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Home Le storie

Morte di un toro: Jake LaMotta

Francesco CasatidiFrancesco Casati
25 Settembre 2017
in Le storie, Plancton
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Morte di un toro: Jake LaMotta

Anche i bulli un giorno ci lasciano. Anche se sei il “Bullo dei Bulli”, il Bullo del Bronx un giorno devi fare i conti con la fine: è cosi che a 96 anni ci lascia Giacobbe LaMotta, Jake “the Raging Bull” LaMotta.

Le origini

Se nasci nel Bronx all’inizio degli anni Venti hai due soluzioni per sopravvivere: o diventi un criminale o diventi un picchiatore. E molto spesso le due cose vannodi pari passo. Cosi Giacobbe, figlio di padre messinese e di madre di origini ebraiche – da qui il nome Giacobbe –, trasferitisi a New York, vive la strada e conosce molto presto il riformatorio. Le caratteristiche per diventare un affiliato della mafia locale, un bulletto del ghetto, ci sono già tutte e fin dai primi insegnamenti paterni si capisce da dove venisse tanta rabbia sul ring. Pare che una volta lamentandosi col padre delle angherie di alcuni ragazzoti del quartiere questi gli avesse messo in mano un punteruolo da ghiaccio suggerendogli di difendersi a quel modo.

Jake sfiora il malaffare ma per una questione di centimetri non fa del crimine la propria vita; decide invece di mettere i guantoni e picchiare – letteralmente – chiunque gli si metta davanti.

Oggi siamo abituati a carriere dilettantistiche con numeri impressionanti. Grandi esponenti del pugilato odierno – Vasyl Lomachenko, Gennady Golovkyn, ma anche lo stesso Floyd Maywheather – contano centinaia di incontri da dilettanti, con record inarrivabili, detenuti principalmente dagli esponenti della scuola pugilistica dell’est. In Italia, complici le disastrose politiche del circuito professionistico, addirittura si parla di vere e proprie carriere da dilettanti, i più rinomati Clemente Russo o Roberto Cammarelle non si sono mai tolti la maglietta di dosso. Negli anni della guerra, però, il pugilato è solo un modo per fare soldi, per guadagnare, e il dilettantismo non paga: Jake passa professionista a soli 19 anni, nel 1941, come peso medio.

Il rapporto con la bilancia è da subito dei peggiori, LaMotta combatte al limite dei 70 kili, alto poco più di 1 metro e 70 tra un incontro e l’atro alza l’asticella della bilancia a volte anche di 30 unità. Per chiunque abbia calcato il quadrato è facile immaginare a quali stress fisici si sottoponesse per rientrare nei limiti di peso. Le immagini ben dettagliate presenti nel film di Scorsese Toro Scatenato che lo ritraggono a tavola con una porzione di pasta sufficiente per tre persone sono verosimili; aveva ragione uno dei piu’ grandi maestri italiani  Ottavio Tazio che in splendido milanese diceva che “el pes se fa a taula”.

Brutta la boxe di LaMotta, al giudizio di qualsiasi commentatore. La sua altezza non lo favoriva e persino l’allungo di braccia non giocava a suo favore, e per questo dovette fin da subito sviluppare uno stile di combattimento da cosiddetto “infighter”. Si buttava dentro la guardia dell’avversario, cercando subito il colpo forte, la botta: corto di braccia, gambe poco mobili, difesa non particolarmente affinata, la sola strategia che aveva era quella della rissa.

Per fare la rissa, però, bisogna avere una caratteristica particolare, non avere paura del dolore, andare sempre avanti, verso l’avversario, e non preoccuparsi delle conseguenze dei suoi colpi. Funziona, con avversari che accettano lo scambio, che si mettono lì davanti a te e cercano di colpire più forte di te; ma se hai davanti il Toro del Bronx sarà dura avere la meglio: la “strada” se ce l’hai dentro è un carburante di odio e violenza che non ti si toglie facilmente.

