[Concludiamo oggi la pubblicazione dei racconti che hanno vinto la terza edizione del concorso letterario #Laventicinquesimaora, indetto dalla Scuola di scrittura Belleville e nella cui giuria era presente anche la redazione della Balena Bianca. La traccia di quest’anno era: “Cosa succederebbe se un intero racconto – con i suoi personaggi, gli eventi e le azioni, l’incipit e la conclusione – ruotasse intorno a una parola che non si può nominare?”
Come al solito, i partecipanti hanno avuto a disposizione solo un giorno e un’ora per stendere il loro racconto. Dopo il terzo e il secondo classificati, oggi tocca al vincitore del primo premio,
 Bottoni di Claudia Farina]


 

Le quattro e quarantotto. Sempre le quattro e quarantotto. Il tempo è incastrato tra quelle lancette, tic avanti, tac di nuovo indietro, nello stesso punto. A giudicare dalla neve rosa sulle montagne e dal sole che entra basso dalla finestra direi che potrebbero essere le quattro e quarantotto, ma chi può dirlo? Le regole sono chiare: niente orologi, anelli, spille, fermacapelli per motivi d’igiene, per la sicurezza dei pazienti, s’intende. Devo dire a Elsa di togliere quel coso dalla parete e sostituire le batterie.

Non so quanto tempo sia passato dall’ultima volta che sono uscita di qui, i bambini hanno bisogno di cure costanti: dedico loro tutte le mie energie e non mi accorgo del tempo che passa. Se non fosse per Elsa che mi ricorda di pranzare, credo non mi accorgerei neppure di avere fame. È una brava assistente, un’amica.

Ho sempre desiderato fare quello che faccio. Da bambine, io e mia sorella giocavamo a fare le grandi: io già facevo la dottoressa, lei vendeva bottoni, come se vendere bottoni fosse un lavoro vero! È sempre stata un po’ strana, lei. Io provavo a spiegarle che vendere bottoni non era un lavoro, ma soltanto un gioco e che stavamo giocando a fare i grandi e dovevamo fare un lavoro vero, ma non capiva. Doveva fare come me, che con forbici ago e filo già operavo sui miei giocattoli. Facevo sul serio. Poi c’è stato l’incidente. Io volevo solo mostrarle come fare, era necessario che capisse che per me curare gli altri era importante, e lo era per davvero. Ci hanno separate.

Poi ho trovato lavoro qui e l’ho incontrata di nuovo: ogni tanto viene a trovarmi. Sono in servizio, ma per Miriam faccio un’eccezione, è mia sorella dopotutto. Lei sa che sono impegnata e non posso lasciare soli i miei piccoli malati – solo io so come controllarli e come gestire la loro rabbia – quindi non mi chiede mai di vederci fuori. È venuta a trovarmi ieri, dopo tanto tempo, ha bussato alla porta del mio studio alle quattro e quarantotto in punto. Non ci sono specchi qui, niente oggetti di vetro pericolosi per i piccoli. Mia sorella è il mio specchio. Da bambine capitava che anche la mamma ci confondesse – almeno, fino all’incidente.

Ieri, però, è stato diverso. Miriam aveva gli occhi arrossati di chi ha pianto, uno sguardo fuggevole, guardava le mie braccia e girava la testa, si mordicchiava le labbra e faceva finta di sorridere ma non ci riusciva. La vecchia cicatrice è ancora lì, tra l’angolo della bocca e l’orecchio destro – che se mi avesse ascoltato, quella volta, e fosse rimasta ferma lasciandomi fare non sarebbe successo nulla e saremmo cresciute felici, insieme.

– Ciao Amelia – mi ha detto. I suoi occhi neri cadevano sui miei polsi fasciati e sui graffi che ho sulle braccia.

– È stata Teresa, sai? – le ho detto. – La piccola con le trecce rosse. Ogni tanto ha degli scatti di rabbia, ma non lo fa apposta. Va tutto bene, stai tranquilla.

Ha singhiozzato, mi ha baciato ed è corsa fuori dalla stanza.

C’è qualcosa che non va in lei, c’è da sempre. L’ho detto a Elsa prima, quando è venuta a portarmi le medicine – per i miei pazienti, certo – ma lei dice che non le pare. Ha aspettato che facessi colazione e che mangiassi tutto, ha rifatto il letto e mi ha aiutato a spazzolarmi i capelli. È una ragazza robusta, ma molto delicata. È una brava assistente, un’amica.

Sono le quattro e quarantotto, fuori è notte. I miei piccoli pazienti sono lì, allineati sul letto bianco e appoggiati alla finestra, mi guardano dai loro occhi di vetro nei visi di porcellana, mi osservano in silenzio e sorridono. Tendono le mani verso di me. Eccomi, cari, sono qui.


L’illustrazione è di Giovanni Quaglia.