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Alle origini del weird – Su “Boscomatto” di Ádám Bodor

Fabrizio SinisidiFabrizio Sinisi
27 Febbraio 2019
in Letterature
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Alle origini del weird – Su “Boscomatto” di Ádám Bodor

Ora che il weird è diventato una tendenza affermata e visibile anche da noi, bisognerà guardare intorno anche alla sua tradizione: e costruire un canone. Il Saggiatore, che nella sua collana di narrativa ha, insieme a Tunué, il merito di aver introdotto in Italia una tra le forme più innovative e specifiche della letteratura contemporanea (non è un caso che i due direttori editoriali di Saggiatore e Tunué, rispettivamente Andrea Gentile e Vanni Santoni, siano anche scrittori in proprio e, soprattutto nel caso di Gentile, prosecutori italiani di questa linea), con la sua ultima pubblicazione propone ai lettori italiani il “padre” di una generazione che finora abbiamo conosciuto quasi solo nei testi di Ágota Kristóf e László Krasznahorkai. Ádám Bodor, di cui esce ora il bellissimo Boscomatto, è rumeno, nato in Transilvania nel 1936 ed emigrato in Ungheria nel 1982. Probabilmente il più importante autore di lingua ungherese, nel 2003 ha vinto il prestigioso premio Kossuth. In Boscomatto troviamo infatti il paradigma di questa nuova “letteratura del massacro” che viene prevalentemente dall’est Europa: in lui si raccolgono, condensati, gli elementi cardine di una tendenza tra le più interessanti del panorama letterario contemporaneo.

Innanzitutto, la scomposizione di qualsiasi tradizionale unità narrativa. Protagonista non è una vicenda ma un mondo, perlopiù rurale, primitivo e arcaico, apparentemente senza tempo. Protagonista è anche, potremmo dire, un tono: una lingua insieme raffinata e materica, privata di qualsiasi gradazione di nobiltà, tutta baudelairianamente schiacciata sugli oggetti – eppure estremamente ieratica, severa, senza alcun cedimento a tentazioni mimetiche o naturalistiche.

Il baricentro della narrazione di Boscomatto è la figura del brigadiere Anatol Korkodus, perturbante centro vuoto di tutto il romanzo, intorno al quale si dipana una sinfonia nera di efferate vicende. Un indistinto rimescolio di figure: esseri umani brutali e sfuggenti, silenziosi, simili a demoni o figure ctonie, totem inafferrabili e ancestrali. Ma questa umanità, curiosamente, è anche classificabile come una postmoderna categoria di sottoproletariato: gli abitanti di questi sperduti villaggi in mezzo a un nulla che solo molto vagamente identifichiamo con la zona di Paltin, in Moldavia, vivono in uno stato di estrema povertà, guadagnano un vivere stentato e miserabile. Potrebbero essere i sopravvissuti di un disastro nucleare: poveri esseri feroci in lotta per la propria permanenza. Una vita organica, a metà tra l’umano e il civile: tutto si svolge in una indefinita sospensione sociale, un astratto sfascio post-sovietico da cui è facile che emerga tanto un primitivo ordinamento tribale, come in una microciviltà ai suoi primi movimenti, quanto che scoppino momenti di bestiale anarchia irrazionalistica, anteriore o posteriore a qualsiasi forma di Stato.

Siamo, insomma, fra gli ultimi – e non è un concetto casuale, giacché persiste in Boscomatto una dimensione religiosa, evangelica, che è una costante di questa letteratura: cristiana è la religione praticata in questi villaggi, e demoniaca è la loro natura, in un curioso vangelo rovesciato verso il basso, in direzione dell’infero, da cui si leva a volte una forza ctonia, profetica:

Il silenzio persistente che si protrae sempre di più a un tratto avrà voce. Comincia sospirando piano come una cascata lontana, poi inizia a sfrigolare, dopo, quando ormai rimbomba, s’infuria in maniera insopportabile, ecco che all’improvviso, come se ti zampillasse dentro, il mondo intero ti fluisce gelido nelle orecchie.

