Nel corso di una serie di articoli sulla letteratura italiana osservata da un punto di vista di genere ho documentato la problematica marginalizzazione che investe le opere delle scrittrici del Novecento e contemporanee, e messo in rilievo i meccanismi e le retoriche che producono e riproducono tale marginalizzazione. È ovviamente impossibile, e sarebbe anzi controproducente, pensare di colmare le enormi lacune esistenti con una sommaria selezione e rassegna di autrici significative: la conoscenza, l’analisi, la critica e l’inserimento nel canone letterario delle opere delle scrittrici sono un compito lungo e necessariamente collaborativo[1]. Allo stesso tempo, è altrettanto impossibile pensare di creare una categoria letteraria uniforme e compatta, una ipotetica «letteratura delle donne», sulla base del genere di chi scrive.

Tenendo conto di queste premesse, tuttavia, due considerazioni appaiono particolarmente rilevanti: in primo luogo, ciò che ha accomunato, e in parte continua ad accomunare oggi, le scrittrici fra loro, è proprio la marginalizzazione delle loro opere sulla base del genere di chi scrive; in secondo luogo, e in modo più sottile e profondo, le donne hanno rappresentato un elemento di fortissima discontinuità politica e culturale nel corso del Novecento, e il loro accesso alla parola letteraria è parte di questa radicale novità. Le donne storicamente partecipano di una condizione esistenziale e antropologica differente da quella che gli uomini hanno raccontato per millenni. Le aspettative di realizzazione personale, di comportamento etico, di organizzazione del sé e delle relazioni, di partecipazione alla cosa pubblica sono sempre state sostanzialmente differenti per uomini e donne. Senza che si possa stabilire alcun nesso di tipo deterministico fra una condizione esistenziale e un prodotto artistico, e quindi fra identità di genere e scrittura, è però astratto pensare che questo nesso sia inesistente, e che la scrittura si muova in un terreno altro, in cui le condizioni materiali e culturali (formazione, genere, classe, razza, privilegio, storia personale, e tutto quanto compone una certa «condizione umana», per usare la terminologia di Hannah Arendt) non abbiano alcuna importanza. Al contrario, quando la scrittura si fa densa e profonda, traduce sulla pagina il portato esistenziale, etico e politico di una condizione umana. Nel Novecento, le donne prendono la parola su di sé e sul mondo, passando dalla posizione di oggetto della rappresentazione a quella di soggetto, contribuendo a rivoluzionare forme e contenuti del panorama artistico.

In una recente, bellissima recensione de La scuola cattolica di Edoardo Albinati, Christian Raimo identifica nell’analisi della mascolinità il nucleo poetico più significativo dell’opera, e mette in evidenza l’apporto centrale del femminismo nell’operazione letteraria di Albinati, in quanto gli consente di sviluppare una riflessione critica situata sulla formazione e il funzionamento dell’identità maschile. È proprio questo che fanno, dall’inizio del Novecento, le opere scritte da donne, che siano o meno imparentate con un approccio consapevolmente femminista: si trovano a parlare da una prospettiva situata, che le costringe a riflettere sulla propria posizione, il proprio ruolo e la propria identità. Raimo conclude la recensione de La scuola cattolica lamentando l’assenza della voce e della prospettiva delle donne nella storia raccontata da Albinati. Ebbene, fra le innovazioni che l’accesso delle donne alla scrittura porta, c’è proprio l’alzarsi di questa voce. Nel caso specifico si parla dello stupro del Circeo, e della storia, non raccontata in La scuola cattolica, del punto di vista di Donatella Colasanti. Se andiamo all’inizio del nostro Novecento, troviamo un testo fondativo di questo approccio situato, della nozione secondo cui il personale è politico, e della presa di parola su sé e sul mondo, che accompagneranno larga parte dei testi scritti da donne fino ad oggi. In Una donna Sibilla Aleramo racconta lo stupro subito da parte di un dipendente di suo padre, la discesa negli inferi di un rapporto di violenza domestica fisica, sessuale e psicologica, e il percorso di presa di coscienza di sé e della propria identità irriconciliabile con quella della donna silenziosa e sottomessa che la società si aspetta da lei. Una donna è il romanzo del risveglio di una soggettività e l’atto fondativo di una ricerca – seminale, creativa – di una nuova identità. Il rifiuto e il racconto della violenza maschile sono parte centrale di questa presa di coscienza. E di stupro e abuso raccontano infatti, insieme a molte altre, Elsa Morante in L’isola di Arturo e La storia, Dacia Maraini in La lunga vita di Marianna Ucrìa, Goliarda Sapienza in L’arte della gioia e Lettera aperta, e Franca Rame nel monologo drammatico dal titolo, appunto, Stupro. Sono voci che si levano e portano una prospettiva fino ad allora silenziata e riscritta, appunto, da una prospettiva maschile. Non è dunque Albinati a dover fare da ventriloquo della voce delle donne: la loro voce, i loro racconti, sono lì, e parlano ormai da oltre cento anni.