Anni dopo un altro picchiatore ha utilizzato lo stesso carburante, ma in un’altra categoria, quella dei pesi massimi, Mike Tyson, che ha fatto della forza, dell’aggressività  e dell’intimidazione la sua firma sul ring, pur avendo dal canto suo ben altre doti difensive e di mobilità (checché ne dicano numerosi suoi detrattori).

jake_la_motta

La mafia e Marcel Cerdan

Per arrivare in alto, al titolo, alla vera consacrazione pugilistica – ed economica – i pugni non sono la sola arma utilizzabile, gli anni in cui Jake calca il ring sono caratterizzati dal potere mafioso. Il pugilato muove molti soldi, soprattutto grazie al giro delle scommesse, e laddove ci sono molti soldi la mafia è sempre pronta a far passare il cappello.

Frankie Carbo è il signore locale, e per poter ottenere il lasciapassare al titolo bisogna passare da lui, ed ecco allora che quelle origini non proprio aristocratiche, quella prossimità con il ghetto dove si annidano le frange più estreme del malaffare e della criminalità sono una buona referenza per LaMotta. Al signore di New York non sfugge che un giovane italo-americano è in corsa per il titolo dei pesi medi, e si fa presto a contattare un paesa’: Frankie Carbo è figlio di genitori emigrati da Agrigento.

Jake è costretto a perdere un match, quello contro Billy Fox, nel ’47: è questo il prezzo da pagare per il titolo, Cosa Nostra non lo manda a dire due volte e Jake si piega, è costretto, altrimenti qualsiasi sogno, possibilità di togliersi di dosso la puzza del ghetto svanirà insieme al suo orgoglio. Sarà lo stesso LaMotta nel 1960, ormai ritiratosi da 6 anni, ad ammettere l’episodio davanti al Senato Americano che aveva istituito una commissione di inchiesta per fare luce sul sospetto di diversi incontri truccati del periodo – negli States la boxe è una cosa seria.

L’occasione mondiale – con il benestare di Frankie Carbo – si presenta il 16 giugno del 1949, in una Detroit calda. Siamo nel Mid-West, Detroit è una città ricca e popolata,  che fiorisce intorno all’industria automobilistica; i fantasmi del fallimento e della desolazione che conoscerà anni dopo sono ancora molto lontani. Davanti a Jake LaMotta si presenta l’eroe di Franci:, ancora oggi Marcel Cerdan è considerato un monumento della boxe francese, un lottatore anche lui come LaMotta, capace di portare colpi insidiosi e di fare male, distanza ravvicinata, braccia veloci – Tony Zale si era piegato e accasciato sulle corde poco tempo prima, uno che era considerato un assalitore feroce, knock out e il titolo vola a Parigi.

Qualcosa però  va storto per il francese d’Algeria, già dalle prime riprese si capisce che non è il solito e non boxa come dovrebbe, come saprebbe fare; usa solo il sinistro, non riesce a portare i colpi duri con il destro, che tiene vicino al corpo usato per lo più a difesa del fegato. Infortunio al legamento della spalla, questo sarà il verdetto e con esso il titolo fa dietrofront e torna negli Stati Uniti. L’italo-americano ha compiuto il suo destino e al netto di una vita di difficoltà ma con la puzza di ghetto e l’alone di frequentazioni mafiose ancora addosso, è il campione del mondo: meritato, guadagnato sul ring e non venduto.

La rivincita è però dietro l’angolo. L’infortunio di Cerdan ormai è chiaro a tutti e i promoter del francese attivano la clausola di rivincita posta a garanzia in caso di sconfitta. Tutto è pronto per il 2 dicembre 1949: 6 mesi tra un match e l’altro sono sufficienti per recuperare le forze e iniziare un altro campus di allenamento.

Verso fine ottobre Cerdan, che nel frattempo si era recato in Europa per alcuni impegni promozionali, è pronto a tornare negli Stati Uniti, persino troppo in anticipo per il match, ma la sua compagna, l’usignolo di Francia Edith Piaf ,si trova già a New York per alcuni concerti e lui vuole starle vicino. Le isole Azzorre non acconsentono al re-match, il 27 ottobre schiantano il Lockeed Costellation F-Bazn di Air France decollato da Paris-Orly e con esso Marcel Cerdan.

