È possibile pensare con il pilota automatico, fare cioè ragionamenti tanto lineari e ovvi da concludersi ancora prima di cominciare? Probabilmente sì, anche perché questo tipo di riflessione guida molte delle attività quotidiane della nostra vita. È normale, non se ne può fare a meno ed è necessario alla nostra sopravvivenza.
Quando però ci si rivolge ai filosofi ci si aspetta qualcosa di più: ragionamenti arditi, tesi critiche e autocritiche, prospettive taglienti capaci di illuminare la complessità del reale mantenendo sullo sfondo un atteggiamento dubbioso, critico, vagamente scettico. Esattamente l’opposto del pilota automatico.

Anche la questione del terrorismo, come ogni cosa, chiede di essere affrontata da una prospettiva filosofica. I recenti accadimenti di Parigi, Bruxelles e Nizza (così come quelli negli Stati Uniti) hanno ridestato la fiaccola del pensiero fra gli intellettuali europei riguardo un problema tanto urgente.
La morte casuale, gratuita, globalizzata e guidata da motivazioni oscure getta nello scompiglio la politica e mette in crisi la vita di milioni di persone. Per la sua natura radicale, sconvolgente e destabilizzante, l’argomento richiederebbe riflessioni caute, piene di punti di domanda, alla ricerca di nuovi paradigmi interpretativi in grado di circoscrivere un fenomeno che appare come l’irruzione dell’insensato in un ordine ragionevolmente stabile.

In Francia sembra essersi sollevato un dibattito molto ampio, con riflessioni sulle cause e le conseguenze politiche (ed anche filosofiche) delle stragi. La vastità del dibattito non sembra però essere accompagnata da altrettanta lucidità e profondità di pensiero.
Alain Badiou e Michel Onfray sono due filosofi molto noti, anche in Italia, che recentemente hanno portato il loro contributo circa la comprensione del fenomeno terrorista. Andando direttamente al punto nevralgico, dai libri dei due autori si manifesta una singola ossessione: il capitalismo, meglio se globalizzato. L’Occidente edonista, liberista, capitalista, neocoloniale, globale è il male. Gli stati nazionali (liberisti, capitalisti ecc.) avendo perso la loro autorità – molto rimpianta – hanno lasciato dei vuoti che sono stati occupati dal capitale e da tutto lo strascico di violenza e sfruttamento che questo ovviamente comporta. L’Occidente si merita la violenza che subisce, perché anch’esso è generatore di una violenza se possibile ancora maggiore (sfruttamento, diseguaglianza, survival of the fittest, sterco del demonio, multinazionali, guerre, droni – insomma altri simboli del male) seppur mascherata da una facciata di tolleranza, ricchezza, legalità e democrazia. Tutto questo potrebbe anche essere vero, potrebbe essere meritevole di una discussione, però non ci dice niente del terrorismo.  La ricerca di un brandello per capire qualcosa – non si pretende tutto – si perde dietro argomentazioni superficiali e prevedibili.

Andiamo al libro di Onfray, Pensare l’Islam. Un libro spregiudicato sulla religione, il terrorismo e le responsabilità dell’Occidente. Nonostante ci siano belle eccezioni in ambito filosofico, in genere diffido dei libri-intervista, spesso passerelle cartacee per compensare l’inconsistenza intellettuale. In questo caso la diffidenza si rivela confermata, in questione infatti non sembra essere un libro di Onfray, bensì un libro su Onfray, il quale probabilmente ritiene di avere un conto aperto con la politica del suo paese – problema che lo arrovella molto. Onfray è notoriamente un sostenitore dell’edonismo, del libertinismo (o almeno così sembra dai libri che pubblica in gran numero) e dell’ateismo più à la page. Celebri sono il suo Tratto di ateologia e altri manifesti anarco-edonisti (compresa una Contro storia della filosofia) che campeggiano tutto l’anno nelle librerie. Il libro in questione, tutt’altro che spregiudicato, si dirama fra “dissi” e ”avvisai” rimasti inascoltati – una Cassandra contemporanea -, fra accuse a governi di ogni colore e nazione, e fra citazioni del tutto arbitrarie di passi coranici; ma l’intervista culmina in una piccola perla di automatismo pavloviano.
Lo sventurato intervistatore domanda:
“Secondo lei, quindi, l’Islam condividerebbe con il marxismo rivoluzionario una critica dei valori del capitalismo liberale?”
Onfray risponde:
“Esatto. E condivide con il marxismo rivoluzionario, di cui rimangono alcune tracce nel Partito Socialista, nel Partito Comunista, nel Front de gauche e in certi ecologisti EELV (Europe Ecologie — Les Verts), una critica dei valori della borghesia occidentale, delle logiche del mercato consumista e, allo stesso tempo, del sionismo ebraico e dell’esistenza dello Stato d’Israele. ”

