Abbiamo incontrato due Wu Ming alla presentazione milanese del libro L’invisibile ovunque: una festa mobile nelle stanze del centro sociale Cantiere e della libreria Don Durito tra riflessioni letterarie, dibattiti politici, una cena salentina e la musica del Wu Ming Contingent. È lì che abbiamo visto le prime copie del nuovo libro: dopo tante centinaia di pagine collettive dai tempi di Luther Blissett, L’invisibile ovunque raccoglie quattro racconti, quattro variazioni sul tema efficacemente espresso dal titolo.
Così è nata questa intervista in cui i Wu Ming ci spiegano perché, congedatisi con L’armata dei sonnambuli dal romanzo storico, hanno scelto quattro “vie di fuga” dalla guerra per inchiodare il primo conflitto mondiale al suo orrore.

 

Dopo tanti voluminosi romanzi collettivi, ci sorprende la piccola misura de L’invisibile ovunque e la scelta della forma racconto, come in una suite musicale di 4 movimenti distinti fra loro. I protagonisti però – chi dalla linea del fuoco (ma senza disertare!) o da un ospedale psichiatrico, chi nei “ricordi surrealisti” o da un Laboratorio di Mascheramento – si muovono tutti verso un unico grande scopo: l’evasione, più o meno metaforica, dalla Grande Guerra. Perché, dopo Gert dal Pozzo, Le Grand Diable o De Zante signori delle armi, avete invece scelto questo “margine” e traiettorie così diverse per spiegare la Prima Mondiale? 

Per la maggioranza dei cittadini europei, la guerra fu una terribile imposizione. Alcuni stati, come la Francia, sperimentarono per la prima volta la mobilitazione generale di tutti gli uomini abili alle armi, arrivando ad arruolare il 20% della popolazione, ovvero il 63% dei cosiddetti “lavoratori validi”. L’alto numero di volontari è indice di un’adesione ideale che va considerata, ma che rischia anche di essere fraintesa: partire volontario, almeno in Francia, significava poter scegliere la propria collocazione. Per questo, di fronte all’alta probabilità di essere chiamati, molti uomini scelsero di presentarsi spontaneamente, per poter godere di quel piccolo privilegio. I personaggi dei nostri romanzi precedenti scelgono di combattere e impugnano le armi come strumento di difesa, di ribellione oppure per costruire ambigue utopie. Nella Grande Guerra, la massa dei soldati si ritrovò in trincea come ci si ritrova coinvolti in una catastrofe naturale. Certo, ci fu il cosiddetto “interventismo democratico”, ma fu tanto limitato quanto disastroso. L’opinione pubblica italiana non era favorevole alla guerra, tanto che l’intervento fu il risultato di un golpe bianco, ordito dal Re e da Salandra nelle stanze del potere.  Di fronte a questa situazione, abbiamo deciso di raccontare storie di fuga dalla guerra, strategie per evaderne, anche nel caso di chi – come Adelmo Cantelli – è partito volontario, per poi scoprire che la vita da topo del fante in trincea non è quella che cercava.

 

Da un punto di vista narrativo – e quindi anche stilistico – si nota una specie di climax tonale nei primi 3 racconti (il quarto è un saggio “a piè di pagina”…) visto che si passa da un esile contadino che si arruola volontario per fuggire al lavoro dei campi, a un cittadino borghese intenzionato a simularsi pazzo per non tornare al fronte, fino a nientepocodimeno che André Breton. Per tutti e tre un’evasione nell’evasione e infine, nell’ultimo racconto, ci si sposta dalla prima linea a un Atelier de camouflage perché il conflitto, anzi l’invisibile è ovunque. Ci spiegate questo concetto essenziale di guerra “permanente” lontano dalla trincea?

La nostra impressione è che la Grande Guerra fu una novità anche da questo punto di vista. Una novità destinata a diventare la norma tragica del Novecento e a quanto pare anche del nuovo Millennio. Alcuni storici, rispetto alla mobilitazione generale, hanno parlato di un ritorno alla “guerra primitiva”, quando ancora non esisteva una classe di guerrieri, e tutti gli uomini di una tribù partecipavano alle battaglie, senza distinzioni. Da questo punto di vista la Prima Guerra Mondiale sarebbe un paradossale ritorno alle origini. L’aspetto nuovo consiste nell’invisibilità del conflitto e nella sua ubiquità. Anche in questo caso, i tempi antichi avevano conosciuto guerre senza retrovie, senza una distinzione tra campo di battaglia e villaggio. Invasioni barbariche, razzie, scorribande vichinghe e assedi avevano già mescolato lo spazio dei guerrieri con quello dei cittadini, mettendo tutti sotto una potenziale minaccia. Con la differenza che quella minaccia era ben visibile, aveva una forma nota e, per quanto estesa e virtuale, non arrivava mai ad abbracciare un territorio vasto quanto una nazione. Da qualche parte, ci si poteva mettere al sicuro. Si poteva fuggire.

