Io non considero il mio stato mentale
una visione pessimistica del mondo.
Io lo considero equivalente al mondo così com’è.
(C. McCarthy – Sunset Limited)

La pura superficie è un libro violento e toccante. Entrare nell’habitat  narrativo descritto da Mazzoni è una di quelle esperienze che solo la grande letteratura ti permette di fare. Uscendone, siamo portati a credere, indenni. Programmaticamente la voce che parla in questa raccolta, al di là delle persone grammaticali utilizzate, vuole affermare una visione delle cose senza sfumature, contrapponendola ad altre possibili in modo netto, anche se talvolta nascosto da sentenze poste come semplici constatazioni. La cifra della violenza cui accennavo, prima che stilistica o strutturale, è cognitiva. Mazzoni, all’interno di questa raccolta, che è da intendersi alla maniera di un concept album o di un lungo racconto in forma ibrida, attiva una sorta, per usare un termine caro ai neuroscienziati, di blending cognitivo, mescolando e combinando due o più quadri di esperienza (si veda, ad esempio, il testo Quattro superfici), o di scenari, e creando così, attraverso una serie di slittamenti, qualcosa di alternativo, una mescolanza di nuovi significati: una sorta di mondo ‘vero-finto’ che interseca il nostro, «non è il nostro, ma è indispensabile affinché il nostro viva».[1]

Creando questa realtà, vera e falsa insieme, Mazzoni ci guida, in modo persuasivo, a osservare un lato della verità che, per quanto ovvio per alcuni, molti di noi non vogliono vedere: la vita è quello che è, non ha senso né significato universale, non esiste la speranza, è inutile cercare la pienezza. La convinzione e l’autorevolezza con cui i mezzi si dispiegano per descrivere questa realtà, fanno di questo libro uno di quelli (pochi) da cui è bene farsi ‘arruolare’, perché ci trascinino nel mondo che hanno preparato per noi.

Cosa c’è dunque nel mondo della pura superficie?
La protagonista della storia è, senza dubbio, come già accennavo, la voce. Si tratta di una voce straniata, quasi dissociata, che, utilizzando diverse forme (versi lirici, versi lunghi e meditativi, prosa saggistica e filosofica, narrazione e cronaca) e diverse  persone grammaticali, pretende di essere seguita mentre ci mostra la base illusoria della nostra ricerca di senso. Sul piano della superficie, in una purezza astratta, Mazzoni gioca coi mondi che noi crediamo essere la vita, per smascherarne la natura, ma anche per cercare un dialogo, per quanto difficile, con chi li abita. Siamo noi, tutti noi, a compiere gli stessi gesti, a vivere le stesse mancanze, a fare quei movimenti che appartengono sempre a un tempo precedente, come il marito che allunga la mano per toccare la moglie, che però non è più con lui, o come quella donna, divenuta una mamma come tante. («Ora manda avanti il suo bambino | tra gli alberi del parco […] tra le reti e le altalene che la fanno | così simile a ciò che detestava, “una mamma come tante”»).

La pura superficie è anche uno schermo tattile, uno dei deep media che portiamo con noi e che utilizziamo per creare la nostra realtà. Tramite la pura superficie aderiamo a brandelli di racconto su cui costruiamo i nostri copioni di (non) vita e li difendiamo. La voce narrante che sta al centro della scena nella raccolta di Mazzoni è, nei fatti, come una voce sospesa, presa in un persistente processo di daydreaming, continuo e un po’ allucinato, che ci descrive una realtà che esiste ma non significa («Spesso, quando parlate, io non vi ascolto, | mi interessano di più le pause tra le parole, | ci leggo un disagio che oltrepassa la psicologia, qualcosa di primario»). Questa voce-regista di un’opera concettuale molto articolata, ci porta dentro una narrazione tendenzialmente mono-tonale, dentro uno spettacolo della fine, che risulta convincente e compatto.

Proprio grazie a questa compattezza, il libro danza fra le categorie di poesia e romanzo, fra lirica e saggistica, trovando sempre la misura. Del romanzo troviamo la narrazione pura e la cronaca, il racconto di episodi, frammenti di dialogo e di trame, sequenze riflessive e filosofiche. Troviamo soprattutto il gioco dei punti di vista, le persone che si muovono e disegnano pezzi di vita insignificanti, o l’insetto che cerca di fuggire e continua a picchiare contro il vetro. Della poesia, e della lirica in particolare, troviamo, per quanto rare, le epifanie, gli strappi o le accensioni verticali in cui la vita appare, per un istante, come qualcosa di diverso, di potenzialmente significativo, per poi svanire di nuovo o, meglio, per lasciare come dato ultimo la certezza che la vita non ha senso. Troviamo il ritmo, curatissimo, il gioco metrico e un tono musicale ricercato, nelle sue poche variabili. Ne risulta un libro ibrido, che deve la sua urgenza, prima di tutto, al desiderio che l’autore sente di dirci come stanno le cose, in merito alla pura superficie. Il libro forse non raggiungerà gli apici de I mondi sul pezzo singolo, ma certamente appare più complesso e costruito, un’opera ambiziosa che cerca di restituirci, in uno stile compiuto e autorevole, l’apparire dei livelli dove si intersecano le percezioni superficiali, di cui viviamo, ordinariamente.

