Si ipotizzi che un ragazzo alquanto spettinato nato a Sarzana nel 1995 decida di scrivere un libro; che quel libro venga poi pubblicato da Sellerio nel 2021, che concorra infine per il Premio Campiello e che lo vinca nel 2022 – entrando tra l’altro nella storia come il più giovane vincitore del concorso. Si ipotizzi inoltre, come se non bastasse, che quel libro venda più di 80.000 copie, vinca anche il Premio Bagutta Opera Prima, il Premio Salerno Letteratura, il Premio Moncalieri e il Premio Severino Cesari e venga ripubblicato in una nuova versione – questa volta illustrata da Lorenzo Mattotti.

Se non fosse ancora chiaro di chi si sta parlando, seguono immediate delucidazioni. Le prodezze qui succitate non possono appartenere ad altri che a Bernardo Zannoni e al suo primo romanzo, I miei stupidi intenti (Sellerio, 2021).

Si ipotizzi poi che quel ragazzo spettinato decida – com’era prevedibile che accadesse date le spinte avide dal mercato editoriale – di pubblicare un secondo romanzo e che questo nuovo libro esca alla fine di agosto del 2023, sempre per Sellerio.
Cosa ci si potrebbe mai aspettare da un romanzo simile visti i precedenti?
Ancora una volta Zannoni è riuscito a stravolgere le aspettative, questa volta però lasciando il sapore di un’amara sorpresa in bocca ai lettori.

25 – questo il titolo dell’ultima uscita dell’autore – parrebbe essersi rivelato tutt’altro che il successo preannunciato. Se I miei stupidi intenti – nonostante non fossero mancati i detrattori che hanno avuto modo di evidenziare l’eccessivo entusiasmo della ricezione da parte del pubblico, quello del Campiello compreso – ha riscosso esiti indiscutibilmente felici, lo stesso non si può affermare per 25, che ha visto un ingresso nel panorama editoriale decisamente più timido e poco convincente.

Il romanzo – poco più di 180 pagine –, ambientato in una città marittima, vede come protagonista Gerolamo, ragazzo a cavallo tra i 24 e i 25 anni, disoccupato e abbandonato da entrambi i genitori alle cure di zia Clotilde. L’intentio auctoris coinciderebbe con il presentare al pubblico un romanzo che restituisca con fedeltà – e necessaria durezza – una crisi generazionale che ha inevitabilmente anche risvolti personali: «a venticinque anni ti vedi per quello che sei, e il mondo ti si presenta con il suo vero aspetto. È lì che si comincia a sperare. Si spera che vada tutto bene» (p. 76).

Lo sguardo di Gerolamo – compromesso tra un passato traumatico e una tendenza caratteriale – è smaccatamente demoralizzato, indocile, dagli esiti decisamente depressivi. Il suo è il riflesso di un’esistenza apatica e imbelle, più patita che agita. Basti pensare a come sia solito definire quella generazione che è chiamato a rappresentare:

«C’era chi studiava, chi aveva già un lavoraccio, chi invece non faceva nulla, e per assurdo sembrava aver capito tutto. Gero li chiamava gli ignavi, e non che lui si escludesse da questo insieme: vivevano di niente, diretti da nessuna parte, rosicchiavano la realtà giorno per giorno. Tutti avevano qualcosa che non andava. Tutti soffrivano di ansie, paure e angosce, nascosto sottopelle, dove se ne intravedevano i contorni, e loro le coprivano con il cappotto. Andavano dallo psicologo, facevano corsi di yoga meditativo, bevevano. C’era anche chi faceva finta di niente, ma il rischio era di esplodere» (pp. 46-47).

Come si ha avuto modo di appurare già in I miei stupidi intenti, il carattere della scrittura di Zannoni ruota attorno a una prosa asciutta dal tenore tagliente, doloroso, inclemente nel descrivere situazioni di forte violenza. Questa scrittura tenebrosa e, a volte, decisamente macabra si riscontra anche in 25: uno dei pretesti narrativi del romanzo, per esempio, è il tentato suicidio di Tommy, uno dei migliori amici di Gerolamo; oppure, la descrizione di zia Clotilde espressa spesso tramite dettagli narrati con una ferocia a stento trattenuta, che denotano un realismo brutale e sferzante («La faccia obesa di sua zia Clotilde l’osserva per intero, dalla testa ai piedi. Anche lui era una taglia forte, ma in confronto lei lo faceva sembrare sciupato. La seggiola dove sedeva si piegava tra le sue gambe: le zampe d’acciaio erano incassate all’indietro, pronte per collassare» (p. 16)). Inoltre, sempre a titolo esemplificativo, alcune sequenze narrative si svolgono in un mattatoio: scelta tanto eloquente da far scadere Zannoni nel cliché pur di aderire a un determinato tipo di atmosfera.

Per di più, l’impianto fiabesco ben riuscito nel primo romanzo dell’autore, capace di stemperare con sfumature d’incanto l’oscurità predominante, trapiantato in 25 sembra essere un elemento discordante con la vicenda narrata. Se per l’universo degli animali il carattere favolistico offriva compattezza al testo, per l’universo umano invece comporta lo scollamento dall’effettiva mimesi con il reale.

La crudezza del testo si accompagna a un racconto in terza persona, a una sintassi paratattica – che tende a ripetersi, chiudendosi su sé stessa circolarmente con insistite strutture ad anello – e a una trama dall’andamento lineare – più una serie di avvicendamenti privi di tensione narrativa dei quali si fa fatica a scorgere un nesso significativo che doni coesione all’intera opera. Gerolamo sperimenta, in un accostamento di frammenti di vita fini a sé stessi, la vicinanza ambigua a zia Clotilde, il coma dell’amico Tommy, la fuga del pappagallo che gli è stato affidato dal proprietario del bar dove è solito andare, la ricerca spasmodica di un lavoro, la gravidanza della vicina di casa Betta e la sua relazione di dubbia fedeltà con Martin, le turbolenze sentimentali del suo amico Amon, le occasionali scappatelle alla clinica dei sogni Blue Pill.

