Il treno si è fermato alla gare Saint Charles. Aspetti che gli altri passeggeri si alzino pigramente dai sedili, dopo un viaggio di più di otto ore. Lasci che la coda nel corridoio stretto defluisca lentamente, poi prendi il tuo zaino e scendi. Senti in lontananza il suono di un pianoforte, di quelli che hanno messo un po’ dappertutto nelle stazioni d’Europa. Qualcuno sta suonando My heart will go on di Céline Dion, male. Non esci subito dalla stazione, decidi di bere un caffè nel bar vicino ai binari e ti siedi a un tavolino. Sei passata di qui tante volte e, per un periodo della tua vita, questa è stata una tappa del tuo quotidiano. Adesso a Marsiglia torni spesso, appena puoi, per ritrovare quella sensazione che non sai spiegare, quell’aria di casa che hai provato fin dal primo giorno in cui ci sei venuta. Mentre sorseggi il tuo café noisette, non puoi non pensare a quello che è accaduto in questo luogo a te così familiare, meno di un mese fa. Era una domenica, il primo di ottobre. Tu non lavoravi ed eri a casa. Stavi per uscire quando un’amica che vive a Marsiglia ti ha chiamato. “Hai sentito? In stazione, un bordello. Sembra ci siano dei morti, dei feriti, ancora non si capisce. Alla radio hanno detto di non uscire per il momento, perché è in corso un’operazione militare”. Da dove sei seduta adesso, avresti potuto assistere allo spettacolo di morte di quel giorno: verso le tredici e quarantacinque un uomo seduto a una panchina si è alzato e, armato di coltello, ha ucciso due ragazze di vent’anni che stavano aspettando il loro treno. Una passante ha sentito l’uomo gridare “Allah Akbar” mentre colpiva le due vittime. Un attentato, poi rivendicato dal gruppo jihadista État Islamique.

Allah Akbar. C’è qualcosa di dissonante tra il valore che hanno assunto queste parole e il luogo in cui ti trovi. Ma per capirlo fino in fondo, devi uscire da Saint Charles e fermarti alla scalinata che dà sul boulevard d’Athènes. Appena oltrepassato l’ingresso principale della stazione, la luce di Marsiglia ti colpisce gli occhi e devi coprirli con la mano fino a quando la tua vista non si abitua. Un rimescolamento di odori contrastanti ti arriva dritto alle narici: quello dell’asfalto scaldato dal sole, del mare che poco distante ti sta aspettando; l’odore di piscio e sporcizia e quello di spezie e di pane appena sfornato, che proviene dalla panetteria proprio all’angolo del viale. Intorno a te, un via vai continuo di persone di così tante nazionalità diverse che non sapresti nemmeno elencarle. Di sicuro la lingua che predomina, subito dopo il francese, è l’arabo. Di fronte a te, una città bianca, come i calanchi che la separano dal mare e ne percorrono le coste.

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Se al posto di proseguire per il boulevard d’Athènes giri a sinistra, in qualche minuto arrivi alla Belle de Mai, il quartiere che ha ospitato, fino alla fine degli anni ’80, la Manifattura di tabacco. È un quartiere storicamente operaio, tutt’ora popolare, dove si raccoglieva la comunità italiana venuta a Marsiglia per il grande sogno dell’immigrazione. Poi la Manifattura ha chiuso, e dal 1992 nei suoi stabilimenti è stata aperta la Friche, un centro culturale con sale concerti, la sede della stazione radio Grénouille, il cinema Gyptis, delle sale prova, una libreria, uno skatepark. Nelle sere d’estate la sua terrazza si apre al pubblico, e puoi vedere Marsiglia dall’alto al tramonto, sorseggiando un cocktail comodamente seduta su una sdraio, con a sottofondo un dj set alla moda.

Tu però prosegui dritto, superi i banchi dei libri usati della libreria Gibert Joseph senza farti tentare, e percorri il grande viale alberato sentendo montare la smania che sempre ti prende quando arrivi in questa città: vuoi vedere tutto, essere parte di tutto. Ciò che più ti attira sono i marsigliesi. Le loro facce, i loro gesti. Le persone qui si vestono ognuna a suo modo, e puoi incontrare una signora elegante per mano a un uomo in ciabatte e tuta azzurra, con sul petto trionfale il simbolo dell’Olympique Marseille; o una signora in abito lungo e chador che parla concitata alla figlia in pantaloncini e t-shirt. Se fissi troppo qualcuno, capita spesso che questi risponda al tuo sguardo aprendo il viso in un sorriso stupendo. Altre volte invece rischi grosso. Non so perché accade. È Marsiglia. E Marsiglia è prima di tutto una città di porto, che ha accolto in tempi diversi gente di ogni paese, carica della speranza che hanno i naufraghi quando finalmente scorgono una terra che possa salvarli. È questo che leggi in quei volti, che hanno ancora negli occhi il tracollo, ma almeno non sono più soli.