Scrivo queste righe poco dopo la prima lettura di quest’opera. Non mi avventuro quindi nell’individuare i nessi strutturali di carattere narrativo, che pure intuisco, l’architettura per tesi e quadri,[2] la visione complessiva dei destini generali declinata nei casi particolari e in minime epifanie. Mi limito a registrare la fatica che questo ‘io’ ha compiuto, e i rischi che si è assunto. Si tratta infatti di un libro che non fa sconti, che sembra dare corpo a una poesia dell’esperienza distaccata, in cui siamo costretti a essere spettatori, inermi, di un naufragio, che dovrebbe essere anche il nostro, visto al rallentatore, in cui non pare esserci spazio per alcuna iniziativa e speranza, pena la non credibilità di ciò che si afferma.

Come per il personaggio di Sunset Limited di McCarthy, denominato BIANCO (di cui si sa solo che è un
professore che è stato salvato dall’altro personaggio, NERO, mentre tentava il suicidio) anche per questa voce la cifra della violenza appare quando si mostra nella sua natura di realtà assoluta. In certi momenti, in questa poesia ‘intelligente’, pare infatti non trovare cittadinanza, se non per essere smentito, il versante immaginifico dell’esperienza, quello in cui diventa significativo arrendersi alla relazione, all’idea di ‘sostenersi’ sopra il nulla nel gioco della vita e, in questo modo, affermare, ciascuno, la propria temporalità in modo autentico e comunitario.

L’enigma dell’esistenza non è però risolvibile in modo definitivo. Ogni visione, anche quella più pessimista, esiste come ipotesi nella nostra mente, funziona come una mappa che non potrà mai restituirci l’immagine dell’intero. Come uno specchio, dentro il labirinto, a noi resta preclusa la visione del panorama ultimo. Forse consapevole di questo Mazzoni costruisce una sezione finale molto mossa, una serie di sei pezzi che fanno il punto e allo stesso tempo aprono nuove riflessioni, regalandoci, forse, un punto di vista inaspettato da assumere per rileggere a ritroso l’intera opera. Mi soffermo, per spiegarmi, su due di questi pezzi: Quattro superfici e Terzo ciclo.

In Quattro superfici la descrizione dello stato delle cose, della vita vista come pura superficie, è paralizzante. L’andamento è quello di una sorta di anatomia della vita compiuto da un medico legale: il procedimento mortuario con cui si guarda la purezza intesa come mero accadimento che, senza oscillazione nel campo del vitalismo, raggiunge l’apice e il finale («Non aderisco a nulla, mi sembra | che non aderiate a nulla, siete la parte che manca | nel vostro mondo, siete un luogo inabitato»), mi riporta alla mente un passaggio di BIANCO quando, verso la fine del racconto, afferma: «La rabbia, di fatto, la provo solo nei giorni migliori. Ma in verità le forme che vedo si sono andate pian piano svuotando. Non hanno più nessun contenuto. Sono soltanto figure. Un treno, un muro, un mondo. O un uomo. Una cosa che penzola con le sue espressioni insensate in mezzo a un vuoto ululante. Senza che ci sia alcun significato nella sua vita».

Poi, dopo un ulteriore importante incontro con un testo da Stevens, troviamo la poesia finale. Ebbene, Terzo ciclo mi ha colpito per una luce inedita. Nella storia dei vari io-monadi che in questo libro concettuale si narra, solo uno, questo io finale, pare risolvere la pura superficie in pura relazione, e quindi in vita significativa. In pochi magnifici versi, due vite, un padre e un figlio, nella consapevolezza reciproca che il primo è alla fine dei suoi giorni, guardano la sala della chemioterapia, un luogo disarmonico («questo muro fuori filo») e di dolore rappreso, parlano del grande campione Antognoni e sono felici di quel momento, di esserci ancora. Questo raggio diverso non si infrange sulla pura superficie, va oltre ogni desiderio precedente e oltre ogni illusione sociale e politica (cfr. la poesia Genova) inevitabilmente delusa. Non so se Mazzoni, in questo episodio, intenda indicare che un significato sia possibile unicamente oltrepassando le parole, che sono la pura superficie su cui
noi poeti poggiamo la nostra scommessa e su cui facciamo, spesso ingenuamente, affidamento; o se invece ci mostri la stanchezza definitiva dopo la fatica. Forse non importa. Basta quello che racconta: le parole non contano per essere felici, esiste solo un contatto, per quanto trattenuto («i maschi non piangono»), esiste lo stare insieme qui.

E mentre guardi le riviste,
le vite dei calciatori in mezzo alle altre larve
nella sala della chemioterapia,
sappiamo entrambi che non vivrai,
sappiamo che non servono parole, perciò
guardiamo la stanza o parliamo di Antognoni
o di questo muro fuori filo, che è fatto male e ti disturba,
hai lavorato nei cantieri, è stata questa la tua vita.
Ma oggi non importa, siamo felici di esserci ancora,
di stare insieme qui, i maschi non piangono, le parole non contano.


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Guido Mazzoni, La pura superficie, Roma, Donzelli, 2017, pp. 80, € 13.

 

 

 

 

 

 

[1] A. Fontana, #iocredoallesirene, UTET, 2017, p. 31.

[2] Cfr. Colangelo, Alias, 8/10/2017

Immagine di copertina: Alberto Burri, Legno e bianco 1, 1956.