Mancava nel panorama letterario contemporaneo un romanzo che si occupasse di come i Millennials costruiscono e mantengono relazioni affettive, mancava un romanzo che parlasse di come le coppie nascano soprattutto nei non-luoghi privilegiati per il corteggiamento: i social. Tutto questo mancava prima del romanzo di Roberto Moliterni, La casa di cartone (Quodlibet Compagnia Extra), e continua a mancare anche dopo.

La casa di cartone è la storia di una coppia universale (etero ma anche omo, ricca ma forse un po’ povera) raccontata attraverso capitoli tematici dedicati ciascuno a un diverso mobile Ikea: ci sono il letto, la tazza, il tavolino, la lampada, il copripiumino, l’uomo morto e il portatovaglioli, corrispondenti ciascuno a una fase della relazione. Chiude il libro un breve epilogo, “la luce del Nord”, dove con Nord si intende proprio la terra d’origine dell’Ikea, la Svezia.

La relazione tra i due viene raccontata a partire dal momento del primo incontro, il più delle volte fortuito, in uno dei tanti posti in cui ogni giorno ognuno di noi incrocia un altro essere umano (al bar, sul tram, nelle scuole di ballo, ai matrimoni degli amici) durante il quale l’unico obiettivo di uno è quello di intercettare il nome dell’altro per poterlo poi aggiungere su facebook, preludio alla vera conoscenza, quella che inizierà quando i due, dopo essere diventati amici, inizieranno prima a mettersi like a foto modificate, poi a chattare, faranno sexting, creeranno il presupposto di un interesse morboso che li spingerà a incontrarsi di nuovo nella vita reale:

Solo adesso incominciamo ad avere voglia di realtà: di vederci e di toccarci davvero, quando le parole non contengono più il desiderio. Abbiamo superato la timidezza da analfabeti emotivi e siamo pronti a incontrarci di persona con lo scopo preciso di studiarci e forse di piacerci.

Durante il processo di avvicinamento alla realtà l’autore si limita a sintetizzare, ricorrendo alla strategia dell’elencazione, le azioni svolte dai due, cercando un interstizio di riflessione tra i mega di foto scambiati con frasi del tipo: «Ci chiediamo amicizia come se accendessimo un mutuo in banca: un credito di fiducia preventivo, ovvero ci diciamo amici e poi lo diventiamo». Tesa tra due poli, reportage di tipo sociologico e romanzo generazionale atipico, la trama scorre in questo modo senza alcun intoppo: la relazione tra i due inizia, si sviluppa e giunge a termine senza che nessuna di queste fasi venga problematizzata, analizzata, o almeno attraversata dall’ipotesi di un significato.

Il soggetto narrante è sempre un noi, il cui valore oscilla tra il duale e un plurale più ampio, un noi che diventa portavoce di una generazione intera. La scelta stilistica, per quanto originale, toglie la dimensione della profondità alla narrazione, e rende bidimensionale e unidirezionale anche la relazione tra i due, che viene rappresentata semplicemente come deperimento fisiologico senza traumi nella sua parabola discendente; la relazione attraversa le fasi canoniche, l’innamoramento iniziale, la reimmissione dell’individuo nella società come parte di una coppia, la modifica della routine, la stabilizzazione della relazione, il suo inesorabile disfacimento. La descrizione delle fasi della relazione viene integrata con delle riflessioni generali sullo stato della realtà contemporanea:

I primi tempi scopiamo e basta. Scopiamo a tutte le ore, di continuo. Scopiamo quasi tutti su letti Ikea. Un bambino su cinque, dagli anni Novanta a oggi, è stato concepito su un letto Ikea (tutti gli altri hanno scelto Durex, direbbe una pubblicità). Scopiamo su un Tarva di legno grezzo, chiaro, da cameretta universitaria, se siamo giovani e poveri; su Malm o Hemnes se siamo un po’ più ricchi o più adulti; nei monolocali invece c’è Brimnes, che è un divano-letto a due piazze, di quelli che si estraggono da sotto e che, per scopare, non sono comodi, si possono fare solo certe posizioni.

