il primo gesto era decisivo, solo quello

 

Lo scorso 10 novembre, a Milano, in un’affollatissima Casa della Poesia, si sono celebrati i 40 anni di Somiglianze, l’opera con cui Milo De Angelis ha esordito nel 1976 avviando una ricerca che a tutt’oggi appare come una delle più fresche e vitali del nostro tempo. Un libro, Somiglianze, che a quattro decenni di distanza non smette di essere amato e di chiamare in causa nuove generazioni di poeti e di lettori, e che occupa una posizione di assoluto rilievo all’interno del corpus poetico dell’autore.
Immaginando infatti di dividere l’opera di Milo De Angelis in due segmenti principali – non senza un certa forzatura, data l’irriducibile compattezza del dettato – e ponendo da una parte Somiglianze, Millimetri, Terra del viso e Distante un padre, e dall’altra invece Biografia sommaria, Tema dell’addio, Quell’andarsene nel buio dei cortili  e il recente Incontri e agguati, si direbbe che proprio in Somiglianze si incontrino e si ergano, fin da subito, le due istanze fondamentali di tutta una poetica: da una parte, il supremo istante della gioia, con tutte le sfavillanti costellazioni di immagini in cui viene declinato; dall’altra, la commossa ma sempre lucida coscienza della tragicità del nostro destino, con le sue ambulanze e le sue ciminiere, i suoi cornicioni e i suoi precipizi, dove si giungerà sempre soli.
Inoltre, è da notare che nell’architettura complessiva della raccolta la prima delle due istanze riesce, se non a dominare, quantomeno a governare anche la seconda, a congiungerla a sé e dirigerla, mentre invece, da Millimetri fino a Distante un padre, sarà la seconda a prevalere e l’asse gravitazionale dei testi verrà così risucchiato verso quelle zone estreme dove infuriano le forze più frananti e ripide dell’essere: Millimetri ne sarà l’esito più alto e gelido.
Somiglianze, con la sua richiesta e la sua spinta nascente, riesce allora a far scintillare in sé, e di lì verso il lettore, parole inauguranti e inaugurali, che non solo segnarono, a suo tempo, un’intera generazione, ma che hanno indicato per sempre un cammino inusitato, percorribile dalla poesia italiana, un cammino che non esiteremmo a definire greco[1] ma, certamente, spogliato di ogni ornamento nostalgico e mostrato nella sua potenza dettante: di qui la capacità del libro di giungere inalterato nella sua vis profonda fino a noi, rivolgendosi con la stessa freschezza alle nuove generazioni.
La ragione di questa longevità è senz’altro nell’intima essenza donante del libro, nel sì perentorio in cui entra il poeta e in cui siamo a nostra volta esortati a entrare. La poesia di Milo De Angelis, infatti, vive e batte forte proprio in questo sì che non conosce esitazioni: la sua cifra è l’offerta, e non passeranno molti anni da Somiglianze (sette, per l’esattezza, fino al 1983, anno della prima edizione di Millimetri) perché il poeta giunga, in forza di un dettato sempre più irto e asciutto, al polo estremo dell’offrire, a quel sacro offrire che è sacrum facere , l’esperienza frontale di una parola che si confronta con il terribile (il sacro nella sua accezione fondamentale, appunto).
In Somiglianze assistiamo allora al momento originario e sorgivo di questa essenza donante che si incarna in un destino e un dettato. Per aprirci un varco tra le forze evocate dal libro, vogliamo lasciarci guidare da un’intuizione di Gaston Bachelard, insuperabile analista dello psichismo poetico. Come scrive il filosofo francese ne La poetica della rêverie, «soltanto ammirando il mondo possiamo farne parte. Il mondo è costituito dall’insieme delle nostre ammirazioni. La nostra massima potrebbe essere: ammira subito, capirai dopo». È nostra opinione che Somiglianze possa essere inteso proprio a partire da quella singolarissima angolatura che è lo sguardo ammirato, lo sguardo fresco della giovinezza, da intendersi qui non come categoria sociologica o etichetta anagrafica, ma piuttosto come struttura originaria dello spirito, potenza archetipale.
Ora, ci sembra importante precisare che l’ammirazione non ha niente a che vedere con lo stupore filosofico. Infatti, mentre la prima ha già da sempre amato il suo oggetto, ha già da sempre pronunciato il grande sì, ha creduto e onorato le forze, entrando così nel giuramento e nel patto, lo stupore vive invece ancora al di qua di questa solenne promessa, non ha ancora sposato le forze e molto probabilmente non lo farà. Infatti, attraversato da un istante di fatale esitazione, da una finissima frattura che gli resta come traccia e domanda, anziché amarle esso le interroga: perduto nella contemplazione, maturerà così in sé il suo destino di ipotesi e dubbio, il suo cogito e il suo ergo, estranei invece alla indeducibile certezza dell’ammirazione, propria dello sguardo poetico. Chi ammira è certo del valore e perciò si astiene dal giudizio, non si preoccupa di domandare e di capire ma anzitutto di accogliere e di corrispondere, di tendere l’udito e di affilare lo sguardo; verrà, è fuor di dubbio, il momento di capire, è già giunto da sempre in chi ha creduto: questo è il filamento di pensiero che anima tutta la raccolta e tutta la poesia dell’autore.
Milo De Angelis, tuttavia, è sempre stato ben lungi da ogni facile concessione vitalistica: netta è infatti nel poeta, fin dall’esordio, la coscienza che a quelle forze eravamo promessi e che nulla di questa adesione – in cui si nascondono anche un baratro e una vertigine – lo dobbiamo a noi stessi. Un baratro e una vertigine: rispondere alle forze è certamente la gioia di corrispondere ma è anche entrare nel tempo tragico, nel tempo spezzato e verticale del destino: varcare i margini di quella crepa del tempo che è un istante. Il patto lo esige, e noi siamo promessi a quel patto: perciò dobbiamo discendere nel pozzo buio e percorrere il ciglio dei crepacci per rispondere di noi stessi fino in fondo, consumare a viva forza il detto fino a che non ne sia più nulla né di noi, né del rispondere, e solo allora risorgeremo, spinti così in là da essere usciti dall’altra parte… questo pozzo ha anche una tentazione e una morte vigile, una metamorfosi che deve fare esperienza del suo pericolo.