Adesso però devi trattenere il respiro, perché svolti a destra e ti trovi immersa nella caoticità della Canebière, la via più famosa di Marsiglia perché porta al Vieux Port, e così al mare. Continua a camminare lentamente, non avere fretta; le persone che ti ospiteranno stanno ancora lavorando. Inizi a sentire dei profumi forti di spezie e di fritto. Sei arrivata alla fermata della metro di Noailles, il quartiere arabo che si sviluppa in alcune vie traverse alla Canebière. Qui si trova il mercato più grande di Marsiglia. C’è tutti i giorni ed è bello passarci in mezzo e farsi invadere da tutta quella fertilità di colori e parole. Spesso andavi a comprarci qualche frutto che poi ti portavi in spiaggia. O facevi visita all’épicerie che sembra un museo delle spezie. Ti ricordi che un giorno, con tua sorella che era venuta a trovarti, avete fatto un’abbuffata di baklava in una pasticceria che poi non hai più ritrovato.

Avrai tempo per cercarla di nuovo, e per salire quasi correndo verso sera per il Cours Lieutaud, fare le sue scalette e arrivare al Cours Julien, il quartiere dei locali dove il pastis costa poco e trovi sempre un buon piatto di cous cous ad aspettarti. Non vedi l’ora di sederti a uno dei tavoli all’aperto del Cinéma Videodrome, a sorseggiare una birra fresca fumando e chiacchierando del più e del meno con persone che hai conosciuto la sera stessa; di fare incursioni nella piccola libreria di libri usati dove trovi sempre dei tesori da portare via con te. E di andare al Champ de Mars, per l’ultimo bicchiere.

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Mentre pensi a tutto questo, arrivi in fondo alla Canebière, e finalmente vedi il mare. Il primo sguardo al porto, il secondo alla Bonne Mère, Notre-Dame-de-la-Garde, la basilica che posta su un’altura sembra davvero una madre che veglia sui suoi figli, primi fra tutti i marinai. Ti siedi sul molo, poco distante dai banchi del pesce. Di fronte a te vedi l’ombra vicina di alcune isolette: sulla destra, le Îles du Frioul, a sinistra, lo Chateau d’If. Ci sei stata diverse volte, ad accompagnare gli amici che venivano a trovarti e volevano assolutamente visitare le celle di Edmond Dantès e dell’abate Faria.

Avresti voglia di correre subito di qua e di là per tutte le strade che conosci, come fossero degli amici che non vedi l’ora di riabbracciare. Se percorri il Vieux Port sulla sinistra arrivi al parc Borély, il più bel giardino pubblico di Marsiglia, dove la zia Rose e il piccolo Marcel Pagnol andavano spesso a passeggiare e a conversare con un uomo elegante e buffo, poi diventato lo zio Jules. Proseguendo oltre inizia la Corniche Kennedy che dà sulle spiagge. Quando ci vai ti fermi al vallon des Auffes a prendere un caffè guardando le barche e poi cammini fino alla statua del David e le spiagge del Prado, dove tutto è così grande che sembra di essere in America. Più in là poi c’è Les Goudes, con le sue case di pescatori e l’aria di vacanza.

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Se invece vai verso destra, arrivi al piazzale del Mucem; al tramonto è tutto illuminato e, con il profilo dietro di te della Vieille Charité, ti senti una delle persone più fortunate del mondo. Sei fortunata anche perché sai che da lì puoi prendere un autobus a arrivare all’Estaque, tanto amata dagli impressionisti per i suoi colori; lì Robert Guédiguian ha girato Marius et Jeannette, uno dei suoi film più belli.

Ti manca però soltanto un’ora prima del tuo appuntamento, e devi trovare un posto in cui sederti ad aspettare. Non hai dubbi al riguardo, perché c’è un quartiere di Marsiglia che è il tuo preferito e a cui pensi sempre quando sei lontana: il Panier. È proprio accanto al Vieux Port. Sali le scalette che costeggiano la Mairie e giri a destra. Vedi un bistrot che è poi quello a cui sei più affezionata, il Cup of tea, in rue Caisserie. Poi continui, sempre in salita, e inizi a vagare per i vicoli del Vieux Quartier. Adesso il Panier sembra un piccolo borgo turistico, le cui radici popolari riemergono solo quando la grève des poubelles affolla le strade di rifiuti. Fino a qualche tempo fa il suo aspetto era molto diverso. E se lo sai è perché lo hai letto nei romanzi del più grande cantore di Marsiglia, Jean-Claude Izzo, di origine italiana ma nato e cresciuto tra queste strade:

