Una cucina funzionale tipica degli anni 70. Gérard Depardieu è seduto su una sedia, dà il biberon a un bambino di nove mesi. Dietro di lui la finestra della cucina si affaccia sul palazzo di fronte, cemento e finestre illuminate. È il crepuscolo urbano. Gérard si lancia in un dialogo improbabile a una voce sola con suo figlio che poppa. Parla del fatto che le donne hanno un destino loro, ma che anche gli uomini ne hanno uno. Manca la libertà di essere differenti dal modello patriarcale. Dice: avevamo tutti i diritti… bei diritti! Scopare… sarebbe facile… naturale, tranquilli, soddisfatti, si scopa in pace, come si deve, niente problemi… Mah!… E invece no… C’ho la testa troppo piccola io per capire cosa vuole… Mi sfinisce, mi sfinisce, hai capito? Non so perché…

Primo piano di un Depardieu appena ventottenne, una carica sensuale incredibile, una forza della natura. Frena Pierino, sei troppo ingordo, non far finta di non capire… piano. Mette il biberon sul tavolo e poi anche il bambino, proprio di fronte a lui. Cerca il suo sguardo. Sei mio amico? Mi farai compagnia? Devi essere amico mio, io sono solo. Solo e disperato. Tocca il pisellino di suo figlio. Ride. Adesso Pierino, cosa ci resta? Il diritto di portare l’uccello… l’orgoglio del cazzo non ce lo vogliono togliere, no?… dovrebbe cambiare il modello… stammi a sentire…

Campo medio, la porta della cucina e la porta della camera nella stessa inquadratura. Ornella Muti esce dalla camera e va in cucina. Chiede a Gérard per quale motivo abbia svegliato Pierino. Perché io… sono solo… Lei risponde: E io? Non sono sola, io?… Pierino si mette a piangere. Ornella Muti lo porta con sé in camera da letto. Gérard, rimasto solo, comincia a giocherellare con un coltello elettrico, prodigio della civiltà consumistica. In due sorsi si tracanna una bottiglia di vino bianco. Si alza in piedi, si sbottona i pantaloni e con un gesto deciso si evira. Si mette a urlare. Ornella Muti accorre con Pierino in braccio che comincia a piangere spaventato. Lenta zoomata all’indietro. Gerard, inginocchiato con le mani insanguinate, si fa sempre più piccolo. Stacco. Un’altra zoomata lenta all’indietro, questa volta sulla facciata di un edificio di cemento bianco, cosparso di un’infinità di piccole finestre impenetrabili. Qualche balcone. Poi, l’immagine finale: campo lungo su un lago artificiale bordato di alti edifici moderni. Il tutto immerso in una luce grigiastra di una tristezza indicibile.

Così finisce L’ultima donna di Marco Ferreri, film girato nel 1976 à Créteil, nella banlieue parigina. Gerard Dépardieu e Ornella Muti ne interpretano i due personaggi principali.

Créteil si trova a 9 chilometri di distanza da Parigi. Ci arriva la linea 8 della metropolitana e fino alla metà degli anni Cinquanta era ancora una cittadina dal carattere essenzialmente rurale. Poi, nel 1954, iniziano a costruire il quartiere di Mont-Mesly, 6400 appartamenti ripartiti in 148 palazzi su un terreno di quasi 90 ettari. Bisognava assorbire l’esodo rurale, dare un alloggio ai numerosi immigrati che venivano a cercare lavoro nell’area metropolitana di Parigi. È solo l’inizio. Nel 1965, Créteil diventa il capoluogo del nuovo département Val de Marne, l’ubanizzazione continua e, agli inizi degli anni Settanta, la città beneficia di un nuovo piano urbanistico, chiamato Nouveau Créteil, che si ispira ai quartieri monofunzionali delle città inglesi.

Costruiscono altri palazzi. I famosi choux per esempio, dieci torri rotonde che isolate dal loro contesto hanno un certo fascino vagamente futuristico. Il loro nome, “cavoli”, viene dai loro balconi che assomigliano a delle foglie di cavolo e che avrebbero dovuto essere vegetalizzati. Quasi un antenanto transalpino del Bosco Verticale milanese. Solo che a Créteil, nei “cavoli” ci vanno ad abitare le famiglie delle classi popolari e qualche spaurita famiglia della classe media.

Costruiscono un centro commerciale, uno dei primi e dei più grandi di Francia. Costruiscono una questura, un tribunale, un palazzo del comune e altri palazzi sul bordo di un laghetto artificiale. Perfino un hotel, un cubo di cemento con una piscina e delle camere iperfunzionali ma striminzite e tristissime.

Marco Ferreri, nel 1976, ha già fatto tre “film francesi”: La cagna, La grande abbuffata e Non toccate la donna bianca. Al centro di Non toccate la donna bianca, girato nel 1974, c’è il ventre di Parigi, Les Halles, i mercati generali descritti magistralmente da Zola quasi un secolo prima. Negli anni Settanta, i mercati vengono rasi al suolo per fare spazio a un enorme, spaventoso, infernale centro commerciale oggi in corso di riqualificazione. Due anni dopo, dall’ipercentro capitalista parigino, trasformato in spazio metafisico, Ferreri sposta la sua cinepresa su un altro aspetto dell’organizzazione spaziale capitalista: la periferia.

Giovanni (nella versione francese si chiama Gérard) fa l’ingegnere in una grande fabbrica. Deve tirar su da solo un bébé di nove mesi perché sua moglie ha abbandonato la famiglia per consacrarsi interamente al movimento femminista. Obbligato dalla fabbrica a prendere un mese di vacanza, inizia una relazione tempestosa, carica di un intenso e violento erotismo, con Valeria, la dolce e bella ausiliaria che si occupa di suo figlio nell’asilo nido aziendale.