Apice del ragionamento, la soglia del ridicolo è ampiamente oltrepassata: in fondo l’assassinio di centinaia di persone fuori e dentro l’Europa perpetrata da terroristi che inneggiano all’Islam non è altro che un atto di critica. Bisognerebbe dire alle vittime che sono state oggetto di una (banale) critica, di un’osservazione compiuta, e che forse la loro morte è la dimostrazione che un po’ di torto ce l’avevano.
Quindi la colpa del terrorismo è dell’Occidente, della borghesia, del mercato, del consumismo e pure del sionismo ebraico. Che dire, complimenti al marxismo rivoluzionario per gli ottimi compagni di strada.
Non credo servano altri commenti. Alziamo gli occhi e chiudiamo il libro, senza rabbia. Lo riponiamo fra i libri che non avremmo mai voluto leggere e poi nel dimenticatoio. Per fare un favore a tutti, passiamo ad altro.

Il testo di Badiou Il nostro male viene da più lontano (Einaudi 2016) si presenta più solido e ragionato. Un classico pamphlet acuto e raffinatissimo, almeno fino a quando non si comincia a leggerlo. Il male che viene da lontano è chiaramente il capitalismo occidentale, il disorientamento globale, l’assedio liberista (perennemente circondato da un linguaggio da caserma). Da queste premesse è facile arrivare in fondo al ragionamento: un generatore automatico di combinazioni dal tenore tetro e minaccioso. Un barlume di originalità Badiou la tira fuori definendo i terroristi dei fascisti nichilisti, ma corregge subito la valutazione ricordando che nell’odiare l’Occidente, i vili e codardi terroristi odiano l’Occidente che è in loro. Ecco la banalità, l’ovvietà senza critica, il capovolgimento di fronte: è colpa dell’Occidente, sempre. Non puoi sbagliare, perché la soluzione è sempre quella, confermata dal seguente paradosso che forse Badiou approverebbe: l’affermazione violenta della verità è la verità della violenza capitalista. In altri termini, quando si afferma una verità si è sempre nel torto. L’islamismo è solo una causa estrinseca e accidentale, ciò che motiva i terroristi è l’Occidente che alberga, frustrandoli, nei loro spiriti.

Il volume si conclude con l’auspicio di alternative politiche radicalmente “altre” rispetto alla globalizzazione neocoloniale e all’egemonia del capitalismo per le masse di diseredati che affollano il mondo. Non c’è spazio per i dubbi, Badiou ha ragione, è la sua logica del mondo. Aspetteremo insieme a lui. Anche se sulle prospettive future bisogna fare almeno una menzione allo straordinario libro Comunismo ermeneutico. Da Heidegger a Marx (Garzanti 2014) di Santiago Zabala e Gianni Vattimo, che racchiude grandi momenti di comicità tragica a partire dal titolo a suo modo geniale: la via è tracciata, l’alternativa al capitalismo globale passa attraverso i successi economici e filosofici del Venezuela. Chapeau.
In tutto questo abbiamo imparato qualcosa sul terrorismo? Abbiamo appreso qualcosa sulla sua genesi e i suoi moventi? Non sembra. Badiou ha ragione e questa è l’unica verità che sembra contare.