È qui che l’obiettivo di denunciare una crisi generazionale pare dissiparsi lungo il procedere della storia, degenerando nella rappresentazione di un’esistenza comatosa. Un senso complessivo dell’opera che dovrebbe costruirsi capitolo dopo capitolo sembra invece divenire sempre più sfuggente, disperso nelle sorti di personaggi piatti e dalle caratterizzazioni stereotipiche, che spesso si delineano come meri strumenti per l’avanzamento della vicenda di Gerolamo. I personaggi femminili – zia Clotilde, Betta, la fidanzata di Amon – mettono in luce addirittura un utilizzo maschilista degli attori coinvolti nella narrazione: esistono esclusivamente come bersaglio del desiderio altrui, mai come figure dotate di una propria autonomia.

L’autore definisce come «ombre» alcune comparse gravitanti attorno al protagonista: «potevano essere fugaci, oppure si insinuavano pian piano nelle vite degli altri, per prendere ciò che gli serviva e svanire al momento adatto» (p. 49). È proprio questa ombrosità – nel suo duplice senso, quello di oscurità e quello di fuggevolezza – a contraddistinguere le personalità di 25: non vi è alcun personaggio che non presenti a suo modo tratti di inettitudine portati all’esasperazione, suscitando così, in questo parossismo di disagio, scarsa empatia da parte del lettore. Ogni ritratto presentato è imprigionato in quella che Amon arriva a definire la «Grande Gabbia»: una condizione mentale nevrotica, retaggio di un’impostazione sociale, determinata dall’angoscia e priva di una via di scampo, dove «tutto quello che ci rende felici, invece di liberarci, è restringerla ancora di più» (p. 62).

Il protagonista, primo fra tutti, si manifesta sulla pagina maldestro nell’affrontare la vita: «Che senso aveva vivere per non essere niente? Che senso ha contare i giorni, attraversare le stagioni, se non si ha nulla da ricordare, nulla da prendere?» (p. 137). L’incombere della soglia dell’età – «un pensiero, il più intrusivo, gli diceva che non era più un bambino. Il suo tempo faceva ombra» (p. 14) – determina una tensione angosciosa che lo accompagna lungo tutto l’arco del libro. Tensione che da un lato è prodotta dal costante incontro con la morte – effettiva o suggerita – da parte degli altri personaggi: le vicende legate a Tommy, la morte intrisa di patetismo di zia Clotilde, la dipartita di Barracus – il proprietario del bar – a causa della rabbia per la perdita del pappagallo. Dall’altro lato, viene scandita dai timori dell’animo di Gerolamo: «Adesso non aveva che sé stesso al mondo. […] Non sapeva cosa fare, non aveva un posto dove essere al sicuro, né una strada da percorrere, non aveva odore, oramai era un uomo» (p. 125). Tanto acuta diventa tale inquietudine che la narrazione, in un primo momento, sembra promettere un risvolto suicida: «Per il resto poteva anche gettarsi in un pozzo: non avrebbe fatto alcun rumore» (p. 44).

Promessa però che non viene mantenuta. Se in un primo momento questo aspetto potrebbe regalare al romanzo un tratto di riuscita imprevedibilità, terminando la lettura del libro il lettore non trova una motivazione sufficientemente salda che regga la portata di questo cambio di tenore. La sensazione che si prova sul liminare delle ultime pagine è di confusione: il pubblico alla lettura di 25 rimane attonito di fronte a un vuoto lasciato dalla mancanza di senso e a una fittizia redenzione dei personaggi.

Anche le sequenze che potrebbero spiccare per tratti di originalità, come quella legata alla clinica dei sogni, in definitiva risultano essere poco credibili e artefatte. Nonostante siano lampanti i richiami alla cultura beat e pop (si pensi, per esempio, a Kerouac in America o a Tondelli in Italia), nel caso riguardante la Blue Pill appaiono mal gestiti. La scena, in un romanzo che dovrebbe attenersi al reale, sembra quasi – ma forse è solo un’impressione di chi scrive – una sequenza dai connotati fantascientifici, quasi ricalcanti Matrix o Blade Runner.

L’impressione complessiva è quella di una storia composta in fretta, dove non è stato concesso il giusto tempo di maturazione alle vicende e ai personaggi, che risultano così sulla pagina bidimensionali e sconnessi tra loro. Al testo manca salacità, struttura e abilità nel suscitare una riflessione nel lettore. La potenzialità della trama viene soffocata dal continuo ricorso a luoghi comuni e a esiti morali nichilistici e banali: la vita è un’accozzaglia di cose piccole e insignificanti, il genere umano è costituito da scarti di persone egoiste e avide, il destino è per tutti la perdizione e da tale condizione non è possibile affrancarsi, il cambiamento verso il successo è un lusso che non ci si può permettere. Lo scavo introspettivo risulta superficiale e Gerolamo incapace di problematizzare la realtà circostante. Inoltre 25 sembra essere uno di quei casi in cui predomina l’atmosfera della scrittura – cupezza, crudeltà, ombrosità – sulla vicenda narrata, andando ad offuscare la verità del romanzo.

Un romanzo che avrebbe potuto essere la conferma di uno scrittore dall’esordio brillante ma che si è rivelato un’opera ancora molto – troppo – bisognosa di limatura a livello di editing.


Bernardo Zannoni, 25, Sellerio Editore, Palermo 2023, 180 pp., 16 €.