o anche:

Andiamo e torniamo più volte dall’Ikea, spesso ci fermiamo a mangiare lì. Ci piacciono le polpettine con la marmellata ai frutti di bosco e una strana salsa di colore marrone che non si sa bene cosa sia. Spesso le compriamo surgelate e le portiamo anche a casa. Gli svedesi, come tutti i popoli furbi, hanno capito che gli altri popoli si conquistano più intimamente con la pancia che con le armi: la mafia, in America, è nata nelle pizzerie e, se è stata tollerata, è solo perché, gli italiani, è vero, ogni tanto ammazzavano qualcuno, però, in fondo, facevano anche delle ottime pizze; al contrario, gli americani ci hanno conquistati, nel dopoguerra, lanciandoci pacchi di cibo in scadenza e facendoci vedere nei film quanto potesse essere buono un panino con l’hamburger. Per non parlare della Cina che sta conquistando il mondo con gli all you can eat, mirando alla nostra ingordigia.

Lo stile, oltre la scelta integralista del noi, è un non-stile che ben alimenta ogni pregiudizio sulla narrativa degli ultimi anni: periodi costruiti sulla coordinazione, frasi brevi, brevissime, accumulo di aggettivi, utilizzo quasi esclusivo del modo indicativo e del tempo presente; congiunzioni usate in modo emotivo, punteggiatura che da sola cerca di dare enfasi al racconto, o di toglierla, a seconda del bisogno del momento, riducendo così anche la dimensione della forma a un luogo comune.

E proprio la categoria del luogo comune sembra essere la chiave di interpretazione di questo romanzo: fa da sfondo alla relazione amorosa tra i due una mitizzazione dell’Ikea estremamente naïve, tutta polpette e calca, luogo dell’anima in cui, afferma il narratore, ognuno di noi sogna di rimanere chiuso dentro per una notte intera. Credo che Moliterni abbia cercato in questo modo di descrivere il desiderio bulimico della mia (e della sua) generazione di consumare quanto più possibile – polpette, nel caso specifico – e di poter vivere in un ambiente perfettamente personalizzato e funzionale, in cui tutto è sempre a nostra completa disposizione. Proprio recentemente Chiara Ferragni ha organizzato la festa per i 29 anni di suo marito, il rapper Fedez, in un supermercato Carrefour di Milano; durante l’insolito – ma neanche troppo – party, gli invitati avevano la possibilità di prendere ciò che volevano. L’entusiasmo dovuto al disvelamento del desiderio inconscio comune ne ha però causato l’immediata interruzione: sembra che i followers non abbiano gradito lo spreco, la mancanza di rispetto verso il cibo – culminata nella scena di Fedez che lancia una verza (o forse era una lattuga) contro un suo amico. Le polemiche suscitate dall’evento, sia online che offline, hanno costretto il rapper a scusarsi pubblicamente, ad ammettere di essere stato preso dall’euforia, perché chi di noi da bambino non ha avuto il sogno di trovarsi in un supermercato per poter fare quello che vuole? E il desiderio incarnato non era tanto rivolto alla volontà di vandalizzare, quanto all’ipotesi di poter consumare tutto. La scena immaginata da Moliterni si muove sullo stesso binario del compleanno al Carrefour, ma la letteratura in questo caso non è all’altezza della realtà: perché liquidare il desiderio in una frase banalizzandolo e facendolo scomparire tra un andiamo e un vediamo, tra un dormiamo e un rimaniamo?

