In un’Italia distopica, in un futuro molto vicino a noi, è ambientato il nuovo romanzo di Violetta Bellocchio, La festa nera (Chiarelettere, 2018). È la storia di tre personaggi (Misha, Ali e Nicola) che attraversano il nuovo paesaggio italiano alla ricerca, spesso predatoria, di storie scomode da raccontare, per creare dei video-reportage che raccontano comunità invisibili. La vicenda è narrata da Ali Sabio Garcia, una donna apostrofata come «mezzosangue», che racconta la storia da una posizione marginale (la sua marginalità sociale) e testimoniale (non è la protagonista dei fatti). I personaggi si muovono in un mondo che è solo abbozzato, l’apocalisse annunciata nelle prime righe del romanzo non viene spiegata. La descrizione è scarna e la narrazione spesso reticente, le informazioni di contesto sono dosate; l’effetto complessivo, nella prima parte, è quello di un racconto che fatica a costruire una vera tensione narrativa dinamica: l’effetto di suspense è spesso annullato da una generale difficoltà nel mettere insieme i tasselli. Gli elementi disseminati trovano un ordine nella seconda metà del libro, che pur conservando il gusto per la frammentarietà, favorita dal frequente ricorso a una sintassi giustappositiva, riesce molto meglio a dosare il rapporto fra detto e non detto, mantenendo un perfetto equilibrio fra la costruzione di un’atmosfera e la gestione della trama.

La stessa caratterizzazione del paesaggio italiano procede, in maniera efficace, quasi per litote: non c’è gusto feticistico nell’esibizione del degrado ambientale, ma piuttosto questo viene desunto attraverso la constatazione della sopravvivenza di taluni elementi («il cartello qui ha retto»). L’apocalisse de La festa nera segue quasi la profezia di T. S. Eliot (non a caso alluso da Bellocchio) i cui versi annunciano un mondo che finisce «not with a bang but a whimper»: una fine, dunque, che sembra piuttosto caratterizzarsi come un cambio di paradigma, una modificazione radicale nelle modalità di vita e socializzazione degli esseri umani, sempre più atomizzati, affetti da problemi di comunicazione («Il mondo era diventato un posto pericoloso. Nascondersi era la risposta. Non ci potevamo parlare»), incapaci di raccontare storie coerenti, dotate di senso compiuto, colpiti dal «virus della rabbia». Si assiste quasi alla trasposizione nella vita materiale dei meccanismi della rete: le filter bubble divengono delle comunità fisiche che i tre protagonisti cercano di penetrare per trarne un video-reportage da diffondere su YouTube, sullo stile dei primi documentari di “Vice”.

Il tentativo di ricostruire delle comunità è uno dei fili rossi della narrazione: comunità ai margini che si insediano in zone spopolate lungo la strada statale che collega Piacenza e Genova. Luoghi in cui si cerca di rifondare delle modalità di socialità, che però non vengono presentate come esempi virtuosi: dal mito del ritorno alla terra e alle origini, fino a una scuola-lager per bambini («Di cos’hanno bisogno, i bambini, per poter sopravvivere al giorno d’oggi? Leggere, scrivere, contare e padroneggiare le armi da fuoco. Tutto il resto è rumore bianco. Inutile e dannoso»). In qualche modo la parabola del romanzo potrebbe essere riassunta nel tentativo disperato di trovare dei sistemi di ancoraggio una volta che si sono persi tutti i punti di riferimento, soprattutto nella ricerca di un superamento dell’immanente e della materialità contingente. Riti magici, superstizioni, credenze ancestrali, la speranza di una palingenesi: sono queste le mete ricercate dai personaggi di Bellocchio e sono questi i fini perseguiti dalle varie comunità che si susseguono nella narrazione.

Uno dei temi principali del libro è il privilegio, e in particolare la sua perdita. Si potrebbe quasi sostenere che una delle cause (o delle conseguenze?) della fine del mondo messa in scena da Bellocchio è proprio la ristrutturazione del sistema di privilegi dell’umanità che popola quest’Italia distopica. Ognuno a proprio modo, tutti i personaggi del romanzo devono farci i conti: dalla perdita della fama e della popolarità, al ruolo maschile, alla sussistenza economica. Non a caso il terreno privilegiato per scandagliare la questione è quello del rapporto fra uomini e donne.

Nel loro viaggio in Val Trebbia, Misha, Ali e Nicola scelgono come prima meta una comunità costituita da un gruppo di soli uomini che vivono in isolamento dopo aver commesso reati violenti contro le donne:

Quindi, dice Misha, nella vita di tutti i giorni, le donne sono… proibite? Per il vostro bene?
L’unico modo per sopravvivere senza ricadute è la rimozione integrale. Noi non le guardiamo. Non ci parliamo. Non le tocchiamo.

