Giuseppe, scrittore fallito di mezza età e ghostwriter, separato dalla moglie Benedetta, ormai consacrata al fanatismo new age in una comunità in campagna, si uccide gettandosi dal terrazzo di casa sua. Disperderne le ceneri tocca al figlio Fausto, trentenne inflessibile, venuto al mondo coi denti affilati e autore, con più di un rimando all’autore, di tre romanzi realisti e spietati su figure del neoproletariato romano (“Se il padre avesse scritto la biografia di un re ghigliottinato, lui avrebbe scritto quella del boia”). A Giuseppe, uomo dimesso e rinunciatario, Fausto non perdona di appartenere a una generazione, quella giovane nei primi anni ’70, che ha cercato di cambiare il mondo dal salotto di casa, senza compromettersi né mettere in discussione i privilegi di classe ereditati. Così, la dispersione delle ceneri al Pratone a Roma potrebbe essere il segno della definitiva sepoltura di un padre troppo poco ingombrante. Ma qualcosa va storto. Giuseppe da ghostwriter si materializza davanti a Fausto quale vero e proprio fantasma, non vuole sparire: in un’incertezza fra sogno e realtà, davanti al figlio compaiono le figure di una vita, i personaggi letterari, gli amici, la donna amata (Catia), che accompagnano la guerra silenziosa e infinita che tocca quasi tutti noi, cioè quella fra padre e figlio. Il giovane lo avverte con chiarezza: “Questo duello è l’occasione di trasformare un suicidio inutile in un passaggio rituale che semina futuro”. Ma non è detto, nonostante la sicurezza ostile di Fausto, che la vittoria sarà sua.

Il tema del confronto perturbante col padre è in effetti un classico della letteratura. Senza riandare indietro fino a Shakespeare, Lunar Park (2005) di Bret Easton Ellis si muoveva, non diversamente da Prima di perderti, l’ultimo romanzo di Tommaso Giagni, sul crinale fra messa in figura di ossessioni private, esame di coscienza dello scrittore ed espiazione dello spettro paterno. Colpisce però che premesse simili conducano a esiti opposti: tanto Lunar Park fagocita scrittura di genere (horror) e autobiografia senza sfasature, tanto il secondo romanzo di Giagni appare legnoso, i personaggi mal sbozzati, con le scene che danno la fastidiosa sensazione di essere state concepite a freddo e montate alla rinfusa. E non basta a giustificarle il setting onirico in cui si muovono Fausto e Giuseppe dal secondo capitolo (Al primo sangue) fino a pagina 114, quando Fausto si risveglia sul Pratone (ma le propaggini spettrali e le visioni ci accompagnano fino alla conclusione). Il testo, indubbiamente ben scritto, procede faticosamente, reitera poche idee sul conflitto intergenerazionale: quando, nel finale, Fausto si rende conto di avere anche lui, nonostante gli sforzi, fallito e fatto cenere della realtà che racconta, senza riscattarla (“Ti avventuri fino ai margini, ma torni indietro. Perché puoi tornare indietro quando ti pare. E alla fine lasci il mondo nella sua disuguaglianza”), viene da alzare le spalle, senza grande impressione. Non molto funziona, fra dialoghi sentenziosi in cui i personaggi si rinfacciano torti reciproci finalmente venuti a galla, scene surreali che non s’imprimono (rese in uno stile veloce e scarno che talvolta ricorda una sceneggiatura più che un romanzo) e visioni prive dell’inquietante, fluida chiarezza dei sogni.

Lo sforzo di un tentativo malriuscito trapela soprattutto da due indizi, uno testuale e uno extratestuale. Verso la fine, Giagni riporta un brano di quattro pagine dell’immaginario secondo romanzo di Fausto, Esoticoatto, su un borgataro che si prostituisce a signore borghesi. Leggerlo è una boccata d’aria fresca nella farraginosa teoria di spettri fin lì dispiegata; fa desiderare di leggere quel romanzo e chiarisce che, se Giagni ha talento (e credo sia, dei suoi coetanei, uno di quelli che ne ha di più), esso risiede nel disegno dal vivo, nella restituzione vivida e pensata del conflitto fra generazioni, che al tempo della crisi economica è anche, inevitabilmente, conflitto di classe. L’indizio extratestuale parte da una domanda: perché un trentenne che ha all’attivo un solo romanzo decide di scriverne un altro in cui, invece di narrare, fa il bilancio della sua opera, e in più cala le autovalutazioni in una storia elementare e confusa, a strappi allegorica? La risposta è nell’evidenziazione di un problema che, come per Fausto, è anzitutto generazionale. Prendiamo uno scrittore coetaneo, Paolo Sortino (1983), altrettanto bravo ma meno colto e consapevole, più istintivo di Giagni: dopo l’ottimo esordio di Elisabeth (2011) ha pubblicato Liberal (2015), un romanzo stonato per la disarmonia fra eccesso di teoresi e storia inconsistente, che ricorda un po’ Prima di perderti. Dai passi a vuoto dei due scrittori emerge una verità ostica, ma su cui vale la pena di riflettere: i migliori scrittori italiani sotto i 35 anni sembrano anche quelli che meno di tutti sanno come servire il loro talento e, per assurdo, cosa farsene della letteratura.


giagniTommaso Giagni, Prima di perderti, Einaudi, Torino 2016,142 pp. 16,50€