 

Si riesce a capire quali fossero gli obiettivi di questo romanzo: spersonalizzare la coppia, rinunciare all’individualismo come religione, diluire i sentimenti nella società dei consumi e (di)mostrare come non esista discrimine tra mobili, persone e esperienze, tutti ugualmente sostituibili e intercambiabili. Un attacco alla coppia, dichiarato fin dall’esergo del romanzo «ciò che rende uguali le coppie è la convinzione di essere uniche», ma anche una riflessione sulla società che da liquida si polverizza, si smaterializza, si perde:

Tutto si trova all’interno di cloud. Siamo investiti da un processo di smaterializzazione della realtà, è finita l’era delle cose. Non più pagare per avere, ma pagare per usare, e quello che possiamo usare è infinitamente di più di quello che possiamo possedere.

Siamo educati, in definitiva, al cambiamento, a consumare la vita, vivere più esistenze e identità in una. Dobbiamo stare in uno stato perenne di adolescenza – quando si può scambiare, senza esserne colpevoli, l’intensità per emozione.

Eppure i presupposti per la riuscita di un libro non solo buono, ma anche interessante, c’erano tutti; non mancano spunti critici che fanno immaginare che l’autore abbia ben più da dire di quello che ha scritto, e a ragione: Moliterni, nato nel 1985, vince nel 2010 il premio Malerba per la sceneggiatura e nel 2014 il Premio La Giara, tra gli altri. E effettivamente nel libro la provenienza cinematografica si sente proprio nello sforzo di rappresentazione di scene peculiari che sullo schermo sarebbero forse arricchite di senso: lo spettatore allora potrebbe liberarsi dal noi generalizzante e concentrarsi su un’espressione, un movimento, un respiro, indizi di vero che sulla carta in questo caso particolare, sarebbe stato necessario esprimere e non sottintendere.

È un romanzo di stereotipi, un elenco puntato di cose che sappiamo già e che sapevamo ancora prima di leggere la storia di questi due anonimi amanti, alimentato da uno sforzo denotativo a volte isterico, altre volte rassegnato a se stesso che trova nell’uso del noi il suo limite assoluto, come se volesse inizialmente dire tutto, contenere tutta la realtà della scena in una sola pagina, ma si accorgesse andando avanti che l’uso del pronome non è un valore aggiunto, ma una gabbia sovraffollata; e proprio il non voler aprirsi un varco rovina tutto il libro: la volontà di includere tutti porta alla sclerotizzazione del tessuto narrativo.

Sullo sfondo, pesa continuamente la morbosità verso i social network, che da luogo di conoscenza si fanno mare in cui affogare di gelosia scrollando i post nel tentativo di storicizzare la vita sentimentale del partner, ma anche oceano in cui perdersi quando la relazione accusa i colpi della noia e del disinteresse. Lo straniamento che l’autore voleva forse realizzare non riesce completamente. Nel finale il crollo di un armadio sembra farsi figura del crollo di qualcosa di molto più importante (rapporti umani? certezza del futuro?):

Bestå, che si pronuncia «bestoa», e in svedese vuol dire «durevole», «che continua a esistere» […] una notte, nel silenzio della casa e del nostro dormire, smette di scricchiolare e crolla, portandosi giù assi di legno e vestiti. Il boato ci sveglia. È l’annuncio della fine.

Al finale in cui il sonno viene interrotto dal boato segue un epilogo in cui il soggetto narrante sogna di essere intrappolato senza rendersene conto nel negozio di mobili, impossibilitato dalla mancanza di ombre (dovuta alla Luce del Nord) a trovare una via d’uscita. Non avevamo bisogno di un romanzo che facesse l’elenco dei social che usiamo per comunicare, che ci consegnasse la lista della spesa delle cose che compriamo quando andiamo a Ikea. Non avevamo bisogno di una storia che nel tentativo di essere tutte le storie non ne è, alla fine, nessuna. Abbiamo ancora bisogno, però, che la letteratura crei anche in presenza della Luce del Nord ombre sugli oggetti, dandoci così la possibilità di orientarci e di trovare una via d’uscita e questo il libro di Moliterni proprio non riesce a farlo.


La casa di cartoneRoberto Moliterni, La casa di cartone, Quodlibet (Compagnia Extra), Macerata 2018, 168pp. 14,00€