Caso più controverso è il libro di Slavoj Žižek, filosofo globale (forse controvoglia), anch’egli assai prolifico e capace di una sintesi impenetrabile fra cinema contemporaneo, Lacan, Marx ed Hegel.
Il suo libro Islam e modernità (Ponte alle grazie 2015) è diviso in due parti: la prima è molto interessante; mentre la seconda è dedicata ad una ricognizione religioso-lacaniana della genesi dell’Islam e del suo ordinamento simbolico ardua per chiunque non sia un adepto della psicoanalisi seminariale di Lacan.
Nel primo capitolo Žižek procede effettivamente tramite la demolizione delle banalità occidentali (incarnate anche da Onfray e Badiou), approfondendo il rapporto ambivalente dell’Islam con la modernità e con l’Occidente che pone quella stessa modernità. I fondamentalisti sono allo stesso tempo affascinati e turbati dalla vita peccaminosa dei non credenti. Ma questo non basta, Žižek va più a fondo: è lo stesso sentimento di inferiorità a spingere i terroristi ad affermare la propria identità culturale e religiosa contro un mondo che li ripugna ma di cui fanno parte, almeno parzialmente. Il problema del liberalismo occidentale sarebbe quello di produrre lo stesso fondamentalismo che lo detesta e che solo l’intervento di forze di sinistra potrebbe arginare. Le forze del male e del bene, entità ormai mitologiche, si scambiano continuamente la veste.

Un’altra riflessione compiuta da Žižek interessa più da vicino il rapporto dell’Islam con la modernità. Nonostante il contenuto ideologico avanzato dall’ISIS sia connotato in maniera premoderna e si rivolga contro la globalizzazione, è indubbio che la forma comunicativa dei fondamentalisti sia tipicamente moderna, anzi sia ultramoderna come mostra l’uso consapevole e spregiudicato degli strumenti del web (immagini, video, social, operazioni finanziarie). Una modernità deformata, perversa, rivolta al sostegno di un pensiero (o, meglio, di un tentativo di pensiero) reazionario, gerarchico, segregazionista e oppressivo. Che dire allora del liberalismo e dei suoi valori? Žižek sostiene che non sia sufficientemente forte da difendere le libertà che propugna contro gli attacchi del fondamentalismo.

Žižek in generale sembra più disposto a non mettere sotto accusa solo l’Occidente nonostante anch’egli inciampi in certezze nient’affatto tali. L’idea, condivisa dagli autori richiamati, che l’Islam o il fondamentalismo di matrice islamica possa essere in qualche modo la “coscienza critica”, la manifestazione del lato oscuro del mondo occidentale, e quindi, hegelianamente, la sua verità, mi pare una tesi molto forte e tutt’altro che evidente o assodata. Forse varrebbe la pena pensarci ancora un po’. Potenti razionalizzazioni hegelo-marxiste del fenomeno terrorista conducono al suo depotenziamento, inquadrandolo in una griglia già pronta, mentre forse bisognerebbe costruire nuovi occhiali da vista e nuove prospettive per una realtà che fugge e che continuamente ci interpella, con dolore. Credendo di rendere giustizia a quanto avviene, giustificando quindi fra le righe l’esplosione di orrore e di sofferenza – “non si poteva non arrivare a questo punto” è l’ultima spiaggia del pensiero – si assottigliano le responsabilità individuali per addossarle a entità tanto vaste quanto sfuggenti.

Pensare filosoficamente un problema richiede uno scarto, una frattura, dallo scorrere della storia e della realtà. Lo scarto non serve per nascondersi nell’empireo ideale e immobile del concetto, ma per rivedere quella stessa realtà in modo diverso, trattenendo il fiato per capire cosa significa respirare. Ripetere banalità risalenti a paradigmi politici superati non aiuta, poiché sono intrisi di storie antiche, di sottointesi inespressi, di lacerazioni rimarginate e non, di verità stantie e di utopie reazionarie che proprio il terrorismo, così come lo stiamo vivendo, sta distruggendo. Il terrorismo è la nemesi dell’Occidente? L’Occidente, qualunque cosa esso sia (complesso di valori, modello economico, realtà politica?), è il motore della propria meritoria distruzione? Mi sembra ci siano tanti sottointesi in questo tipo di domanda, tanti presupposti, anche e soprattutto metafisici, su cui si dovrebbe tornare a pensare.

Il pilota automatico non rende più facile l’attività del pensare, ma la rende superflua.