“T.S.”

I
Ognuno di voi avrà sentito
il morbido sonno, il vortice dolcissimo
che si adagia sul letto
e poi l’albero, la scorza, l’alga
gli occhi non resistono
e i flaconi non sono più minacciosi
nella luce chiaroscura del pomeriggio
mentre mille animali
circondano la lettiga, frenano gli infermieri
il disastro del respiro sempre più assopito
nei vetri zigrinati
dell’autoambulanza, appare
il davanzale di un piano, il tempo
che sprigiona i vivi
e li fa correre con la corrente nelle pupille,
l’attimo dell’offerta, per scintillarle.
E improvvisa, la quiete
della vigna e del pozzo, con la pietra levigata
dividendo la carne
una calma sprofondata dentro il grano
mentre la donna sul prato partorisce
sempre più lentamente,
finché il figlio ritorna nella fecondazione
e prima ancora, nel bacio e nel chiarore
di una camera, il grande specchio,
il desiderio che nasce, il gesto.

II
E poi avrete sentito, almeno una volta,
quando il liquido, delicatissimo,
esce dalla bocca, scorre giallo nel lavandino
e la sonda e le sirene sempre più lontane.
Il respiro si appanna, finisce, riprende
quanta pace nella spiaggia gelata dal temporale:
una canoa va verso l’isola corallina
e sotto l’oceano si accoppiano le cellule sessuali
non ci sono eventi irreparabili
ma solo le spugne cicliche, gli insetti
che hanno coperto l’aria:
ecco un colore di madreperla, una roccia nella sabbia,
i passi, ecco la mamma,
l’accappatoio che toglie con un solo gesto
solennità della luce, la meraviglia, la prima
e la femmina del pellicano
chiama la nidiata sparsa nella tempesta
e forse vede qualcosa, tra gli scogli,
qualcosa che si muove
domani correrà con i suoi bambini
mescolata, per respirare
nel turchese profondo della marea
che sale in superficie, sta rinascendo adesso
e trova una terra diversa, un’altra voce.

