Winston Churchill diceva che «Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come fossero guerre». Il maestro Gianni Brera scrisse invece che «Gli inglesi ci guardano sempre dall’alto, increspando il labbro superiore, neanche l’avessero spalmato di sterco luciferino», o che saranno anche gli inventori del calcio, certo, ma nella più salda accezione di «Orgogliosi professionisti della pedata». Vai a spiegare, con queste premesse e alla vigilia del debutto al Mondiale brasiliano, che fra Italia e Inghilterra non c’è mai stata tutta questa rivalità, eppure l’Inghilterra non è la Francia e l’Italia, per gli inglesi, non è la Germania.

D’accordo, c’è stata una “perfida Albione”, ma anche quando gli inglesi, che non si presentavano ai Mondiali per manifesta superiorità d’autonomina, vollero collaudare sui loro prati i nuovi campioni del mondo, l’Italia sì perdette, eppure nei dizionari mitologici troverete quell’undici di Vittorio Pozzo (Ceresoli, Monzeglio, Allemandi, Ferraris IV, Monti, Bertolini, Guaita, Serantoni, Meazza, Ferrari, Orsi) alla voce: Leoni di Highnury. Forse perché Nicolò Carosio, pioniere della radiocronaca, raccontò le vicende belliche del 14 novembre 1934 come un moderno senofonte sul fronte della battaglia di Cunassa, e perché ancora il Grangiuan, diversi anni dopo, ci prese proprio gusto: «Gli azzurri sono straniti e insieme furenti. Volano calcioni sesquipedali. Nell’area di Ceresoli avvengono scene di gladiatoria e persino cinica violenza. Gli inglesi incominciano ad accorgersi di aver esagerato nell’umiliarci». Volgarizzando per ragioni di sintesi, in 12 minuti i britannici sbagliano un rigore, fanno tre gol e Drake frattura un piede a Luis Monti: i cambi verranno inventati trent’anni più tardi e l’oriundo menomato giocherà quasi un tempo sul dolore, da quel giorno con l’epiteto de L’uomo che cammina oltre al già classico Doble Ancho. Si profila uno sbaraglio, e invece nella ripresa Peppin Meazza segna due volte, Guaita sfiora il pari, Orsi lo dilapida e ancora Meazza, al novantesimo, lo spegne sulla traversa. L’Inghilterra vince 3-2 e in formazione c’è un giovanissimo Stanley Matthews, unanimemente riconosciuto il calciatore inglese più forte di ogni epoca.

Trentanove anni dopo, ancora il 14 novembre, gli inglesi ci richiamano Oltremanica per un’altra amichevole: è il 1973, i Pink Floyd hanno appena pubblicato The Dark Side of the Moon, i Led Zeppelin attraversano l’oceano per generare, al Madison Square Garden di New York, uno dei concerti più leggendari nella storia del rock (The Song Remains the Same) e Peppino Di Capri vince la ventitreesima edizione del Festival di Sanremo cantando Un grande amore e niente più. Che poi ci si potrebbe anche difendere alti con Storia di un impiegato (come il sopra citato, un concept-album) di Fabrizio De André, non fosse che Faber dichiarò di lì a poco di aver avuto la tentazione di bruciarlo. E poi anche stavolta sì va in trasferta, e stavolta a Wembley, ma stavolta vince l’Italia. Gli inglesi attaccano e Zoff para tutto per 86’ quando Fabio Capello, servito da Giorgio Chinaglia che in Italia è Long John e in Inghilterra il Cameriere di Cardiff, segna il gol che decide la partita. Sconfitti cinque mesi prima a Torino (gol di Anastasi e 2-0 sempre di Capello) e per la prima volta in Gran Bretagna: riaccadrà ventiquattro anni dopo quando sarà Gianfranco Zola, The Magic Box, a violare il Tempio e nutrire quella fama già raccolta sui prati inglesi.

