Mai devi domandarmi (Garzanti, 1970) raccoglie perlopiù articoli che Natalia Ginzburg aveva pubblicato su “La Stampa” fra il ’68 e il ’70. Il volume era uscito con un risvolto di copertina firmato da Enzo Siciliano, che sottolineava l’“immediata presa sul lettore” dovuta a una “virtù medianica”, e riappare ora – dopo alcune ristampe successive, tra cui l’inclusione nel secondo tomo dei Meridiani alla Ginzburg dedicati – in una nuova edizione a cura di Domenico Scarpa negli Einaudi Tascabili, corredata da un esauriente apparato critico. Pur se rimasto in ombra rispetto ad altri titoli (penso a Lessico famigliare e Le piccole virtù), questo libro offre un godibilissimo passaggio dentro un universo letterario tra i più affascinanti del nostro Novecento.

Trentatré pezzi brevi, in forma ora di saggio ora di racconto, toccano temi come l’amicizia, la ricerca di una casa, l’orrore, il viaggiare, la pigrizia, le letture e lo scrivere, i libri per l’infanzia, i rapporti tra genitori e figli, l’etica, la fede, il teatro, la vecchiaia, la psicanalisi, l’opera lirica. Se l’occasionalità può aver ispirato questi pezzi, il libro non è una galleria di pezzi occasionali; se ogni tassello miniaturizza il mondo poetico di Natalia Ginzburg, l’insieme non è una collezione di miniature. Procedendo nella lettura, si viene lentamente catturati dalle reti di un colloquio intimo che ogni volta sceglie un oggetto diverso, ma lascia che sia il soggetto a rivelarsi.

Gli articoli hanno l’istantaneità e la compiutezza di un haiku. Sono brevi ma permettono al pensiero di svilupparsi, rimbalzando fra avvenimenti minimi e riflessione interiore. Non si trovano dati, ma impressioni esatte, rese in una lingua chiara. Non c’è mai argomentazione, perché tutto è evidente. Dietro questa scrittura non c’è un’intellettuale, ma un’intelligenza più curiosa e profonda. Alla furia cartesiana di squadrare il mondo, la Ginzburg oppone i ripetuti “non so”, “non capisco”. Alla razionalità analitica e obiettiva, una sensibilità frastornante per esattezza.

Con simili mezzi il percorso di un sommo pittore può riassumersi in tre pagine. Un incipit naif (“Capisco assai poco di pittura”) e l’assenza di date o riferimenti dotti riconducono l’esperienza estetica a un diretto confronto con le tele. Osservando un quadro risalente alla tarda e per nulla dirompente produzione di Munch, la Ginzburg annota: “Degli antichi paesaggi sconvolti da una livida furia, degli antichi tramonti cupi e vertiginosi non c’è più ricordo; i ponti dove incedono figure d’angoscia, i volti lividi e i mantelli neri, sono stati chiusi fuori dalla piccola stanza dove l’uomo può proteggersi dai suoi spettri”. L’ispirazione si è dileguata, ma il giudizio sull’artista resta invariato: “le sue opere mediocri cadono via in un soffio da lui; difatti in verità erano niente, erano solo un modo casuale di passare gli anni, come un passatempo di parole crociate o un lavoro a maglia che si lascia in fondo a un divano”. La Ginzburg prosegue descrivendo L’urlo e poi commenta: “Mi sono chiesta mille volte cosa mai è successo a questa donna (…) Per tutta la vita, porteremo nelle orecchie quell’urlo, più forte dell’urlo del vento e del frastuono del fiume; per tutta la vita, stupidamente continueremo a chiederci perché urla e a risponderci che non importa; essendo (…) i luoghi dell’angoscia situati non si sa dove, in un paesaggio della nostra anima in cui brucia non si sa se l’estate o l’inverno”. Se la Ginzburg “capiva assai poco di pittura”, aveva dalla sua la grazia di saper scrivere.

Ma aveva dalla sua anche il dono di pensare senza condizionamenti. Quando le propongono di condurre un’inchiesta sulla donna, commenta: “non mi piaceva per niente pensare ‘alla donna’, cioè pensare ai problemi delle donne isolati da quelli degli uomini”. Rovescia numerosi dogmi del suo tempo con candore e semplicità, tanto che Fellini poteva dichiarare: “e se pure non si è d’accordo con lei, come rifiutarle la stima incondizionata?”.

La Ginzburg è stata una di quei rari scrittori che non sembrano appartenere a una stagione. Più appartata e meno incline a impugnare la penna per marcare dei territori, più libera nel prestare l’orecchio alla sua musa che al corso dei tempi, ha lasciato un’orma meno profonda, ma forse più resistente. Si potrebbe pensare, leggendola, a poeti come Leopardi o Montale, o a narratori come Walser o Sebald. Sullo sfondo non si elevano le concezioni letterarie di un’epoca, ma la nuda parola che fila un dialogo sottratto alla viscosità della storia. Sulla meccanica narrativa prevale la vena intimistica; l’architettura dei testi è funzionale al rispecchiamento dell’io. Il suo mondo lirico non è debitore di estetiche correnti, ma sorge come un frutto solitario. Insomma, le sue pagine paiono destinate a scavare nel futuro, perché esse, come scrisse la Ginzburg dei grandi romanzi, “hanno il potere di portarci di colpo nel cuore del vero”.

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Natalia Ginzburg, Mai devi domandarmi, introduzione di Cesare Garboli, nuova edizione a cura di Domenico Scarpa, Torino, Einaudi, 2014, pp. 296, € 11