Corrispondenze vertiginose, scardinamento di ogni principio di causalità in favore di un ragionamento che ha di mira non la coerenza argomentativa del singolo testo ma un’idea assoluta e totalizzante di poesia, come se ogni componimento dovesse rispondere in ogni momento di se stesso in ragione di una totalità che lo fonda e lo precede, di un destino o, il che è lo stesso, di quella forma che il destino si dà quando diviene parola: un dettato. Nella raccolta di saggi e riflessioni Poesia e destino, del 1982, Milo De Angelis affermerà qualcosa del genere parlando dell’andare a capo in poesia, quando scriverà di aver perseguito negli anni «un andare a capo ancora più lontano dal senso […] una rottura della frase che fosse obbligata ma non innalzabile dalla frase stessa né dalla totalità delle frasi. Che fosse innalzabile da una specie di dettatura, la quale imponeva di spezzare la frase senza spiegazioni e di amare questa spaccatura in una visione totale della poesia, non di quella poesia».[2] L’assoluto perseguito da Milo De Angelis, tuttavia, non vive nella dimensione uranica bensì in quella terrestre e ctonia, non è mai il prodigio di un’ascensione ma piuttosto la picchiata della discesa e anche il risucchio del gorgo. L’acqua, le correnti, la luce radente, la scorza e l’alga sono le sue cifre, cifre di un discendere nelle forze che trova nell’estrema perdita il suo stesso moto riaffiorante: se il testo preso in esame, come sembra alludere il titolo, parla di un tentativo di suicidio, che è la più estrema e ripida delle vie per discendere in se stessi, per dar conto di se stessi, è anche vero che da quel moto verso il basso passa anche il sentiero per la risalita, la rinascita che attende subito dentro le forze, perché se «ogni cosa è stata già rimpianta» non c’è tempo per alcun lutto: la morte, in Somiglianze, non è mai l’occasione per indossare una delle molteplici maschere della malinconia, ma piuttosto la possibilità assoluta del destino, la sua cifra ultima, la crepa che si apre nell’urto tra uomo e tempo.
Occorre però avere assunto (e anzi con l’autore potremmo dire: essere stati da sempre assegnati a) una postura fondamentale. Il mondo non ci chiede di essere capito, e capirlo non solo è impossibile ma nemmeno necessario, non come primo gesto, perché più importante e originario è avere detto sì, averlo detto subito. Così esordisce la prima lirica della silloge, I suoni giunti: «il lupo è sotto la coperta | e occorrono mille domande per capirlo | anche se la voglia | è di credere subito a tutto | pronunciando un grazie silenzioso e intenso | l’unità della sabbia, la mano destra che tocca | la sinistra luminosa delle statue egiziane (…)». Il mondo poetico, come tale, dato per la prima volta e cioè guardato qui a ritroso con gli occhi di un’adolescenza così trafitta da ricongiungersi con la propria infanzia, non è mai il mondo del filosofo, ma somiglia semmai al mondo del sapiente, dell’illuminato. Così, questo mondo non viene inteso a partire dalla frantumata molteplicità di un pensiero interrogante, bensì visto una volta per sempre nella sua unità inscalfibile – e così ringraziato. E non c’è niente da capire, ogni cosa è lì di fronte a noi con la sua gioia e il suo urlo, e chiede solo di essere ascoltata e guardata nella sua essenza irriducibile.
L’urlo e la gioia. Questa gioia, questa «voglia tremenda di esserci», che come un fuoco segreto vivifica e fa brillare l’intero libro, è l’offerta più grande, ciò che si dedica, proprio come «l’atomo aperto [che] ama tutto», come quella «energia [che] ribolle nei vestiti» e ci chiede di nascere, di rinascere un’altra volta, di «non durare» e abbandonarci, partire «una volta tanto da quello che ci resta» per andare finalmente a «nascere nel sì | impreparabile». Tutto Somiglianze ci parla di questo sì, di questo atto di fede, di questo patto assoluto, di questa lealtà sovrana, di questa imminenza che non impone condizioni perché è essa stessa la condizione di esigerci interamente – condizione per cui dobbiamo ugualmente fiorire e ferirci, essere ferita e fiore.

FIORITURA

E le api fecondano anche questa volta
una corsa che ricorda
e sorride per essere più leggera
nel gioco dell’insetto e della corolla
si spoglia di ciò che è troppo suo
e rinasce così, in una luce
che non vuole dire la sfortuna
tra i giochi dell’aria e dell’uva
dove nulla è in agguato
si svelerà, parlerà chiaramente.
Ogni cosa è stata già rimpianta
e adesso reca il dono
al sole profondo:
una storia troppo grande per essere contenuta
che reclama il punto
inaugurato, una cadere di vesti
nel campo cristiano
dove tu eri la saracena.

