Lincoln nel bardo è un libro spiazzante, per vari aspetti. Si parte dalla copertina: un disegno cartoonesco che ritrae il presidente su un cavallo a dondolo, e si prosegue con il titolo, un concetto preso dal buddismo tibetano. Neanche una volta aperto offre facili soluzioni al lettore, ma andiamo con ordine.

All’inizio infatti, incontriamo, senza tante presentazioni, Hans Vollman e Roger Bevins III, due personaggi che, insieme al reverendo Everly Thomas, costituiranno la presenza principale all’interno del volume. E proprio di “presenza” si deve parlare, nel senso di “manifestazione psichica”, perché i suddetti non sono che spiriti del cimitero di Georgetown, a Washington. Lo stesso cimitero in cui è sepolto Willie, il Lincoln del titolo, figlio del presidente Abraham e morto di tifo in tenera età, a poco più di dieci anni. Lo stesso cimitero in cui, dopo il funerale, suo padre torna per compiere un gesto, forse sacrilego, di certo inconsueto: riaprire la bara per abbracciare un’ultima volta la salma, come a voler richiamare a sé il figlio, trattenerlo dal suo viaggio. Perché è proprio questo che fanno questi spiriti, tra cui i tre suddetti e il giovane Lincoln, nel bardo (sorta di purgatorio, stato post-morte e pre-eternità): attendono, o meglio, indugiano. Indugiano perché non riescono a staccarsi dal ricordo della vita: negano che essa si sia conclusa, chiamano le loro bare “casse da malato” e sperano ancora di riuscire a comunicare con i vivi.

L’elemento più rilevante del libro non è tuttavia la pretesa di dar voce ai morti (il tema è quanto mai antico, potrebbe essere assunto come metafora dell’atto letterario in sé), quanto il modo in cui queste voci sono organizzate. Infatti ogni anima ha diritto, quasi dovere, di parola ed esercita questa facoltà di continuo, come ragione principale della sua nuova vita:

Tutti quei momenti lieti, come abbiamo potuto scordarli?
il reverendo everly thomas

Per restare qui, bisogna soffermarsi di continuo sul motivo principale per cui restiamo; anche a esclusione di tutto il resto.
roger bevins III

Bisogna andare costantemente in cerca di occasioni per raccontare la propria storia.
hans vollman

(E se non è permesso raccontarla, bisogna averla sempre in testa)
il reverendo everly thomas

Questo frammento illustra anche il metodo di costruzione del libro: l’atipica organizzazione dei dialoghi, quasi uno script cinematografico, è il mattone che compone l’edificio dell’intero volume. Ogni spiegazione, ogni riassunto, sono affidati alle voci riportate senza mediazioni sulla pagina. Questo procedimento è un’arma a doppio taglio: la vivacità delle espressioni, la caratterizzazione dei personaggi (che sono incorporei, ma non piatti), il piglio da direttore d’orchestra con cui Saunders organizza questo coro sono formidabili. Il tutto però, ha anche un risvolto nell’esperienza di lettura. Questo libro è stato definito, con una felice espressione del New York Times, «un diorama», ma più che un plastico sembra uno spettacolo pirotecnico, che richiama l’attenzione del lettore da punti di vista differenti, con voci come decine di piccole esplosioni, ostacolando una focalizzazione su qualche personaggio in particolare.

Il plot si organizza intorno al funerale del piccolo Willie, poco prima di esso, durante e dopo. Prima si racconta di una festa, un ricevimento in casa Lincoln, in stridente contrasto con la sofferenza del bambino, che riposa al piano di sopra. Dopo, ci sarà spazio solo per il dolore, il dolore del padre, dei parenti e della servitù tutta, per la perdita del bambino.
Prima, i sentimenti coesistevano: oltre alle sciagure private si percepiva anche la paura per l’andamento della guerra civile, paura mitigata solo dalla speranza di una sua fine a breve termine. Dopo, il lutto pervaderà tutto e, pur non imponendo un cambio netto in termini di agenda (la guerra continuerà, gli impegni presidenziali anche), ne imporrà uno mentale.
Nella parte dedicata ai momenti pubblici, il testo è organizzato allo stesso modo, ma con intenti differenti. In implicito contrasto con le emozioni private, Saunders colleziona fonti storiche, inserendo citazioni su citazioni, con tanto di preciso rimando bibliografico. Questa attenzione quasi ossessiva per la precisione sembra voler trasmettere però l’effetto opposto. Infatti non sappiamo se tutte queste fonti siano reali, alcune sembrano inventate dall’autore e la tentazione che si ha non è quella di mettersi a verificare ogni riferimento, operazione non certo adatta ad un volume con l’etichetta di “romanzo”, ma di tralasciare l’elemento di veridicità referenziale, siglando, insieme allo scrittore, una dichiarazione di rinuncia alla reale conoscenza su certi temi:

Molti invitati ricordavano soprattutto la stupenda luna che splendeva quella sera
Da
Season of War and Loss di Ann Brightney

Varie descrizioni della serata si soffermano sullo splendore della luna
Da
Long Road to Glory di Edward Holt

Un elemento comune a tutti i racconti è la luna dorata, che brillava pittoresca sulla scena
Da
White House Soirees: An Anthology di Bernadette Evon

Quella notte non c’era luna e il cielo era carico di nubi
Wickett,
op. cit.