Ci sarebbe da rimpiangere i 4 in geometria per non saper spiegare a dovere la disputa del Metodo Pozzo opposta al Sistema di Herbert Chapman, commissari unici di Italia e Inghilterra che si sfidarono per la prima volta a Roma il 15 maggio 1933 (1-1, reti di Ferrari e Bastin); si dovrebbe anche omaggiare l’infallibile aplomb degli inglesi per aver coniato “gol alla Mortensen” – fautore della disfatta del ‘48, Inghilterra-Italia 0-4 – quello che da noi già si chiamava “gol di culo”. E poi andrebbe almeno citato il 24 marzo 2007 quando, 28 secondi dopo l’inizio dell’amichevole fra Nazionali Under-21, Giampaolo Pazzini segnò il primo gol (e poi altri due) nella storia del nuovo Wembley. E ancora sorridere al passato prossimo quando, agli Europei 2012, l’Italia piega l’Inghilterra ai calci di rigore: Pirlo fa il cucchiaio, Alessandro Diamanti si presenta sull’ultimo dischetto angolando il mancino con la leggerezza di un epicureo… E il giorno dopo su tutti i giornali e tabloid inglesi, nessuno escluso, c’è scritto che abbiamo meritato la finale.

E poi c’è Mick Jagger: l’11 luglio 1982 l’Italia batte la Germania Ovest al Santiago Bernabeu ed è per la terza volta campione del mondo. Poche ore prima i Rolling Stones suonano allo Stadio Comunale di Torino, Jagger pronostica il risultato (3-1) e canta Satisfaction con la maglia azzurra di Paolo Rossi, numero 20. Un’epifania che, abbiamo fondate ragioni per pensarlo, non si sarebbe compiuta se il tour degli Stones, quella sera liturgica, si fosse fermato a Bonn o Mönchengladbach.

Jagger, Torino 1982Ma intanto siamo ancora al 7 luglio 1990 e quattro giorni prima si è consumata una delle più grandi tragedie sportive nella storia del nostro paese: l’Italia perde la semifinale del Mondiale di casa. Fatale Argentina a Napoli, e come non bastasse c’è da giocare la partita che assegna il terzo posto. Posto che nel calcio la medaglia di bronzo non esiste, questa finalina bisogna vincerla per non versare sale sulle ferite apertissime (pour salt water on the wound, direbbero gli anglosassoni). E guarda caso, quando si tratta di amichevoli travestite, l’Inghilterra. Si gioca nell’(allora) avveniristico San Nicola di Bari e al 71’ Roberto Baggio, che contro la Cecoslovacchia ha già segnato il gol più bello del torneo, anticipa Shilton, riceve da Schillaci e salta Parker per il sinistro a porta vuota. Dieci minuti più tardi pareggia David Platt che un anno dopo verrà acquistato proprio dal Bari, ma all’86’ è calcio di rigore: il deputato sarebbe Baggio che ha la grazia del(l’ultimo) fantasista azzurro, ma con la sesta rete Totò può superare Tomas Skuhravy (a Genova, costa Grifone, diventerà un mito) diventando il primo marcatore di una rassegna continentale vissuta da inatteso protagonista.

Schillaci spiazza Shilton e al fischio finale i giocatori di Italia e Inghilterra si raccolgono nel cerchio di centrocampo iniziando un’ola mai vista mentre io, davanti alla tv di un hotel di Viareggio, prendo coscienza del mio primo Mondiale. Quell’estate compirò 9 anni e seduto accanto a me c’è Simone: i nostri giovani padri (il suo è simpaticissimo e ha baffi e naso come quelli di Ian Rush) sono quasi coetanei, cremonesi e hanno proprio tante cose da raccontarsi; noi invece non ci sopportiamo e, ovviamente, ci piace la stessa “ragazza”, un’alemanna occhi verdi e capelli biondissimi che mi sorride sempre in spiaggia. Ai tempi il mio vocabolario di tedesco contava però cinque parole (Matthäus, Klinsmann, Brehme, Sturmtruppen e Kartoffeln) e in fondo lei aveva già smesso di piacermi giorni prima quando la sua Germania eliminò la “mia” Olanda… Mentre Simone, che la sera del 3 luglio aveva pianto dopo il rigore fallito da Serena, naturalmente non lo dimenticherò mai.

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