Cominciamo oggi a pubblicare i racconti che hanno vinto il concorso letterario #Laventicinquesimaora, indetto dalla Scuola di scrittura Belleville e nella cui giuria era presente anche la redazione della Balena Bianca. Il racconto di oggi, di Sara Nissoli, si è aggiudicato ex aequo il terzo posto. La scrittura di Racconto mima il linguaggio ingenuo di un bambino chiamato a scrivere un tema in classe sulla cosa più cara che ha: le parole cominciano così a vorticare intorno a un oggetto strano, insolito per un ragazzino, che pure dimostra un’insospettabile confidenza. A poco a poca la scrittura carica di senso ed emozione quest’oggetto, il cui valore simbolico si rivela progressivamente. La voce di Sara Nissoli, in questa breve prosa, segue le orme del Jonathan Safran Foer di Molto forte, incredibilmente vicino e ci consegna un Racconto delicato, dove amore e dolore trovano trovano le parole giuste per tenere unita la trama di un legame. 


 

Racconto

11 gennaio 2016

Alessandro Passoni 2^B
Tema: Parla della cosa più cara che hai

La cosa più cara che ho si trova nella cassaforte della mia famiglia. Non è una cassaforte grande, ma è ben nascosta e dentro ci sono alcuni gioielli di mia madre, i nostri passaporti, qualche foglio firmato che non ho capito bene cos’è e poi la cosa più cara che ho. Mamma pensa che io non sappia aprire la cassaforte, invece me l’ha mostrato mio padre un pomeriggio che ero in terza elementare. Mi ha detto che il numero per aprirla è il telefono dello zio Carlo senza il prefisso, e poi mi ha insegnato a girare la rotellina nel modo giusto, due volte a sinistra e una a destra. Quando mia madre e i miei fratelli non ci sono apro l’armadio della stanza dei miei genitori, sposto alcune coperte e la vedo lì incassata nel muro. Hanno fatto un buco nell’armadio per mettercela, papà non voleva, ma mamma ha insistito ed eccola lì. Mi piace tanto aprirla, mi sento un po’ come in quei film in cui i ladri vanno in banca e aprono una cassaforte che è cento volte la nostra o anche di più, solo che io non sono un ladro e questa cassaforte, penso, è anche mia. La apro, trattenendo il fiato per paura che qualcuno si sia accorto dei miei movimenti e abbia cambiato la combinazione, e resto lì a fissarla, con quelle coperte in mano. Poi prendo la cosa più cara che ho. Si trova in un astuccio scuro di pelle: è una pistola molto bella, nera. Una Glock 17 che pesa 625 grammi scarica e 905 carica. È una semiautomatica, prodotta da una ditta austriaca dal 1980. Lo so perché mi sono informato e ho scoperto un sacco di altri modelli di armi, che però non mi interessano. A me interessa solo la nostra Glock 17, che si chiama così perché è stata il diciassettesimo brevetto dell’azienda ed è una pistola molto resistente, hanno fatto anche dei test: resiste in acque dalla temperatura elevata e se cade da 120 metri forse poi funzionerà ancora. Da quanto ho letto è un’ottima arma che utilizza cartucce 9×19 Parabellum o 9×21 in Italia, ma questa cosa non l’ho ben capita. In ogni caso non abbiamo proiettili. Quando papà sì è sparato io ero in quinta elementare. È successo di notte, nel nostro box. Abbiamo sentito un botto, ma eravamo vicini a Capodanno e non ci abbiamo fatto molto caso. Si è sparato in macchina, non so dove, perché mamma, che l’ha ritrovato la mattina, non ha mai più voluto parlare di questa cosa. So solo che la pistola ce l’aveva ancora in mano, ovunque si sia colpito. Io spero non si sia sparato in bocca, perché l’ho visto in un film ed è davvero molto brutto. Il cervello schizza da dietro e va da tutte le parti. A me piace pensare si sia sparato nel cuore, e abbia colpito anche il segreto per cui l’ha fatto e ci ha lasciati qui da soli. Mamma ha volute tenere la pistola, si è fatta il porto d’armi apposta, l’ho origliato una volta che parlava con mia zia Francesca. Ieri ero solo in casa, ho aperto la cassaforte e sono stato quasi tutto il pomeriggio con la pistola di papà. L’ho accarezzata, l’ho annusata, ho fatto finta di spararmi (tanto non ha colpi), ho fatto finta di sparare a qualcuno, mi sono rotolato in terra come se fossi in guerra, ho pensato un po’ e poi ho pianto. Mi sembra che stringerla sia un po’ come tenerlo ancora per mano, perché è stata l’ultima cosa che ha toccato prima di morire. Quindi, quando non c’è nessuno io e mio papà, che si chiamava Andrea, ci teniamo per mano e io gli racconto un po’ come va. Presto gli leggerò anche questo tema. Sono convinto che se in qualche modo riuscirà a sentirmi sarà felice che ho parlato di lui, che diceva sempre di non valere niente.