In mancanza di uno sfidante il titolo rimane nelle mani di LaMotta fino a che ancora dal Vecchio Continente arriva uno sfidante. A questo punto la grande storia d’America si imbatte nella periferica storia d’Italia che per l’occasione porta il nome di Tiberio Mitri.

LaMotta-Mitri

Tiberio Mitri

Tiberio è di Trieste, nato nel 1926, un figlio della guerra, che scopre il pugilato più per caso e per ripararsi dal freddo – come lui stesso ebbe a dire – che per vocazione. Sta di fatto che in soli due anni dal suo esordio come professionista – anche in questo caso la carriera da dilettante è pressoché inconsistente – vince il titolo italiano nel ’46 e nel ’49 vola a Bruxelles a prendersi il titolo europeo battendo Cyriel Delannoit, per poi difenderlo successivamente a Parigi contro Jean Stock.

Se la sfortuna di alcuni è la fortuna di altri, per Tiberio la morte inaspettata di Cerdan apre le porte della grande boxe: brucia le tappe, ed essendo il campione Europeo in carica dei pesi medi viene chiamato per andare al Madison Square Garden per il titolo mondiale. Mitri è all’apice del suo successo sportivo, professionale e personale. Tiberio era una star in Italia, quando ancora il pugilato era sport di popolo e i pugili eroi; e poi Tiberio era bello, bello come un attore, come un angelo biondo.

Il 15 gennaio del ’49 10.000 persone erano accorse sul sagrato della chiesa quando si era sposato con Fulvia Franco, Miss Italia 1948, donna dalle forme generose, ancora alfiera di quel movimento tutto italiano delle cosiddette maggiorate. Fulvia vede nella chiamata d’oltreoceano del marito una possibilité di carriera anche per sé, Hollywood, il cinema che conta. Qualche diceria, qualche maligno, ha imputato alla Franco, alla sua smania di calcare i grandi palcoscenici, la poca tranquillità vissuta da Tiberio durante il suo periodo di allenamento. Tiberio non è concentrato, scappa dal campus per andare a telefonare a Fulvia per sapere cosa fa, con chi è, se la sera sarebbe tornata a casa. La gelosia lo divora e lo distrae.

Un’altra verità è che forse Mitri è semplicemente arrivato troppo presto all’appuntamento con la Storia: appena conquistato e difeso il titolo europeo, non si è ancora reso conto delle responsabilità di un campione, della serietà professionale che serve per mantenere un titolo, per dare prova di essere un vero detentore di sigla e non uno dei tanti di passaggio. Nell’altro angolo invece si presenta LaMotta, pugile di mestiere, grande esperienza sui grandi ring.

Si trovano di fronte, uno all’altro, il 12 luglio 1950. Jake ha preparato bene il suo match, è sereno, si aspetta di combattere con Cerdan che lo aveva comunque tenuto a bada con un solo braccio, e poi ha avuto tempo per preparare l’incontro. LaMotta non parte fortissimo, ma è una sua caratteristica: delle prime 7 riprese ne perde 5 ai punti, Tiberio Mitri boxa bene, lo tiene lontano con un jab sinistro portato con precisione e quando si avvicina LaMotta assaggia il montante destro; ma a poco a poco Jake cresce, trova fiducia, Mitri non riesce più a trovare la sua distanza e subisce quella del “Toro” che viene sempre avanti, para i colpi con la fronte, e avanza. Le certezze di Mitri si sgretolano man mano che i round passano, ottavo, nono, decimo. Al tempo i titoli mondiali duravano quindici riprese. A partire già dalla metà del nono round si capisce da che parte volgerà il match: Jake trova il ritmo, esprime la sua aggressività, sa come incanalarla e sfogarla, sa come battere Mitri, e lo batte.

Arriva alla fine della quindicesima ripresa ma non c’è match, non c’è confronto. LaMotta sfotte, abbassa le mani, mostra gli addominali, Tiberio a confronto sembra un’educanda.

Archiviata la pratica Mitri Jake mantiene il suo titolo, ma di lì a poco si sarebbe consumata la sua tragedia professionale.