Attraverso i modi del racconto reportagistico Bellocchio porta avanti, implicitamente, un discorso sul problema del reinserimento in società degli individui una volta usciti dai centri di detenzione. In mancanza di sistemi che garantiscano la riabilitazione, il ritorno in libertà diventa paradossalmente un nuovo carcere. È esattamente quello che avviene nella comunità maschile de La festa nera: come nella famosa vignetta di Mafalda in cui la soluzione proposta per risolvere il problema della povertà è quella di nascondere i poveri, così il primo gruppo umano che incontriamo nel romanzo della Bellocchio non propone alternative alla violenza (reale e simbolica) dell’uomo sulla donna, semplicemente procede per rimozione. Non a caso si utilizza la parola “ricaduta”, volutamente impiegata per patologizzare una condizione sociale: le donne sono considerate alla stregua di un agente patogeno («La donna contamina l’uomo. Il suo sangue contiene l’impurità che innesca la violenza dell’uomo. Il primo passo per entrare nella confraternita è accettare questa verità») e nessuna riflessione viene proposta, all’interno del gruppo, per mettere in discussione quello che Pierre Bourdieu ha chiamato il dominio maschile. Non a caso il punto di vista è sempre concentrato sugli uomini: l’isolamento è per il loro bene, l’attenzione è sul loro ruolo. Allora il problema di Sauro, uno dei membri della confraternita, non è tanto quello di aver perso la figlia, ma di non potersi più identificare con il ruolo maschile di padre, di aver perso dunque il suo privilegio (ancora: reale e simbolico).

Se da un lato abbiamo la rappresentazione e l’indagine di una camera d’eco che vuole essere il tentativo di salvaguardare un tipo di mascolinità tossica e che finisce con l’amplificarla, dall’altro troviamo il punto di vista delle donne vittime della violenza del dominio maschile, attraverso la messa in scena del tentativo di superare uno stupro, degli effetti dello stalking e dello slut shaming. Sono molte le pagine in cui Bellocchio accumula insulti, senza soluzione di continuità, incorporati nella voce della narratrice, per rendere l’effetto di una voce collettiva aggressiva. Lo sforzo de La festa nera, in questo senso, è quello di sfumare i confini fra violenza simbolica e violenza fisica, per mostrare come la realtà della dominazione e della violenza non sia tale solamente di fronte al dolore fisico visibile e manifesto.

L’aspetto più interessante (e riuscito) del libro di Violetta Bellocchio sta proprio nella capacità di problematizzare queste questioni e inserirle all’interno di una narrazione efficace che, senza far ricorso al saggismo esplicito, riesce comunque a condurre un discorso più ampio sulle dinamiche del privilegio e del potere, in cui fattori economici, culturali, etnici, razziali, sessuali, religiosi sono profondamente interrelati, senza però farne un romanzo a tesi. Non c’è nulla da dimostrare, soltanto la sconfortante constatazione della realtà dei fatti, cui i personaggi non riescono a trovare soluzioni che vadano al di là della rimozione («Lo sapevo e non lo sapevo. Il dolore è l’unica cosa vera che ci è rimasta. No. Non devo lasciarmi prendere. Questo non è il mio posto. Io lo odio, il dolore. Mando giù medicine tutte le notti per non sentirlo»).

midenSono aspetti in cui nell’ultimo anno si è interrogata anche Veronica Raimo in Miden, un buon romanzo che può essere considerato, un po’ semplicisticamente, una trasposizione futuristica del movimento del #metoo. Raimo ambienta la sua narrazione in un futuro non specificato di cui non si fornisce nessuna coordinata: come ne La festa nera, la società immaginata è appena abbozzata. In questo caso, però, il focus è su un aspetto soltanto: l’accusa di stupro da parte di una studentessa al suo professore universitario. La vicenda è raccontata alternando il punto di vista del professore e quello della moglie, e non viene mai ceduto alla vittima: Raimo riesce così a problematizzare la questione e non cadere in facili dualismi, creando una narrazione ben costruita che non si fa quasi mai esplicita e affida l’argomentazione al rapido cambio dei punti di vista e alla caratterizzazione linguistica dei personaggi, lasciando una zona d’ombra sulla verità dei fatti e permettendo al lettore una riflessione e un’interrogazione costante sulla questione. Miden restringe, dunque, il focus dell’attenzione e riesce molto bene a interrogarsi su un problema di stringente attualità. Il romanzo rimane però focalizzato su un solo aspetto che resta così ipostatizzato e non riesce a integrarsi completamente con i meccanismi di interazione e di dominio che regolano la società. Violetta Bellocchio percorre invece la strada opposta, cercando di restituire una realtà più prismatica e sfaccettata in cui la relazione fra uomo e donna si inserisce in una rete più intricata di privilegi e condizioni, che non hanno solamente a che fare con il genere, ma anche con la posizione economica, sociale, culturale, razziale.

Non sono necessariamente due modalità in opposizione fra di loro, ma piuttosto due tentativi di dare una rappresentazione estetica a un problema che la narrativa italiana ha troppo spesso ignorato.


Festa neraVioletta Bellocchio, La festa nera, Chiarelettere, Milano 2018, 176 pp. 15,00€