L’ultimo arrivato che dà il titolo al romanzo di Marco Balzano (Sellerio 2015), è Ninetto, detto pelleossa, nato a San Cono, un paesino alle pendici dell’Etna, cresciuto a pane e acciughe – “un’acciuga al giorno”, precisamente – e a dieci anni messo dal padre sul “treno del Sole”, per risalire la penisola e cercar fortuna a Milano. Dalle premesse di un’infanzia di rinunce germoglia un senso della vita al contempo consapevole e ironico, cifra fondamentale del narratore protagonista: “Tutti, presto o tardi, ci siamo messi l’anima in pace. Un’acciuga? E un’acciuga sia! Da picciriddi non ci si demoralizza mica così”. La storia di Ninetto che impara a sopravvivere e arrangiarsi si svolge tra la Sicilia e Milano, avanti e indietro, in moto perpetuo tra la rincorsa per una vita migliore e il ritorno periodico alle proprie origini. Come specifica la Nota in chiusura di testo, la fiction nasce da un’indagine dell’autore – antropologo per l’occasione, svolta sulle testimonianze di una decina di uomini che hanno vissuto in prima persona il fenomeno dell’emigrazione infantile tra gli anni ’50 e ’60. Hanno parlato, gli intervistati, del rischio di rimanere “ai margini” nelle piccole città del sud Italia, da cui il salto verso il nord, l’appoggio di parenti e amici, l’entrata in fabbrica, una realtà strutturata che potesse dare un salario fisso e garanzie migliori dei lavori a cottimo.

“Comunque non è che sono emigrato così, da un giorno all’altro. Non è che un picciriddu piglia e parte in quattro quattr’otto. Prima mi hanno fatto venire a schifo tutte cose, ho collezionato litigate, digiuni, giornate di nervi impizzati, e solo dopo me ne sono andato via […] ma c’è un limite a tutto e quando la miseria ti sembra un cavallone che ti vuole ingoiare è meglio che fai fagotto e te ne parti, punto e basta”. E così, Ninetto parte, ma come sappiamo dal titolo del libro, per quanto incazzata possa essere la partenza, il vero confronto è quello con l’arrivo. Con l’appoggio del compare Giuvà, Ninetto si trova a vivere nei cosiddetti alveari alla periferia di Milano, a dividere spazi ristretti con manovali e operai di fabbrica: “cinque metri per tre, quattro letti a castello, un cesso alla turca, un lavandinetto grande come il mio avambraccio, un pertugio dove il sole batte ogni morte di papa”. È in questa scrittura descrittiva e ricca, che si misura il limite tra il ‘sogno del nord’ e la realtà effettiva dell’arrivo, ed è qui che Balzano dialoga con una tradizione di letteratura e di cinema, che ha dipinto gli anni ’50 e ’60, spenti i furori ideologici del neorealismo, come gli anni del boom edilizio, della speculazione cattiva che Francesco Rosi racconta in Le mani sulla città (1963), delle periferie e dei palazzoni che restano emblemi dei long take di Pasolini – i ragazzi di vita dei suoi romanzi e i borgatari di Mamma Roma (1962) – e di Fellini – in La strada (1954) prima e nelle Notti di Cabiria (1957) poi, e delle cucine che sono anche stanze da letto del viscontiano Rocco e i suoi fratelli (1960), che si rifà al vero testo padre di questa tradizione, i racconti de Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori (1958).