Una grossa falce di luna verde brillava sulla scena di quella pazzia come un giudice impassibile, avvezzo a ogni follia umana
Da
My life di Dolores P. Leventrop

 Esempi come il succitato si ritrovano spesso: sono quasi sempre poste una accanto all’altra fonti discordanti su particolari dall’importanza secondaria, come il colore degli occhi del presidente o il tipo di luna presente nel cielo. Questo accostamento antitetico porta ad una sintesi differente da ciascuna delle due affermazioni precedenti: se ne conclude che la precisione non è importante, di fronte all’ineluttabilità del destino; tutti siamo vivi adesso, e tutti dovremo morire ad un certo punto, questa è l’unica certezza. Non contano i dettagli, di fronte alle grandi svolte della vita; contano più per i morti i dettagli, per questi morti che si attaccano a tutto per non accettare la verità. E contano meno per i vivi, che certo soffrono, come soffre il presidente e come soffrono i suoi compatrioti per la guerra civile, come soffrivano i neri per la schiavitù, ma hanno imparato a non fare della loro sofferenza una questione cavillosa, semmai viscerale. È per questo che il padre Abramo va ad abbracciare il figlio Willie, sa che non potrà riportarlo indietro, ma non riesce a trattenere le sue emozioni.

Ma il funerale di Willie, e soprattutto il successivo ritorno, in solitaria, di suo padre al cimitero, è un turning point non solo per la vicenda familiare, come evento fondamentale per l’elaborazione del dolore, ma anche per l’interpretazione di tutto il libro, perché ne riunisce i vari aspetti e apre l’intera storia ad una nuova rilettura.
Il consesso degli spiriti, un gruppo tutt’altro che omogeneo, ma accomunato dallo stesso attaccamento alla vita, ha raccontato fino ad adesso le sue storie, il suo passato, il suo futuro (in alcuni casi intravisto e poi rinnegato), ma soprattutto il suo presente, il tempo che nel bardo scorre sempre immutabile. La loro routine è semplice: durante il giorno ritornano nelle loro “forme malate”, durante la notte possono uscire dai corpi e girovagare per il cimitero, parlando tra loro e spingendosi fino agli estremi del campo. Nulla viene a turbare le loro consuetudini, eccetto il fenomeno della “materialuceradiante”, una sorta di esplosione che può dissolverli in seguito ad una presa di coscienza, liberandoli dai loro rimpianti e consegnandoli allo stadio successivo.

È in questa situazione che irrompe Lincoln sr, in qualità di padre prima di tutto, ma anche di presidente come vedremo, e la sua visita non passa di certo inosservata. Lascia traccia di sé in alcune pagine scritte dal guardiano del cimitero, ma soprattutto crea scompiglio tra gli spiriti, che gli si rivolgono subito con i più differenti obiettivi. Se alcuni, tra cui i tre già citati Vollman, Thomas, Bevins, cercano di comunicare con lui per allentare la stretta del ricordo e affrettare la liberazione del piccolo Willie, altri irrompono nella calca per curiosità, e tutti “entrano” dentro il presidente. Entrano, perché il modo che hanno gli spiriti, che tentano, per comunicare con i vivi, è questo: essere presenti dentro di loro, sovrapporsi, cercare di far collimare i pensieri, dei viventi e dei defunti. In questo il libro sfrutta ancora un’altra caratteristica formale, l’inserimento del corsivo in mezzo al testo tondo, per suggerire l’alternanza di voci, di personalità, di sentimenti:

Poi lo spilungone bianco uscì dalla porta e mi venne dritto incontro.
Non mi spostai mentre mi passava attraverso e intesi più o meno
Andrò avanti, sì. Con l’aiuto di Dio. Anche se uccidere sembra in contrasto con il volere di Dio. […] Ma non ho ancora capito quale sia, questa nuova situazione, aspetto con pazienza di scoprirlo, proprio mentre tremila caduti mi fissano con odio, torcendosi ansiosamente le mani di cadavere, chiedendo: Che cosa otterremo andando avanti così, cosa renderà utile il nostro terribile sacrificio…
Poi uscì e ne fui contenta.
Vicino al cancello c’era Mr Havens, anche lui si trovava sul cammino di quel bianco, come me, ma fece una cosa che io non avevo avuto il coraggio (né la voglia) di fare
mrs francis hodge

Ed è qui che i piani si intrecciano, perché questa moltitudine di voci, questo insieme di pensieri e sentimenti sposta l’attenzione dall’aspetto umano a quello politico di Lincoln. La rappresentazione si fa metafora e riunisce in lui, come a seguire l’assonanza padre/patria, il sentimento privato e quello di un uomo designato a rappresentare l’intero Paese, un uomo che in un certo senso contiene l’intero paese, ricordando che la compassione non deve valere solo per i nostri cari, ma anche per i nostri nemici e per i nostri sottoposti, anch’essi esseri umani.

In conclusione, Lincoln nel bardo è un libro che ci mette di fronte al dubbio più importante di tutti: se l’esistenza è piena di sofferenza e non è garantito niente dopo la morte, per cosa vale la pena vivere? E lo fa dando voce a chi della vita ha già avuto esperienza, ma ritiene non sia stata abbastanza. Un libro toccante in alcuni punti, divertente in altri e di certo molto innovativo nella forma. Un libro che rischia di farsi inglobare dalla sua stessa struttura, in cui il dolore e la compassione a volte rimangono in secondo piano di fronte al chiacchiericcio dei defunti e dei viventi, ma che riesce a trovare un nuovo modo per raccontare gli eterni temi dell’attaccamento e della perdita, cosa non certo da poco.


LincolnGeorge Saunders, Lincoln nel Bardo, Feltrinelli, Milano 2017, 352 pp. 18,50€