Sarebbe difficile, oltre che vano (il testo non consente questi appigli), cercare di collocare questo mondo in una storia e in una geografia. La quasi totale astoricità di questo teatro, in cui il tempo non trasforma e non evolve, è la forma più crudele di tormento. Tutti, come in un girone dantesco, sembrano inchiodati per sempre alla propria azione, al proprio moto uguale, a un ciclo di riproduzione di una natura ferina, terrestre, religiosa quasi suo malgrado:

Era il primo giorno tiepido di primavera. Per un tratto, il profumo inebriante del fior di stecco attraversò il salone sudicio, insieme alle luci zigzaganti, nonostante il finestrino chiuso, ma in seguito, quando il treno superò il valico in mezzo a pendici più mansuete, e iniziò a discendere verso l’abitato, il cielo si coprì completamente, e, dopo una grandinata, cominciò a sferzare i finestrini. Apparvero lembi di fumo marrone sotto nembi che ricadevano bruschi, e anche il vagone si colmò di un odore di fumo pungente, aspro. Come quando da qualche parte bruciano letame.

Alla legge del più forte si affiancano altri culti, altre dimensioni, un rimescolio in cui a cercare di affermarsi non sono i personaggi ma le leggi che ad essi presiedono. L’oggetto di questa lotta, imprendibile e terrestre, apparentemente senza scopo, è sempre una metafisica: tanto invisibile quanto ferrea.

Non c’è traccia di sentimenti, il piano emotivo è sempre ridotto ai suoi termini minimi; non c’è erotismo e non c’è bellezza. Così Bodor descrive un rapporto sessuale:

Fino all’alba non risuonò parola tra di loro, si poteva percepire ogni tanto solo il raschiamento di qualche topo in mezzo alle cianfrusaglie e quel suono serico delle cosce che si stringono tra di loro, schiocchi umidi. Su di loro il flacone con l’alcool di funghi dell’olivo splendeva con un ossessivo barlume opaco, come la luna degli amanti. Sulla fronte di Delfina le stelle del contagio.

Così di Bodor dice proprio Krasznahorkai: «Bodor non conosce, né capisce, il significato della parola amore – se lo interroghi in proposito, ti guarda con l’espressione di chi ha appena morso una mela molto acerba». Tutto rimane uguale. «Quando si legge Bodor», continua ancora Krasznahorkai, «si ha l’impressione che il XX secolo non sia ancora finito. E nemmeno il XIX. E dopo Boscomatto si ha l’impressione che nessun secolo sia mai finito del tutto. I cambiamenti si svolgono in superficie, dice Bodor, nel profondo tutto resta sempre uguale – sempre per lo stesso motivo».

L’unica cosa che sentiamo muoversi e crescere in questo tempo vuoto è l’imminenza di una fine, di cui nulla s’intravede, il suo lentissimo procedere, come qualcosa di troppo grande e troppo vicino perché se ne possa definire la forma. Tutto infatti qui si svolge in un indecifrabile “prima”: è qui la grande peculiarità di questa letteratura. Un “prima” che può quindi valere esattamente allo stesso modo come un “dopo”: chi ha mai detto che l’apocalisse sia un evento e non, invece, un lungo, lento, interminabile processo?


Ádám Bodor, Boscomatto
Il Saggiatore, Milano 2019
307 pp. 22€

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Tags: BodorboscomattoSaggiatoreweird
Fabrizio Sinisi

Fabrizio Sinisi

Fabrizio Sinisi (Barletta, 1987) si laurea presso l’Università degli Studi di Bari – dove conseguirà anche il dottorato di ricerca – con una tesi sulle forme del teatro nell’opera di Giovanni Testori. Nel 2011 diventa dramaturg della Compagnia Lombardi-Tiezzi di Firenze, e l’anno successivo esordisce come autore drammatico con La grande passeggiata, ottenendo la menzione dell’Italian Playwriting Project. Il testo viene tradotto e pubblicato anche negli Stati Uniti. È stato selezionato fra i dieci autori italiani inseriti nel progetto Fabulamundi – Playwriting Europe, nonché finalista di premi importanti come il Riccione, il Testori e il Platea. Collabora regolarmente con i maggiori teatri italiani. È attualmente docente di Scrittura presso la Scuola Flannery O’Connor di Milano e drammaturgo residente presso il Teatro Laboratorio della Toscana e il Teatro Stabile di Brescia. Come poeta ha pubblicato La fame (Archinto, 2010) e Contrasto dell’uomo e della donna (CartaCanta, 2014).

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