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di Martina Daraio

Irene Paganucci è nata a Lucca, ha 25 anni, e Di questo legno storto che sono io (Marco Saya, 2013) è la sua opera d’esordio.

La raccolta, come si evince dal titolo, parla di forme imprecise, di imperfezioni intrinseche, di quello che ogni uomo è ma che allo stesso tempo nasconde: un legno storto da «tutta la furia del tempo». Si tratta allora di una condizione di costante sofferenza che ha bisogno di trovare le parole che la decostruiscano, la analizzino, la comprendano fino a renderla possibile e accettabile.

La silloge si apre infatti con due epigrafi che evocano questa necessità di raccontare la vita tanto nei suoi aspetti quotidiani e trascurati quanto in quelli più dolorosi e opprimenti. La parola deve farsi carico di tutta la realtà e, inoltre, deve farlo con delicatezza, con “leggerezza”.

A dispetto delle tendenze degli ultimi anni, in cui ad imporsi è una poesia rumorosa e spettacolare che riscopre l’oralità attraverso festival e commistioni con altri generi, la poetica di Irene Paganucci si muove in una direzione del tutto differente esprimendo il valore intimo della pagina scritta, letta e pensata nel silenzio e nel raccoglimento. La poesia, dunque, si configura come un momento privato di riflessione, uno spazio critico che si inserisce all’interno della quotidianità caotica. In uno dei primi testi, infatti, l’autrice scrive:

Quando mi guardi, sai, mi piacerebbe
che gli occhi tuoi attenti
facessero come fanno due occhi
che leggono: da sinistra a destra
da destra a sinistra
che mi leggessi, sai, mi piacerebbe.

(p. 12)

Tutta la raccolta, allora, è costruita come una “lettura” della quotidianità dell’io lirico che è in tutto e per tutto identico ad un uomo qualunque, e vive di situazioni banali come lo strizzare un tubetto di dentifricio, la passeggiata del sabato in centro, il cinema della domenica pomeriggio, «la biondina del fast-food all’angolo», la ricetta per cucinare il polpo. Tutti questi gesti normali, però, vengono guardati lentamente, da sinistra a destra, poi da destra a sinistra, fino a subire una deformazione prospettica che li mostra nei loro aspetti più universali, più umani, più fragili, e che li rende metafore di condizioni esistenziali.

In particolare, quello che emerge dalla raccolta è il background di studi sociologici dell’autrice, che cala tutte le vicende nel tessuto sociale della contemporaneità e nelle sue contraddizioni.

Il tema della relazione di coppia, tra tutti, è in questo senso quello più sviluppato e quindi anche più riuscito. Molti dei testi si rivolgono ad un tu che lascia pensare ad una persona amata rispetto alla quale, spesso, domina una condizione di incomunicabilità: si tratta però di un’incomunicabilità sociale più che personale, ostacolata dalla moltitudine di una folla che crea ansia ed estraneazione, data dalla precarietà di un’esistenza in cui tutto finisce, o da un postmodernismo ancora troppo vicino che ha privato le parole del loro significato e della loro autenticità. Una lirica, ad esempio, si apre proprio dicendo «oggi ti amo come in un film di Allen», rievocando così le parole di Umberto Eco quando, negli anni Ottanta, spiegò che ormai dire “ti amo” non avrebbe avuto più nessun significato tanto logora e abusata era questa espressione, e che piuttosto si sarebbe dovuto dire «come direbbe Liala, ti amo». Qui il riferimento
non è ai romanzi rosa di Liala ma ad un raffinato maestro del cinema, e questo dettaglio mette in luce un altro aspetto fondamentale della scrittura di Irene Paganucci, e cioè il suo dialogo con le forme e le voci della tradizione. Queste esistono e condizionano la scrittura ma esprimono la loro presenza con timidezza o con ironia, come se fino in fondo non avessero legittimazione ad esistere. L’endecasillabo diventa allora «il verso sguaiato | di un gatto girovago innamorato» e al poeta può anche risultare simpatico, in fondo, se la persona amata non capisce le sue poesie:

Mi piace il tuo non capire
le mie poesie – poi che c’è
da capire non c’è niente
di male – sai, è solo il segno
che almeno tu sei sano.
Dai, vieni sul divano.

(p. 35)

Emerge così, dunque, la profonda contraddizione su cui è costruita la raccolta e la società che in essa viene rappresentata: e cioè quella di accettare, con leggerezza e a malincuore, che la letteratura acquisisca un ruolo marginale, e che non averne bisogno sia sintomo di sanità. Ma come l’autrice ha sapientemente mostrato non è affatto così e, anzi, è solo attraverso essa che è possibile salvarsi dall’alienazione del quotidiano e dal tempo che, come pezzi di legno, sempre ci storce e a volte ci spezza.

I. Paganucci, Di questo legno storto che sono io, Milano, Marco Saya Edizioni, 2013, pp. 40, € 7.