupro. Dunque il comportamento di Adam di fronte a un sistema complesso diventa il nodo centrale di tutto il romanzo: se l’etica della macchina corrisponde a un sistema preventivo di regole basato su una scala di priorità assolute (le regole diventano una fede, diventano Dio), come può un androide resistere in un mondo sottilmente relativizzato in cui l’individuo è dio di se stesso e non risponde che ai propri, fluidi, personali, desideri?

E infatti quello preparato dall’autore sembra un vero e proprio tranello: usa un concetto di rilevanza mastodontica come ‘vendetta’, calato in un brodo di totale fragilità umana per evidenziare la distanza tra ideale e realtà in cui agiscono i personaggi, siano essi uomini e macchine. E nel delirio etico di cosa sia più o meno giusto di qualcos’altro, si consuma, letteralmente, l’esistenza di un androide senza storia. L’acquisizione della coscienza da parte delle macchine, in effetti, sembra essere un problema non solo per gli uomini, ma per le macchine stesse: tutti gli androidi dello stock si rendono conto a un certo punto di sentire il bisogno di affermarsi attraverso la possibilità di provare emozioni; le emozioni entrano però in conflitto con la loro natura strumentale e non sostanziale, portandoli a una alla disperazione. Il limite dovuto alla loro non-umanità, individuato in alcuni punti del libro nella mancanza di un’infanzia e di un percorso di crescita organico e personale è il motivo che spingerà alcuni a cercare di disattivarsi irreversibilmente. L’umano Charlie assiste con disappunto a questa svolta: non riuscendo a empatizzare con la macchina, continuerà a vedere Adam come niente di più di un potente elettrodomestico; micro-conflitti accompagnano la relazione umano-androide per tutto il libro e si esauriscono nell’incompatibilità tra la vita intesa come sistema di compromessi (per Charlie) e vita come aspirazione alla giustizia e al miglioramento individuale (per Adam).

In alcuni punti, soprattutto rispetto alla costruzione di implicazioni esistenziali che servono a dimostrare la complessità delle decisioni umane, la trama mostra un tale agglutinamento di fatti da risultare farraginosa, surreale, in poche parole poco credibile. È però notevole rilevare, ai lati dell’intreccio, la distanza tra il protagonista Charlie che vive la sua vita con disinteresse, come se esistere e soprattutto essere arrivato a 32 anni fosse un fatto che non lo riguardi realmente, e l’impegno dell’androide che cerca di affermare sé stesso attraverso la creazione di haiku e lo sviluppo di un proprio pensiero critico sul mondo. L’avanzo, lo scarto esistenziale di una vita altra che non dipende dalla tecnologia, si sintetizza in informazioni parziali fornite dal protagonista e liquidate con la freddezza di un resoconto impersonale:

andavo soggetto a occasionali crisi depressive, relativamente innocue, di certo non suicide, più episodi passeggeri che scompensi durevoli, momenti come questo, in cui vedevo prosciugarsi ogni scopo e prospettiva esistenziale e sprofondavo temporaneamente in uno stato catatonico (p.101).

Altre incongruenze sembrano esserci nei momenti in cui il piano pubblico e quello privato entrano in contatto, cioè quando Charlie  cerca di non farsi coinvolgere dagli eventi del suo tempo, di restarne a debita distanza, anche se non manca di costruirsi, da saggista e antropologo, opinioni sui disordini che agitano Londra a seguito della sconfitta delle Falkland e dell’introduzione della “poll tax”, una vera e propria tassa sulla vita; e il lettore si rende conto che il processo di evoluzione tecnologica sembra aver agito sulla coscienza di Charlie da anestetizzante, anche se, intorno a lui, tutti sembrano avere un’opinione forte sulla situazione (a partire da Miranda, e da tutti quelli che in pubblico decidono di portare il lutto per la sconfitta subita).

C’è questo stridio di fondo che non permette ai diversi livelli del libro di coincidere in un qualsiasi punto: Charlie è sempre un’eccezione, sia quando decide di acquistare Adam, sia quando la sua voce diventa la voce di una intera generazione. L’umano è poco credibile, e con lui perdono di credibilità gli avvenimenti che lo riguardano. L’interesse perciò non può che condensarsi, durante la lettura, nella ricerca e verifica dei dati forniti, per capire di quanto futuro siano stati imbevuti gli anni Ottanta e quali siano state le conseguenze sociali di uno sviluppo così repentino, di cui si viene messi a conoscenza direttamente dal protagonista:

Potevamo diventare schiavi di un tempo senza prospettive di impiego. E a quel punto? Ci aspettava forse un generale rinascimento, una emancipazione verso l’amore, l’amicizia, la filosofia, le arti e la scienza, l’adorazione della natura, gli sport e i passatempi, la creatività e la ricerca di un significato? Ma non tutti avrebbero prediletto quegli svaghi sofisticati. Anche il crimine e la violenza esercitavano un’attrattiva, come pure la lotta libera a mani nude, la pornografia, il gioco d’azzardo, l’alcol e le droghe, addirittura la noia e la depressione. Non avremmo avuto il controllo delle nostre scelte. Io ne ero la prova. (p.45)

Se da un lato si assiste alla perdita del controllo sull’esistenza da parte di un essere umano, dall’altro scopriamo che chi invece il controllo ce l’ha e lotta per mantenerlo è Adam: se ci si concentra su questo particolare, sarà evidente che esiste nel romanzo un eroe, e che non è umano. Chi risponde a un sistema di principi morali e antepone il bene collettivo al proprio è la macchina; è sempre lui, Adam, il primo vero uomo del futuro, bellissimo e incorruttibile, fortemente legato al significato della parola giustizia, si dimostra immune ai compromessi e alle bassezze strategiche degli uomini di carne che agiscono solo spinti da egoismo e amor proprio.

 

È tenendo presente la premessa iniziale, cioè la teoria sul futuro della letteratura formulata da Adam, che bisogna leggere il romanzo di McEwan: la carica emotiva che avrebbe potuto accompagnare la maggior parte degli episodi di questa storia strana viene smorzata. Lo stile è sempre lucido, con qualche impennata di distacco dedicata alla sensazione di personale fallimento di Charlie e mantiene un tono da cronaca storica, quasi come se la vicenda intera servisse da documento e non da monito (come sembrerebbe alla fine) per l’umanità futura. Questa scelta stilistica ha il suo senso e dà all’opera una maggiore dose di coerenza. Le minuscole e fondamentali differenze tra il mondo che sarebbe potuto essere e quello che invece è vengono evidenziate in funzione della comprensione del lettore prima e solo in seconda battuta servono a costruire l’universo sociale dentro cui agiscono i personaggi e rappresentano in realtà la vera attrattiva di Macchine come me: non è nel desiderio di vendetta dell’uomo, né nella pura tensione alla giustizia dell’androide, tanto meno nel finale razionale, matematico, lineare – come una partita a scacchi, paradossalmente – della storia che risiede la forza di questo romanzo. È nella sensazione tutta contemporanea di annichilimento generazionale che prova (solo) il protagonista; nell‘ansia da prestazione sociale propria di chi è cresciuto circondato da informazioni ma non è riuscito a costruirsi un’opinione forte sul mondo. Nel senso incombente di fine della specie umana che potrebbe essere sintetizzato perfettamente dall’ultimo haiku composto da Adam:

l’autunno a noi
promette primavera
a voi l’inverno. (p.256)


mcewanIan McEwan, Macchine come me, Einaudi, Torino 2019, 296 pp. 19,50€