Al Festivaletteratura di Mantova 2018 abbiamo incontrato Michela Murgia, scrittrice di romanzi di spicco della cosiddetta Nuova letteratura sarda o Nouvelle vague letteraria sarda, attiva politicamente e la cui opera – anche l’ultimo libro L’inferno è una buona memoria (Marsilio, 2018) – è permeata da una forte carica femminista. Insieme – Francesco Ottonello e Michele Milani (fondatori di MediumPoesia) – abbiamo deciso di porle quattro domande che spaziano su vari temi, dal femminismo alla Sardegna, ma anche dai nuovi media al rapporto con la poesia contemporanea.

FO: Vorrei iniziare questa intervista partendo da alcune parole che hai pronunciato durante l’incontro di oggi: «donne come corollario alle avventure maschili» e «letteratura femminile come sottogenere della letteratura tout-court». Da queste espressioni mi sembra che emerga un sentire rivendicativo contro il sistema eterosessista maschile. Partendo da qui, mi chiedo: pensi che l’etichetta di letteratura femminista abbia un valore nel contemporaneo? Che significato ha per te il femminismo?

Ce l’ha sicuramente. Però parto dal termine rivendicativo. Non userei la categoria della rivendicazione, ma quella dell’emancipazione. Anzi, più precisamente userei il termine inglese – mi dispiace usarlo ma non esiste un equivalente in italiano – empowerment. Cioè, la rivendicazione vuol dire che tu vai davanti ai maschi e dici: vogliamo, chiediamo, pretendiamo. Questa cosa non rompe la relazione, il dislivello di potere. Anzi, vai a chiedere a un altro di liberarti. Non è così che funziona: tutti i processi di liberazione sono processi di autodeterminazione.
Preferisco davvero la parola empowerment perché vuol dire che mi auto-insignisco del potere su me stessa, su noi stesse, e in base a quello mi ridefinisco, cioè rinuncio a far sì che sia l’altro il mio parametro.
Questa cosa vale per tutte le minoranze – nasce nel mondo del black power, arriva al femminismo e passa anche per le lotte della comunità LGBT (non sono gli etero che devono dirti che sei normale, ma sei tu che devi rinunciare alla categoria di normalità stabilita dagli etero). Anche il fatto che la parola stessa contenga in sé la stessa radice di “vendetta” rende evidente il fatto che rivendicare non significa uscire dalle logiche di potere prestabilite.

l'inferno è una buona memoriaFO: Vorrei chiederti ora come la Sardegna ha influito nel tuo rapporto con il femminismo. Mi interesserebbe capire come le tue origini abbiano contribuito a determinare in te una certa visione della donna. A partire, ad esempio, dal tuo romanzo Accabadora (Einaudi, 2009) – termine sardo che indica una donna che facilitando il trapasso praticava l’eutanasia, letteralmente “colei che finisce”- mi è sembrato che la figura femminile e il mondo sardo tradizionale, con le sue pratiche rituali e magiche, abbiano per te uno strettissimo legame.

Chiaramente la Sardegna ha un immaginario femminile molto codificato. Non voglio dire liberante, perché non lo è. È un immaginario responsabilizzante: benché dentro gli stereotipi, le donne sarde sono donne forti, è richiesta una caratteristica di resistenza, di determinazione e di potere, nella misura in cui un sistema patriarcale ti concede un potere. Sicuramente la donna sarda è diversa dalla “madamina” cortese da adorare e corteggiare, non è questo tipo di creatura.
Credo però che questo dipenda da fattori economici, più che da fattori culturali. La cultura pastorale prevedeva lunghe transumanze, con gli uomini lontani da casa. Dunque l’organizzazione della vita sociale cadeva in mano alle donne anche in ambiti che normalmente in altre culture – come in quella contadina – non sono prerogative femminili. Se un pastore sta lontano tre mesi in transumanza perché deve andare dove cresce l’erba e portarci il gregge, tutto il resto del lavoro devono farlo le donne. In questo la mia visione è molto marxista: io credo che l’organizzazione dei fattori economici determini la sovrastruttura. In Sardegna questo è molto vero, tanto è vero che nel momento in cui si esce dalla cultura pastorale e si entra nel terziario tutta questa autodeterminazione apparente femminile rientra (il numero dei casi di violenza denunciati ai centri antiviolenza e tale e quale a quello del resto d’Italia).
Quando dicono “in Sardegna c’è il matriarcato” cosa vuol dire? Finché ci picchiano come altrove, il matriarcato non c’è, è evidente.

MM: Alla fine del tuo intervento hai parlato dell’importanza di dire alle bambine che possono essere qualsiasi donna vogliano, al di là dei soli stereotipi che vengono mostrati o insegnati. Allora vorrei chiederti: quanto secondo te è importante la letteratura per l’educazione? Vorrei chiederti anche se i nuovi linguaggi, i nuovi media, possono aiutare la letteratura nel suo compito educativo, vista la tua esperienza autobiografica – hai detto di esserti avvicinata alla scrittura attraverso un’esperienza di comunità online – e poi la tua attenzione ai social, e penso all’esperimento del romanzo Chirù (Einaudi, 2015) alla creazione del profilo Facebook di uno dei protagonisti di un tuo romanzo.

Soltanto delle persone nate negli anni Novanta potevano farmi una domanda simile. La mia generazione è molto diffidente nei confronti degli strumenti della rete, perché ritiene che in qualche modo il web sottragga e mini la concentrazione, renda il rapporto con la letteratura virtuale e quindi più povero. Io non solo rifiuto la distinzione virtuale / reale – tutto quello che causa una reazione in me è vero – ma credo anche che i social siano spazi narrativi. Facebook è uno spazio narrativo; ditemi voi se Instagram non è uno spazio narrativo. Si vedano le categorie delle Stories o della timeline, la timeline è la prima cosa che fai quando costruisci un romanzo. In realtà, i social sembrano strumenti apparentemente anti-narrativi, ma sono totalmente narrativi.
Infatti, l’esperimento di Chirù, nacque da me, perché volevo fare un’esperienza di questo tipo e capire come le persone si sarebbero relazionate a un personaggio che si poneva come realistico – se non reale. Un esperimento che non hanno compreso neanche in casa editrice. Io cercavo l’interazione, il gioco di ruolo, volevo vedere come i lettori avrebbero interagito con il personaggio. Devo dire che il modo in cui i lettori, soprattutto le lettrici, spingevano sul personaggio ha poi finito per modificarlo.
Per me la narrazione è soprattutto relazione. I luoghi del social networking sono ruoli di relazione, dunque naturalmente narrativi.

FO: Vorrei chiederti, da scrittrice di romanzi, quale rapporto intrattieni con la poesia e nello specifico con la poesia contemporanea?

Più che con la poesia, ho uno stretto rapporto con i poeti. Ho la fortuna di conoscerne molti, di coglierne le intuizioni quando ancora stanno nascendo. Tra i più giovani mi viene in mente Giorgio Ghiotti, che ritengo geniale nella sua precocità e un talento più che riconosciuto. Il riferimento della mia generazione è certamente Valerio Magrelli, ormai mio amico.
I poeti fanno qualcosa che io non riesco a fare: hanno il dono della sintesi del senso, disarticolano la forma della frase rendendola scheletrica fino a lasciare nudo solo il significato. Io questa cosa non la so fare, pecco di prolissità. Per concludere direi che mi affascina sicuramente la tecnica poetica – ancor più della poesia – se devo essere sincera.