Come conseguenza della diversa condizione antropologica ed esistenziale di provenienza, inclusa la formazione quasi sempre autodidatta e l’assenza di ogni prospettiva accademica, molte scrittrici del Novecento esibiscono un rapporto libero e irriverente con la tradizione culturale, con le sue norme, le sue codificazioni e le sue aspettative, nel momento stesso in cui l’attività letteraria è investita di un’importanza cruciale nello sviluppo del sé e nella costruzione di una libertà. Si assiste così alla manipolazione e la reinvenzione delle forme e dei generi letterari, tanto che la definizione di ‘inclassificabile’ ricorre trasversalmente a commento di opere scritte da donne (spesso fungendo poi da leva della loro esclusione). È questo il caso, per esempio, della commistione che Anna Maria Ortese opera fra realismo documentario e racconto surreale, fra romanzo e trasfigurazione onirica, fra autobiografia e invenzione, in testi come Il mare non bagna Napoli, L’iguana e Il porto di Toledo. Così, Morante accosta il realismo e la distorsione fiabesca, psicologica o mistica della realtà, reinventando le forme del romanzo ottocentesco in Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo, La storia, Aracoeli. La stessa ambiguità fra realismo e contaminazione immaginifica caratterizza la vastissima opera di Grazia Deledda, vincitrice del premio Nobel per la letteratura nel 1926 «per la sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano»[2]. E di romanzo «inclassificabile» si parla a proposito de L’arte della gioia di Goliarda Sapienza, che fonde il romanzo storico e di formazione con quello psicologico, la narrativa e il dialogo teatrale, la riflessione filosofica e i topoi del feuilleton ottocentesco, e piega il realismo a una distorsione che è insieme ideologica e lirica. Non diversamente, Natalia Ginzburg sovverte il paradigma autobiografico in Lessico famigliare, raccontando non di sé ma degli altri, di quel circolo famigliare e amicale la cui storia si intreccia con i grandi avvenimenti della storia dell’Europa. Se si guarda alla poesia, si può menzionare come esempio paradigmatico l’opera di Amelia Rosselli, che «unisce registro alto e basso, lingua del passato e del presente, trasversalità e scardinamento di regole e misure. Insomma, una scrittura pericolosamente libera»[3]. Sono opere che mettono in crisi la distinzione fra letteratura alta e popolare, fra autobiografia e finzione, fra realismo e immaginazione, contribuendo a ridisegnare la mappa dei generi letterari.

Insieme al sovvertimento e alla reinvenzione delle forme, le scrittrici contemporanee producono innovazioni sostanziali sul piano tematico, sia introducendo nuovi argomenti che offrendo prospettive inedite su argomenti noti. Ciò è evidente, prima di tutto, nella creazione di personaggi femminili a tutto tondo, non più funzioni dello sguardo maschile (madre, moglie, prostituta, donna angelicata, allegoria di dannazione o di salvazione, simbolo, metafora, oggetto del desiderio, e così via)[4], ma soggetti. La creazione di personaggi femminili, più o meno autobiografici, diventa il veicolo di una ricerca esistenziale e politica volta a creare una nuova identità per le donne, in cui l’investimento personale delle scrittrici stesse è spesso molto alto. Prendono vita figure del passato, reali o inventate, come la pittrice del Seicento Artemisia Gentileschi, in Artemisia di Anna Banti, Lucrezia Borgia di Maria Bellonci e La briganta di Maria Rosa Cutrufelli, o figure contemporanee, come la partigiana de L’Agnese va a morire di Renata Viganò, o la giovane protagonista del bellissimo romanzo napoletano di Fabrizia Ramondino, Althénopis, e, più di recente, le donne, anch’esse napoletane, che popolano i romanzi taglienti di Elena Ferrante. Al rifiuto di un destino e di un’identità assegnati dalla società si accompagna per molte di queste protagoniste un forte conflitto sociale, un incontro faccia a faccia con il dolore, l’isolamento e la follia, e l’avvio di una ricerca personale per capire come si può essere donne al di fuori del copione patriarcale. Tale ricerca porta con sé una forte attenzione alla condizione sociale delle donne, alle dinamiche di genere nella formazione identitaria, e un’acuta consapevolezza dell’oppressione delle componenti più vulnerabili della società, non vissuta dal di fuori, con uno sguardo intellettuale di volta in volta scientifico, voyeuristico o impegnato, com’è stato per gran parte degli scrittori del Novecento, ma dall’interno, perché i meccanismi dell’oppressione sono vissuti sulla propria persona. È questa, per esempio, la sensibilità che sostiene tante delle opere di Ortese e di Morante, e che trova ne L’iguana, storia surreale di una servitù assoluta, e ne La storia, racconto di una lotta per la sopravvivenza e per la dolcezza nella furia distruttrice della storia, un’altissima realizzazione poetica.