La Grande guerra invece è invisibile e multiforme: in trincea, ti uccide un ordigno sparato da un nemico che nemmeno sai dov’è; ti mitraglia un aeroplano che fino a un minuto prima non avevi nemmeno sentito arrivare. La velocità, che è sempre figlia di Marte, è talmente aumentata che non si fa in tempo ad avvistare la minaccia, che quella è già in grado di abbattersi su un intero battaglione. Nelle città, la guerra arriva, non vista, sotto forma di chiamata alle armi; è la legge marziale o lo stato d’assedio proclamato su tutto il territorio di una nazione. In Italia, fuga, diserzione, autolesionismo e simulazione di pazzia venivano puniti con la morte nel caso fossero “in faccia al nemico”, altrimenti c’erano condanne ad anni di prigione, che in certi casi venivano salutate con grida di gioia, perché cinque anni in cella erano molto meglio di qualche mese in trincea, e in cinque anni poteva anche darsi che la guerra terminasse. Per questo, si arrivò ad estendere il concetto di “fronte” a tutta l’Italia, così che anche fingersi malato durante una licenza a Napoli poteva essere considerata “diserzione in faccia al nemico”, punita con la fucilazione alla schiena. Gli archivi sono stracolmi di processi contro soldati che ritardavano il rientro dopo una licenza, spesso per prendersi cura dei campi, o dei figli, o per aspettare il ritorno a casa di un fratello. Questi uomini non concepivano che la guerra, invisibile, avesse la meglio ovunque, anche a casa, pretendendo di stravolgere e ridisegnare le relazioni affettive, le abitudini del lavoro contadino, il ciclo delle stagioni e della semina. In Francia, grazie al generale “stato d’assedio” anche i civili potevano essere giudicati da una corte marziale, senza le normali garanzie di un processo civile. La guerra era l’attesa di una lettera dal fronte, era la necessità di lavorare fuori dalle mura domestiche, per molte donne che non l’avevano mai fatto. Era una propaganda martellante, su muri, riviste, giornali. Erano i dirigibili che bombardavano le città, al punto che a Parigi si iniziò a progettare e in parte costruire una città fittizia, a Nord di quella reale, con finti treni e stazioni e viali e luci, per ingannare i velivoli nemici in caso di un – invisibile – attacco notturno.

Da allora, possiamo dire che la guerra ha ulteriormente eliminato la distinzione tra retrovia e campo di battaglia, ma anche tra guerra “calda” e “fredda”.  Ai tempi del primo intervento americano in Iraq, Jean Baudrillard scrisse che quella guerra – visibilissima e ripresa dalle telecamere all’infrarosso – non aveva mai avuto luogo, cioè che il simulacro aveva preso il posto della guerra reale, e il conflitto, così come ce lo avevano raccontato, non era mai esistito. Qualcuno ha inteso questa virtualità della guerra come un sinonimo, o un sintomo, della sua distanza. Quella guerra era lontana e noialtri, sprofondati nelle nostre poltrone davanti alla TV, non potevamo averne alcuna esperienza. Noi crediamo, al contrario, che quella guerra fosse anche lì, intorno alle nostre poltrone, non – ovviamente – nella forma che vedevamo rappresentata sulla schermo, bensì in una forma più subdola, invisibile, ma non per questo meno bellicosa. Sentirsi “a casa”, al sicuro, non coinvolti, era un atteggiamento del tutto miope, e gli anni a venire – fino agli episodi più recenti – lo hanno ormai dimostrato.

 

L’Invisibile ovunque ci sembra legato a L’armata dei sonnambuli da molti fili conduttori malgrado una diversa impalcatura: la centralità dell’ospedale di Bicêtre riflessa nelle cliniche psichiatriche e militari, il magnetismo che diventa psicanalisi, la scelta della forma saggio per l’ultimo racconto come nell’atto quinto del romanzo. Ci sono anche qui una rivolta del pane di marca “femminile”, il vostro amore culturale per Parigi, manca quella squisita traccia ironica perché qui c’è poco da sorridere, ma si conserva intatta l’attenzione per gli eventi schivati dalla storiografia ufficiale del “pensiero unico”. Dicevate che L’Armata dei sonnambuli è stato il vostro congedo dal romanzo storico: sicuri invece di non sentirne già la mancanza?