È il principio della realtà, la tenda
che si muove
e sogna la neve, la luce viva
e tenera di una fine
che è già una speranza
di esserci
e il delicato lirismo, gli ordini complessi
della storia, un’azione:
quando un corpo vuole risorgere non importa il luogo
se osa, se trasporta
messaggero. Anche un filo di gioia
nelle mani, è tutta la gioia.

Vedrà le correnti e il sogno, l’essenza
del papavero, le tenere costellazioni
mentre le labbra, aperte sull’acqua,
lasciano un segno rosso
a ciò che muta.

Questo è il suo canneto, il colore della vigna
una vicinanza
impronunciabile, alla svolta della stagione:
ora si può gridare, vedi,
perché non si può più ripetere
e un frutto si apre, tutto cerca
ogni cosa, nella via che si allunga, respira
a grandi passi, Roberta, risorge.

Come ognuno, come il poeta e come Roberta, anche noi dunque ci sveleremo, parleremo chiaramente – è proprio questa tutta la promessa del libro, una promessa grandissima costruita sulla consapevolezza delle cose più piccole: «anche un filo di gioia | nelle mani, è tutta la gioia». Tutto il libro è preso forte in questo palpito e chiamato al grande momento per essenza impreparabile, perché se il gesto grande sarà esserci stati, occorrerà averlo fatto interamente, essersi offerti senza indugio, «recare il dono al sole profondo»,  senza inginocchiamenti al rimorso o al dubbio, proprio come titola il componimento, quindi, essere fioriti, avere accolto in sé l’esistere e con esso il dolore e la gioia, quella gioia prossima e fragile, delicatamente deposta nelle nostre mani come il più vulnerabile dei doni. E non potrà allora esservi alcun bilancio del prima e del dopo, tutto è già giunto e quel che conta sarà l’istante e il destino che esso convoca: per fiorire, come anche per risorgere (che è sempre un rifiorire), «non importa il luogo | se osa», ovvero se scommette tutto, se dice interamente sì, Roberta come ognuno di noi, «se trasporta | messaggero», se il gesto si fa carico del senso che lo travalica e lo chiama, da oltre una vita, anche in noi, proprio adesso: «ora si può gridare (…) e un frutto si apre, tutto cerca | ogni cosa».
Certezza inamovibile è sapersi presi qui insieme nel destino. Coscienza del tragico, della permanenza di un nucleo inconciliabile, di lacerazioni insanabili nell’essere. Somiglianze non è un libro dove abbia vita facile chi fa troppo affidamento sulla logica aristotelica. Assistiamo infatti continuamente a una versificazione che sembra avere in se stessa le ragioni delle sue immagini, esaurire in se stessa il richiamo ferreo delle concatenazioni. I passaggi associativi repentini restituiscono, con il loro susseguirsi misteriosamente esatto, l’intuizione di un esserci segreto assoluto che ci attraversa tutti con la sua forza guizzante e al tempo stesso unificante: «presa la vita, rallentato il tempo | con i gesti, tutto concordava: | cercavamo una fraternità | nell’ombra, dove l’esperienza non separa».[3] Perché se tutto è tenuto ravvicinato e elettrificato dalle forze, è pur vero che quella stessa elettricità è anche potenza divorante che può portarci sull’orlo dei dirupi, in tutti quei luoghi dove giungiamo e rimaniamo soli, esseri individuati di «panico e ansia».[4]

Vivida è fin dagli esordi di questa poesia la certezza dell’ineluttabile, perché a volte si cede e non si può più «nel terrore [urlare ciò che si è] | per superarlo».[5] E l’autore sa bene che così come il dolore e la distruzione non concedono sconti, né l’uomo né tantomeno la poesia possono concedere sconti a se stessi: tutta la poesia di Milo De Angelis, da Somiglianze fino a Incontri e agguati, si muove lungo zone di confine diametralmente opposte a quelle di coloro che «vorrebbero | un dolore presentato bene e non | questa goffa bruttura indescrivibile».[6] Questa mai rinnegata e anzi nei decenni fedelmente perseguita “cognizione del dolore” è tappa fondamentale nell’evoluzione spirituale non solo dell’autore ma di tutte le umbratili presenze che, come frammenti di voci corali, schegge di pensiero carpite al movimento spezzante dell’esistere, costellano i testi avanzando le loro sempre fragili, frananti ragioni e domande: esistenze colte sempre al bivio, sempre in bilico, sul punto di scegliere, di prendere una decisione in cui ne andrà di tutta la loro vita e di tutto il loro essere – sempre sul punto di compiere il passo fatidico nella vita e nella morte, sempre immortalate nell’istante che le miete («li falcia | li ricorda»).