«Vivere al Panier era una vergogna. Da un secolo. Il quartiere dei marinai, delle puttane. La piaga della città. Il grande lupanare. Per i nazisti, che avevano progettato di distruggerlo, un focolaio di infezione per il mondo occidentale. Lì, suo padre e sua madre avevano conosciuto l’umiliazione. L’ordine di espulsione, in piena notte. Il 24 gennaio 1943. Ventimila persone. Una carretta trovata in fretta e furia per stiparci le proprie cose. Poliziotti francesi violenti e soldati tedeschi arroganti. All’alba, spingere la carretta sulla Canebière, sotto gli occhi di chi andava al lavoro. Al liceo, li segnavano a dito. Anche i figli degli operai, quelli di Belle de Mai. Ma non per molto, gliele avrebbero spezzate quelle dita! Manu e lui lo sapevano: i loro corpi e i loro vestiti sapevano di muffa. L’odore del quartiere. La prima ragazza che baciarono aveva quell’odore perfino in fondo alla gola. Ma se ne fregavano. Amavano la vita. Erano belli. E sapevano battersi».

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La Marsiglia di Izzo è quella degli anni ’90, della crisi economica, del rap che grida contro le discriminazioni sociali e lo stato di degrado in cui vivono i figli degli immigrati, che sono francesi o, almeno, così è scritto sui loro documenti. Ora la città sta molto cambiando, per l’azione dello Stato che vorrebbe trasformarla nella capitale del Sud, in un polo di attrazione economica e turistica. Ma non basta nascondere la miseria nelle cités dei quartieri nord e chiamarla racaille con sguardo di biasimo. L’identità di Marsiglia è come l’acqua del mare che la tocca. Se ne frega. Per fortuna.

Sei arrivata a Place de Lenche, e finalmente ti siedi alla terrazza di uno dei tanti bar che la animano. Scrivi un messaggio a un amico che fra poco dovrebbe raggiungerti. Accanto a te hai dei turisti; dall’altro lato una coppia di adolescenti che ridono forte. Più in là, tre ragazzi parlano in arabo e bevono piano le loro birre. Di nuovo di torna in mente Izzo, o meglio, il suo personaggio, Fabio Montale, che un giorno, seduto a uno di questi tavoli, spiega a se stesso e a noi perché è così importante questa città:

«andai a sedermi sulla terrazza, vicino a un tavolo di arabi. “Ma siamo francesi, idiota. Siamo nati qui. Io, l’Algeria, neppure la conosco”. “Francese, tu? Siamo i meno francesi di tutti i francesi. Ecco cosa siamo”. “Se i francesi non ti vogliono, che fai? Aspetti che ti sparino? Io me ne vado.” “Ah sì? E dove vai, idiota, eh? Smettila di vaneggiare”. “Io me ne frego. Sono marsigliese. Voglio rimanere qui. Punto. E se mi cercano mi troveranno”. Erano di Marsiglia. Più Marsigliesi che arabi. Con la stessa convinzione dei nostri genitori. Come lo eravamo noi, Ugo, Manu e io a quindici anni. Un giorno, Ugo aveva chiesto: “A casa mia e da Fabio, si parla napoletano. Da te, si parla spagnolo. A scuola, impariamo il francese. Ma, in fondo, cosa siamo?”. “Arabi” aveva risposto Manu. Eravamo scoppiati a ridere. Ed eccoli lì. A rivivere la nostra miseria. Nelle case dei nostri genitori. A scambiare il poco che avevano per il paradiso e a pregare che durasse. Mio padre mi aveva detto: “Non dimenticarlo. Quando arrivammo qui, con i miei fratelli, non sapevamo se, a pranzo, avremmo avuto da mangiare, e poi si mangiava comunque”. Questa era la storia di Marsiglia. La sua eternità. Un’utopia. L’unica utopia del mondo. Un luogo dove chiunque, di qualsiasi colore, poteva scendere da una barca o da un treno, con la valigia in mano, senza un soldo in tasca, e mescolarsi al flusso degli altri. Una città dove, appena posato il piede a terra, quella persona poteva dire: “Ci sono. È casa mia”».

È casa nostra Marsiglia. Una città-mondo illuminata dal sole del Sud, un sole di mezzogiorno che non permette a nessuno di nascondersi dietro le proprie ombre. Deve essere per questo che senti sempre il bisogno di tornarci. Ma adesso non puoi più continuare a perderti nei tuoi pensieri. Senti che qualcuno da dietro ti sta chiamando. È l’ora di un pastis o di un moresque. Scegli tu.