L’ambiente urbano di Créteil, con i suoi palazzi di cemento, il suo scuro centro commerciale e il suo laghetto articificiale quasi sempre deserto e desolante, piano piano, nel corso del film, perde una precisa, specifica connotazione geografica. I personaggi potrebbero essere ovunque, in una qualsiasi periferia, in uno spazio impersonale, in apparenza completamente slegato dalla loro esistenza e dai loro destini. Tranne che, come ha dichiarato lo stesso Ferreri, è proprio l’ambiente esterno, così orrendamente indifferente, a scatenare la nevrosi familiare che porta Giovanni alla castrazione.

E allora, il film si concentra su un huis clos decostruente e decostruito, nel quale un uomo prepotente e “patriarcale” si svuota dall’interno, fino ad annullarsi simbolicamente con la perdita del pene, e una donna, una specie di Madonna archetipica, cerca con fatica e incertezza, un modo nuovo di essere donna. Fuori c’è il femminismo, la società industriale e consumistica, e le nuove periferie impersonali.

Quello che resta impresso, dopo la visione del film, non sono tanto i dialoghi che peccano per didascalismo e che sono oggi decisamente invecchiati male. No. Quello che resta sono i corpi nudi e straordinari di Gerard Depardieu e di Ornella Muti, che si muovono in un appartamento che non è più un appartamento, ma uno spazio difficilmente definibile, reinventato.

Resta anche il modo splendido che aveva Ferreri – e che aveva anche Antonioni – di filmare i nuovi spazi urbani della modernità, cogliendone tutte le potenzialità estetiche nonché simboliche. Ne L’ultima donna, il nuovo Créteil non è soltanto uno spazio urbano desolante e inumano, si carica di una polisemia straordinaria e anche di una sua innegabile bellezza destabilizzante.

Ho vissuto per alcuni anni a Créteil, nella parte vecchia però, e ancora adesso mi capita di andarci per questioni di lavoro o altro. La parte nuova, quella degli anni Settanta, è rimasta sostanzialmente identica, i palazzi sono stati rinnovati recentemente, alcuni piani di riqualificazione urbana più o meno riusciti, una grande moschea proprio vicino al lago artificiale, una bellissima médiathèque su una piazza assediata dai palazzi. La popolazione cambia un pochino, piano piano, qualche rappresentante della classe media in più, ma siamo ancora lontani dai fenomeni di gentifrication che hanno cambiato il profilo sociologico di alcune cittadine di banlieue. Come Montreuil per esempio, dove fotografi, artisti, insegnanti, scrittori e musicisti in male di precarietà hanno preso il posto di una popolazione sostanzialmente proveniente dall’immigrazione e che è stata costretta, da parte sua, a spostarsi sempre più lontana dal centro. Perché, per adesso, il centro rimane sempre il centro, anche all’epoca delle città diffuse.

E il centro di Parigi – diciamo i primi nove arrondissements – è davvero sempre più centro. Spazio ormai terziarizzato, se non addirittura quaternarizzato. Spazio occupato da gente sempre più ricca, barricata in lussuosi appartamenti haussmaniani. Quasi un museo, dove ci passeggiano i turisti e dove la miseria ci penetra solo per il tramite di qualche barbone. Bere un caffé in terrazza costa minimo 2 euro e 50. Vi lascio immaginare il prezzo delle altre consumazioni. I ceti medi ormai non vi ci abitano più. Ci vengono il week end a farci una passeggiata, un giro a bordo delle velib (le bibiclette a noleggio) con il rischio gratuito di andare a finire sotto un autobus. Ci vengono per guardare le vetrine degli stessi negozi che trovano nei centri commerciali di periferia. Zara, Minelli, H&M, Célio… Ci vengono per andare in qualche ristorante temporaneamente alla moda consigliato da Télérama o Madame Figaro. Oppure per scovare qualche negozietto un po’ alternativo, ma poco abbordabile, nel Marais, quartiere generale della comunità lgbt.

A Saint-Germain e nel quartiere latino c’è ancora qualche “cave” dove si esibiscono svogliati musicisti jazz, ma insomma siamo lontani dall’atmosfera germanopratina degli anni Cinquanta, quando ci potevi incontrare Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, ascoltare la voce inimitabile di Juliette Gréco e la trombetta surreale di Boris Vian. Quando il miscuglio sociale esisteva ancora e faceva battere il cuore della città.

Il centro adesso è un bellissimo museo, vasto centro commerciale, dove però si fa fatica a sentire il pulsare della vita.

 

Tuttavia, se siete a Parigi e vi capita di prendere la linea 8, tra Reully-Diderot e Pointe du Lac, noterete un sacco di grandi borse di carta marrone con una scritta blu. Sono quelle della catena di negozi d’abbigliamento Primark, specialista dell’ultra cheap. La marca ha aperto un anno fa un negozio nel centro commerciale Créteil-Soleil. Un successo da paura, delle code chilometriche per entrarci e per comprare magliette, maglioni, pantaloni e camicie per un pugno di euro. Persino i Parigini ci vengono, caso raro e curioso per cui dal centro si va in periferia.

Tra poco ne arriverà uno anche a Brescia. In Italia. Come in quasi tutta Europa, del resto.

 

 

 

 

Nota al testo: grazie a Gabriele Rigola per alcuni spunti interessanti sul cinema di Marco Ferreri.