E ci sono poi la sessualità, la maternità e l’amore, territori in cui più si mischiano in modo incandescente il desiderio, la ricerca di autorealizzazione e la lotta per sfuggire alla riproduzione di ruoli stereotipati e di meccanismi violenti e oppressivi; e c’è la sessualità con altre donne, come ne L’Arte della gioia di Sapienza, nei versi di Patrizia Cavalli, o in Benzina di Elena Stancanelli, una sessualità finalmente raccontata dall’interno e non come fantasia erotica maschile. C’è l’esplorazione dell’infanzia, vissuta come il luogo che in qualche modo ha preceduto la differenziazione sessuale, una sorta di tempo sospeso in cui le bambine potevano ancora nutrire sogni di libertà e autorealizzazione. E c’è l’attenzione all’infanzia reale, all’universo dei bambini, con cui spesso le donne condividono la quotidianità. C’è la gamma delle relazioni famigliari, e in particolare il rapporto con la madre, amata nel momento stesso in cui se ne trasgredisce l’esempio per sfuggire a un destino, e con il padre, amato nel momento stesso in cui è detentore di un potere e rappresentante di un ordine sociale patriarcale. E c’è il rapporto con le altre donne, rapporto di competizione ma anche di solidarietà, amicizia, cura, desiderio erotico, sostegno e riconoscimento reciproco.

Se il Novecento è il secolo della crisi dell’identità e del rapporto fra realtà e coscienza, tante opere scritte da donne danno voce al desiderio di un’identità che è ancora da scoprire e costruire, e alla lotta per l’appropriazione di una realtà a cui è sempre stato negato l’accesso. Laddove Barthes dichiara morto l’autore e la letteratura viene decostruita dall’interno, smembrata e rimessa insieme in un collage, un gioco di segni linguistici, un divertissement, autrici come Deledda, Aleramo, Ginzburg, Pozzi, Ortese, Morante, Merini, Sapienza, Ramondino, Rosselli, e tantissime altre, riaffermano la fiducia nella parola letteraria, nella voce autoriale, nella scrittura come presa di posizione nel e sul mondo, identificando il nesso costitutivo fra parola, identità individuale e legame sociale, e iniettando nuove energie e forme nella letteratura. Questi, ovviamente, non possono essere altro che spunti, tracce, aperture; ma spero siano utili a dare un’idea di cosa parliamo quando ci riferiamo alle scrittrici contemporanee, e quanta umanità e quanta letteratura perdiamo a non leggerle.


 

[1] Qui alcuni esempi di brevi rassegne di autrici in prosa: Caterina Padula, Scrittrici italiane del Novecento: le più famose, «NanoPress», 18 gennaio 2016; Le 9 scrittrici italiane più alla moda, «Sul romanzo», 26 febbraio 2015; e in poesia: Maria Rosa Grifone, Voci di donne nella poesia italiana contemporanea, «Zenit», 7 gennaio 2015; Camilla Bisi, Le poetesse d’Italia, «Via delle belle donne», 5 aprile 2011.

[2] Dalla motivazione per il premio Nobel del 1926.

[3] Maria Allo, Libertà, ricerca e musicalità nella poesia di Amelia Rossell», «‘900 letterario», 20 agosto 2017.

[4] Ci tocca vedere ancora oggi un libro di filosofia che si presume trasgressivo intitolato Metafisica della puttana (di Laurent de Sutter), in cui la figura della prostituta «ha sempre a che vedere nientemeno che con la verità». E, nella recensione al volume su Le parole e le cose, Paolo Godani può ancora chiedersi: «Chi è, ammesso che possa essere un qualcuno, questo strano essere che a suo tempo popolava i bordelli?».