Qui, in questo inalterabile e indeducibile sapere della vita e della morte, nell’immobilità eterna al centro della tensione che ne tiene uniti e sposati gli estremi, troviamo l’eco più nitida e potente della Grecia, la Grecia dei sapienti, la Grecia di Eraclito, di Anassimandro, ma anche la voce antichissima dell’India e la sua cristallina coscienza del terribile, del sacro. In queste regioni, che marchieranno a fuoco Millimetri, possiamo rinvenire la scaturigine di un testo sibillino come Nel punto, con il suo dettato franto e sentenziante, asciutto e scarnificato, dove ciò che conta non è già più il detto quanto il non detto, non le parole e non il silenzio bensì il silenzio che ciascuna parola reca con sé, il silenzio da cui ogni parola proviene e a cui ritorna.

NEL PUNTO

Ora che parlo di te
senza chiamarti… solo adesso…
oltre l’analisi… dove non c’è
niente di intero… ma atti…
… ti dico… tenta… dall’inizio…
… non aggiustare, non appoggiarti…
… per dare una carezza
non bastano le altre… tenta…
non contrattare più… non prepararti…
non durare…

Il “punto” è quello a cui siamo sempre chiamati, è il punto di ogni giorno, quello decisivo (Nietzsche ha detto: «in ogni momento inizia l’essere»), è l’enormità più piccola, quella di fondersi e perdersi nell’azione che giunge adesso, l’infinita concentrazione e tensione delle forze che agita ogni istante – è il “tempo esploso” delle arti marziali e l’immagine più compressa e tesa del luogo in cui si entra o da cui si è respinti per sempre: solo in quel punto il gesto convoca il destino e può far ritornare l’infanzia e l’inizio. Ma per riuscire in questo, Milo De Angelis ce lo ha detto senza remore, bisogna corrispondere interamente: «chi, messo alle strette | diventa vero | capisce, seriamente, capisce | come questi campi: solo dopo i falò | diventano reali e finiti […] e lo sapeva bene | scendere veramente | senza astuzie, significa tagliarsi | la via del ritorno».[7] In questa coscienza dell’estremo che infuria in ogni attimo, e nell’esortazione a darsi senza indugio, scorgiamo allora la postura etica ed estetica del libro, il lucido magistero di chi, come dimostreranno le raccolte seguenti, è a sua volta e in prima persona sceso veramente e senza astuzie, tagliandosi la via del ritorno. Vediamo allora qui, in nuce, gli psichemi ripidi e sfigurati che comporranno, sette anni più tardi, i paesaggi di Millimetri, l’esigenza imperiosa di andare a fondo e poi di lì a capo, sempre più a capo – scorgiamo in controluce quell’idea assoluta di poesia a cui ogni singolo testo vuole e vorrà dare la sua voce, tutta la sua voce, una volta “messo alle strette”: amata e consumata fino in fondo la giovinezza, pronunciato il sì, verrà allora il tempo di trovare una nuova lingua per questo rinnovato pathos delle forze, compiere la catabasi nelle potenze elementari della parola.

 

 

[1] La filiazione greca del dettato di Milo De Angelis mi sembra determinata da almeno due fattori fondamentali: primo, la convergenza, nitidissima, delle istanze fondamentali del pensiero greco arcaico, quello pre-dialettico e presocratico: la coscienza delle forze, il senso cristallino del sacro, e quindi la necessità, il destino, la ricerca di un principio assoluto, di un arché sotteso a tutte le cose; secondo, ritroviamo nell’autore quella postura, quella presa di posizione di fronte al mondo che proprio i Greci inaugurarono e mantennero viva per secoli: una postura verticale e frontale, capace cioè di affrontare e fronteggiare la potenza torreggiante del destino.

[2] Milo De Angelis, Poesia e destino, Cappelli, Bologna 1982, p. 17

[3] Milo De Angelis, Poesie, Mondadori, Milano 2008, p.43

[4] Ivi, p.50

[5] Ivi, p.51

[6] Ivi, p.50

[7] Ivi, p.55