L’invisibile ovunque è costruito proprio come allontanamento dalla forma del romanzo storico così come l’abbiamo praticato da Q ad Altai. Il primo racconto ha una struttura classica, che si può ritrovare da Fenoglio a Rigoni Stern. Già il secondo fa qualcosa che c’è nell’Armata, o in Timira e per certi versi anche in Asce di Guerra, ma lo fa in maniera più netta e spregiudicata, ovvero monta insieme frammenti d’archivio, scene d’invenzione narrativa, documenti riscritti o falsificati, dialoghi puri, e citazioni di altre storie. Terzo mescola insieme questi elementi, non li monta uno dopo l’altro, li amalgama in maniera nuova per un’operazione narrativa che abbiamo sempre praticato, cioè la scrittura di un episodio storicamente accaduto, del quale però non si conoscono le precise dinamiche, le parole esatte dei protagonisti, i loro gesti e i loro pensieri. Quarto è costruito pensando al Quinto Atto dell’Armata e a certi racconti/saggi d’invenzione tipici di Borges. Di per sé non è un nuovo tipo di racconto, ma è perturbante nel suo accostamento con gli altri tre. Se leggi L’accostamento ad Almotasim di Borges, non ti domandi nemmeno per un minuto se è davvero esistito un romanzo con quel titolo, pubblicato a Bombay sulla fine del 1932. Leggere Quarto fa un effetto molto diverso: provi a distinguere il vero dal falso e ti accorgi che non è affatto facile riuscirci, riga per riga.

 

Wu Ming non è solo letteratura ma un brand anonimo (concedetemi il paradosso) e multiforme: da Giapil vostro blog “comune”, al Wu Ming Contingent, un progetto musicale col suo secondo album, Schegge di Shrapnel, collaterale a L’invisibile ovunque. Poi ci sono, tornando alla narrativa, i “progetti solisti” – ultimo Cent’anni a Nordest, viaggio tra i fantasmi della guera granda, di Wu Ming 1 – e perfino un libro per ragazzi: Cantalamappa, scritto «pensando a lettrici e lettori under 11, non solo, ma soprattutto a loro». Per tutto questo, possiamo definire la Wu Ming Foundation un perfetto vettore di cultura di massa?

Se sia perfetta non siamo noi a doverlo giudicare… Di certo possiamo dire che ci interessa sperimentare una produzione culturale che sia “di massa” nelle forme, ma non massificata nei contenuti. Schegge di shrapnel, ad esempio, è un concerto rock, suonato da una band che ha chiari riferimenti punk e new wave, però le “canzoni” sono declamate, e i testi sono presi da archivi, ricerche storiche “di nicchia”, faldoni processuali e documenti che, grazie a una musica popolare, trovano un pubblico ben più vasto di quello dei soli specialisti.

 

In Italia ci sono tante poesie di guerra, da Ungaretti a Clemente Rebora, e una preziosa testimonianza narrativa come quella di Emilio Lussu in Un anno sull’Altipiano. Manca però nella nostra tradizione il grande romanzo della Grande Guerra e, viste le più “moderne” proiezioni ideologiche e una maggiore spendibilità, abbiamo il sospetto che anche in termini letterari si continuerà a preferire la Seconda Mondiale. Nel vostro caso c’è però il precedente spaziotemporale di Altai (in omaggio a Q) che potrebbe incastrarvi: vi abbiamo scoperto? Appuntamento quindi fra dieci anni per la grande storia d’Italia?

La poesia italiana ha rappresentato la Grande Guerra con molti versi e strofe, non lo si può negare, ma per quanto ne so, non ci sono esiti paragonabili agli war poets inglesi, o al Requiem di Yvan Goll, di profonda, lacerante presa di coscienza del massacro, della sua insensatezza, della sconfitta dell’Europa e di un’intera generazione. Nulla di simile alla descrizione che fa Wilfred Owen di un attacco coi gas, concludendo che nessuno, dopo aver visto scene come quella, potrebbe continuare a ripetere la vecchia bugia di Orazio: Dulce et decorum est, pro patria mori.

Quanto a Lussu, va detto che il suo libro esce a Parigi nel ’38, e in Italia solo dopo la caduta del regime fascista. Si tratta quindi di una riflessione che arriva a quasi trent’anni dalla fine del conflitto. Questo per dire che la totale continuità tra la Grande Guerra e il regime di Mussolini ha creato una sorta di tappo, una censura su ogni possibilità di rielaborazione critica, senza la quale non si può fare letteratura.

Durante la Resistenza, la Grande Guerra fu omaggiata anche dalle forze di sinistra e dal Partito Comunista. I partigiani erano “patrioti” come lo erano stati gli uomini di Mazzini, di Garibaldi e del Monte Grappa. Si trattava, come allora, di resistere al “furore teutonico”. Tuttora ci sono sacrari, nei cimiteri emiliani e lombardi, dove sotto la dicitura di “caduti per la libertà” sono raggruppate le fotoceramiche di morti nel 15-18 e nella guerra di Liberazione. In un contesto del genere, è difficile che si riesca a impostare una  riflessione letteraria.

Quanto a noi, quel che non vogliamo più fare è il romanzo storico come lo abbiamo praticato per quindici anni, da Q ad Altai. Ma non intendiamo congedarci – come qualcuno ha scritto – dalla Storia