È al nord, nel caos urbano, che Ninetto percepisce un allontanamento dai valori imposti e “integri” della sua infanzia siciliana, dai quali il suo personaggio fatica a staccarsi: “si capisce la gente, una volta che emigra, si disinteressa pure di nostro Signore Gesù Cristo e di sua madre la Madonna”. Per sopravvivere a Milano, giovanissimo, Ninetto si deve barcamenare tra chi lo chiama “napulì”, chi urla per la strada “terroni, andate a casa vostra” facendo del suo sud un grosso unicuum indistinto. Per cominciare, inizia a lavorare come fattorino per una lavanderia del centro, proprio come Rocco, Alain Delon nel film di Visconti, in attesa di compiere i quindici anni e poter legalmente lavorare in fabbrica – che sarà il suo impiego di trent’anni, all’Alfa Romeo, stavolta proprio come Ciro, uno dei fratelli di Rocco. È un processo di crescita che lo espone alla società borghese milanese, tanto che comincia a mettere l’articolo davanti ai nomi propri: “Il lavoro era semplice. Ritirare le vestaglie nel cellophane dalla Carmela, le camicie dalla Elena, le tovaglie dalla Maria Rosa e insieme alla Lucia sistemarle con cura nella cesta di vimini legata alla bicicletta”. Il tono rimane dunque sempre sul filo dello humor, la lingua, è un gioco a metà tra dialetto siciliano e lo slang personale dell’io narrante, e la faccia è un sorrisetto ironico nei confronti della vita. Il titolo, quello, è potentemente attuale, nell’Italia di oggi, inondata di arrivi, continui arrivi, provvisori o definitivi che siano, da luoghi che improvvisamente diventano vicinissimi, sempre da sud, ma un sud diverso.

In quanto a dialogo col contemporaneo, dunque, quello di Balzano è un romanzo che cade bene: si incontra e scontra col panorama editoriale italiano, come con il tema dell’altro e del multiculturalismo del libro recente di Igiaba Scego, Adua (Giunti, 2015). All’immigrazione in senso largo, si pensa e ci s’interroga, leggendo questo piccolo romanzo fresco di premio Campiello, il mese scorso introvabile nelle librerie milanesi tra la vittoria e la prima, immediata e forse imprevista, ristampa. Marco Balzano arriva dalla letteratura che si insegna nelle scuole – professore di medie e liceo, già pubblicato da Sellerio nel 2013 con Pronti a tutte le partenze, e prima ancora timido esordiente poeta con Particolari in controsenso (Lietocolle, 2007), con in più una passione, e alcuni saggi pubblicati sull’argomento, nientemeno che per Giacomo Leopardi. Arriva quindi in un certo senso ultimo, anche lui, dietro ai grandi autori che riporta in luce per i propri studenti, al punto che quando scrive riesce a sembrare Verga, in certe righe, e far rientrare nella storia di Ninetto, nel suo universo curioso e dissacrante, le lezioni scolastiche del maestro Vicenzo su Giovanni Pascoli e “Giangiacomo Russò”: “Fece una lezione coi fiocchi, il maestro. Parlò di un signore che si chiamava Giangiacomo Russò e lo chiamò pensatore, una parola che non avevo mai sentito e che secondo il mio compagno di banco significava uno molto intelligente e che la sa lunga, mentre secondo Peppino indicava uno che il mattino si alza e non tiene una minchia da fare”. Il picciriddu cresce, a Milano si innamora di Maddalena, calabrese, e la sposa in Sicilia. Inizia a lavorare in fabbrica, diventa padre, e qualche anno dopo finisce in carcere per una violenta scena di gelosia, che più all’italiana non si può, nei confronti del fidanzato della figlia.

Sotto l’ironia – e grazie a essa, è chiaro – questo è un romanzo che si propone di rispondere a domande scottanti, e lo fa senza prendersi sul serio e senza prendere una posizione ferma. Il gioco dei punti di vista lo conferma, creando al contempo esiti felici, e qualche dubbio di tenuta narrativa e ideologica in chi legge. L’io narrante protagonista parla alle lettrici e ai lettori da due punti di vista diversi nel tempo che si alternano liberamente all’interno dei capitoli. Il primo è quello dell’infanzia siciliana e poi dell’adolescenza milanese; il secondo quello del narratore che, all’età di 57 anni, è appena uscito dal carcere e torna a vivere in città con la moglie. Intanto, è passato del tempo, e molte cose sono cambiate. È un gioco di prospettive mai banale, che dona alla struttura del testo un andamento di costruzione e scoperta continua, per cui una parte illumina l’altra, e viceversa, innescando flashback e flashforward, a seconda del punto di osservazione. La narrazione rimbalza quindi tra il nostro presente – la Milano dell’Expo, la nuova Italia multietnica – e gli anni ’60, quelli delle fabbriche e delle gru: guarda cosa siamo diventati e guarda come eravamo. Il passato, come lotta per il benessere, condizioni abitative al limite, i giorni del sindacato e del partito, convive con l’inazione del protagonista una volta uscito dal carcere, una sorta di insofferenza nei confronti della realtà urbana che ormai lo ha inglobato, e su cui non ha più controllo.