LaMotta - Robinson

Sugar Ray Robinson: la fine

LaMotta ha già affrontato Ray Robinson, soprannominato “Sugar” data la dolcezza del suo modo di boxare. In ben cinque incontri, Jake ha vinto per unanimous decision il secondo, gli altri tre li ha persi con uguale verdetto, tranne l’ultimo nel settembre del ‘45 dove ha perso di misura e con una split decision: serve una rivincita una volta per tutte, Sugar Ray Robinson non è più un avversario è ormai un’ossessione.

Il 14 febbraio del 1951 è il giorno prestabilito, San Valentino, ma qualle data passerà alla storia come il “massacro di San Valentino”. La ferocia di Jake ha funzionato fino a quel momento con quasi tutti i suoi avversari, e anche con Ray è riuscita a metterlo in difficoltà, lo ha persino messo al tappeto. Questa volta però c’è qualcosa di nuovo. Robinson boxa da lontano, è più alto di Jake, ma soprattuto ha un allungo di braccia inarrivabile per il Toro del Bronx, colpisce, uno, due, tre jab in fila, mette il montante destro ma poi a differenza degli altri avversari di LaMotta, non rimane lì, va via, elude la foga e l’aggressività di LaMotta. Lo comprime fino all’esplosione e poi si allontana, intanto però i suoi colpi arrivano, dall’alto, come una mannaia, precisissimi e belli tesi, lunghi, lontano dalla corte mazzate di LaMotta.

Jake conosce il suo avversario ma il suo fisico è minato da una stressantissima dieta per poter rientrare nei limiti di peso. Lui stesso in seguito descriverà il regime a cui si era sottoposto come qualcosa di impossibile: lunghe e sfiancanti sedute nella sauna, unite ad una dieta stretta, povera anche di liquidi. Jake è molle dentro, non ha le risorse per reggere un tale sforzo, se per dieci riprese riesce a tenere il ring, a essere sul tempo e gestire Sugar Ray, a partire dall’undicesima non ci sono piu santi che tengano. Il Toro del Bronx è affogato nello zucchero, ci pensa Frank Sykora – l’arbitro di ring – a sospendere l’incontro alla tredicesima ripresa, mentre dalla decima Jake guardava il suo angolo chiedendo di gettare la spugna.

13 riprese di sangue, l’immagine di fine match è quella di un LaMotta spolpato, letteralmente appeso alle corde, la faccia gonfia, lo sguardo perso, nel vuoto, non sente piu niente, sia emotivamente che uditivamente. Disse a fine match: «Robinson ha aperto ogni cosa io avessi chiusa e chiuso ogni cosa avessi aperta». Quell’ incontro chiude la carriera di LaMotta, non in senso letterale – Jake continuerà a combattere fino al 1954 -, ma da un punto di vista professionale: infatti non avrà più la possibilità di combattere per un titolo mondiale.

LaMotta corde fine match Robinson

LaMotta si ritira in una fase ormai decadente della sua carriera, ma inizia una nuova vita fatta di cabaret. Ingrassa a dismisura, la faccia gonfia e il panzone, spara battute come: «Una delle mie mogli era una donna davvero strana. Le piaceva fare l’amore sul sedile posteriore della nostra macchina. L’unica cosa che mi chiedeva, era di guidare con attenzione», oppure: «Voi tutti ricorderete Vickie, la mia seconda moglie. Vickie era sempre preoccupata, diceva che non aveva nulla da indossare. Non le ho creduto fino a quando non l’ho vista su Playboy.»

Si ritira a vita privata nel suo quartiere, la solita puzza di Bronx e le amicizie malavitose, sei figli avuti da altrettante mogli di cui l’ultima sposata ormai in tarda età dopo una vita sentimentale molto travagliata e la perdita anche di un filgio, Joseph, nel 1998 a causa di un incidente aereo.

Solo una realtà ci resta, dalla sua storia: Jake LaMotta sul ring era un eroe, ma sotto il ring era un figlio di puttana, che sapeva far ridere.

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Tags: boxeCerdanLaMottamafiapugilato
Francesco Casati

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