È da dire che la parabola temporale e spaziale ambiziosa all’interno di un romanzo relativamente breve, crea un effetto che in alcuni casi sfugge al controllo. Dice, Ninetto ormai adulto, della città del melting pot: “Mangio con Mustafà il vu cumprà una focaccia presa dal fornaio oppure uno di quei panini arabi che non si capisce di che cosa sanno e li preparano scrostando pezzi di agnello dal girarrosto. Non sono malvagi, semmai un po’ lunghi da digerire”. Fermo resta che nel punto di vista in crescita, fremente, di Ninetto picciriddu, vibra qualcosa che manca all’adulto uscito di galera, stupito, più che altro, dalla Milano diventata multiculturale – tra “negri”, “vu cumprà”, cinesi – mentre lui scontava la pena in carcere. Tiene e non tiene, o forse è un passo di troppo, il tono di un Salvini che però ha un cuore grande, e riesce a ridere, più condiscendente che col cuore in pace, davanti al cambiamento, davanti ai proprietari del “bar dei cinesi”: “Sono due ragazzi insicuri e dell’Italia non sanno niente di niente. Vivono in una parte del pianeta che non conoscono e forse non la conosceranno mai perché travagghiano duro, stanno aperti anche 15 ore al giorno, e non credo che trovino il tempo per andare a divertirsi o a fare passeggiate”. Nello stesso tempo, sembra di poter dire che sia questa tenuta tentennante, tra gli sbalzi geografici e la posizione interpretativa stranita davanti al progresso – una pigrizia d’idee che porta all’inazione – che rende questo romanzo così vicino e allineato al nostro tempo, perché allarga, con un passaggio metaforico, al tema delle migrazioni, del multiculturalismo, della difficoltà per chi arriva di trovare angoli lasciati vuoti nel caos della città e adattarvisi: essere arrivato, anche se ultimo, e poterne trarre una vita decente, essere l’ultimo ad arrivare, in mezzo a migliaia di altri ultimi arrivati. E che Balzano scriva di questo, sembra un ottimo motivo per vincere il Campiello, per farci pensare, alla spaccatura tra cultura lenta del sud e nord industrializzato, alla necessità di capire e accettare i contatti con le culture del Mediterraneo.

Che l’Italia abbia un’anima mediterranea, di cui il nord spesso si dimentica, si esprime  per il narratore nei suoi viaggi al sud sempre sofferti: “Il treno che scende non è lo stesso che sale. È un’altra storia. Quelle carrozze vuote parlano chiaro, dicono vuoto è pure il paese dove si è diretti. Vuoto di lavoro, di cose fare e vuoto pure delle persone che pensi di ritrovare e invece non ci stanno più”.  È infatti nei momenti del ritorno in Sicilia che il tono si fa nostalgico, e le dichiarazioni d’amore frequenti, come quando Nino fa la “fuitina” con Maddalena, e torna a 15 anni, a sposarsi in Sicilia: “Maddalena dal finestrino guardava il paesaggio ammirata perché la Sicilia è la più bella regione d’Italia, tanto che se la volevano prendere gli americani dopo la seconda guerra mondiale e lì veramente è stata la mano di dio che li ha bloccati…”. Fa sorridere, ma anche un po’ tristezza – e qui si potrebbe aprire un discorso lungo, diverso, e non meno rilevante di quello sulle politiche geografiche e sociali del romanzo – il fatto che la prospettiva dell’uomo del sud, come si è detto, diventi troppo spesso occasione di un esercizio di retorica già visto fare, paternalista, che vuole essere provocatorio – forse – ma non fa molto per spostare un paradigma radicato: “oggi gli uomini sono più massai delle donne, lavano, cucinano, stirano camicie. Fino a pochi anni fa, invece, il marito a sera entrava in casa e la moglie si presentava con le ciabatte sulla porta. Ai picciriddi bastava fargli cinque minuti cucù con le dita sotto il mento e il tuo dovere l’avevi assolto”.

Marco Balzano, L’ultimo arrivato, Sellerio 2015, € 15.

Balzano ultimo arrivato