Sono molte e meritevoli le iniziative diffuse per il Paese per celebrare il settantesimo della liberazione dell’Italia dal nazifascismo. Eppure è difficile sfuggire all’impressione che quella del 25 aprile sia diventata, ormai, una festa necessaria ma impossibile e che questo suo carattere contraddittorio, di necessità e impossibilità al tempo stesso, ne sia divenuto ormai il tratto distintivo.

È persino superfluo ribadire le tante ragioni che rendono il 25 aprile una festa necessaria. Se non celebrassimo questa giornata, la forza naturale e perciò impetuosa dell’oblio che, come una corrente, tutto travolge e sospinge il passato nelle aree inconsce del rimosso, non incontrerebbe nessun ostacolo e nessuna resistenza. Anzi, a proposito di resistenza, può ben darsi che la “resistenza” a cui è chiamata la nostra generazione sia, appunto, anche quella contro la cancellazione delle memorie. In questo senso, allora, dobbiamo celebrare il 25 aprile ben oltre questo giorno. Dobbiamo cercare di fare della cultura storica, della conoscenza storica, l’asse della formazione di ogni cittadino. Una certa padronanza dei fatti e delle interpretazioni dei fatti che si sono verificati in Italia dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 dovrebbe essere estesa e costituire una sorta di alfabeto condiviso da ogni italiano. Il rischio che quei fatti, invece, siano ormai per le nuove generazioni, e non solo per quelle, un passato lontano e soprattutto insignificante è alto, altissimo. La distanza emotiva, esistenziale, e dunque anche politica, che tanti cittadini avvertono per quelle vicende è enorme: parlare del 25 aprile 1945 è, per molti, come parlare dell’Egitto dei Faraoni o delle strutture della società feudale. Per questo chiediamo soprattutto alla scuola, che pure sappiamo caricata di tanti compiti gravosi, di usare le tante intelligenze di cui dispone perché, al di là dello specifico giorno del 25 aprile, aiuti i giovani a sentire, anche attraverso nuovi linguaggi, il carattere fondativo del 25 aprile, della Resistenza e della Costituzione repubblicana.

Ma celebrare il 25 aprile non è necessario soltanto per contrastare le forze dell’oblio. Non si tratta soltanto di mantenere vivo il passato, ma anche e soprattutto del presente, di ciò che siamo, di ciò che vogliamo essere. E, del presente, di un presente che ci inquieta, vorrei mettere in evidenza soprattutto due aspetti. Da un lato, sul piano sociale, il ritorno sempre più evidente di fenomeni in senso lato ma anche in senso stretto neofascisti, di pratiche e di parole animate da un odioso razzismo. La cronaca è fin troppo generosa di testimonianze che potrebbero confermare la fondatezza di questo allarme. Nel quadro di una gravissima crisi economica, dalla quale non siamo ancora usciti, e di una profonda instabilità internazionale che alimenta i fenomeni migratori, crescono la paura, l’insicurezza e qualche volta l’odio del diverso. In questa cornice, ricordare il 25 aprile è necessario per capire che la scorciatoia fascista porta al disastro, che la soluzione d’ordine, dell’uomo forte al comando, della repressione delle minoranze e della criminalizzazione del disagio sociale è un’illusione che non risolve nulla. Non esistono alternative alla ricerca faticosa delle mediazioni e delle risposte sociali e politiche ai problemi che sembrano travolgerci.

L’altro aspetto che molti di noi avvertono come un’urgenza del presente riguarda la discussione in corso sul processo di revisione costituzionale. Non si tratta di considerare intoccabile la Costituzione nata dalla Resistenza ed è perciò ingiusto dipingere come vecchi conservatori sordi alle esigenze di rinnovamento coloro che si oppongono, non all’idea astratta di un cambiamento costituzionale, ma alle concrete proposte di revisione che sono in campo. La necessità di qualche limitata e puntuale revisione costituzionale può e deve essere discussa. Ma credo, col sostegno della grande maggioranza dei costituzionalisti di questo Paese, che alcuni principi essenziali non vengano tenuti in debita considerazione nella proposta di revisione costituzionale che il Parlamento sta affrontando e che è in fase avanzata di approvazione. L’esperienza fascista ci ha insegnato che una costituzione democratica equilibrata si fonda, oltre che sul riconoscimento e sulla garanzia dei diritti dei cittadini, su istituzioni rappresentative e radicate nella società e su una chiara divisione dei poteri dello Stato. Mi sembra, invece, che la revisione in corso sacrifichi oltre misura il ruolo del potere legislativo, del Parlamento, a tutto vantaggio di quello esecutivo, del Governo, e riduca in modo grave la forza e l’autonomia degli organi di garanzia, ivi compresi le figure del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale che di fatto potranno essere scelte dalla sola maggioranza politica.

emblema_grQuesto preoccupa molti cittadini, specie se pensiamo al fatto che la nuova legge elettorale, l’Italicum, anch’essa in fase avanzata di approvazione, prevede un corposo premio di maggioranza alla forza politica vincitrice delle elezioni e che perciò il Parlamento, come accadeva con la vecchia legge elettorale dichiarata incostituzionale dalla Corte, non sarà davvero rappresentativo delle tante articolazioni della società italiana. Rischiamo, così, di allargare ulteriormente la distanza, anzi l’abisso, che separa la società dalle istituzioni, i cittadini dalla politica e dallo Stato. Il nuovo Senato non sarà eletto direttamente dai cittadini e la nuova Camera dei deputati avrà ancora una larga maggioranza di componenti nominati dai partiti. Si dice che lo richiede la modernità, che davanti ai problemi che dobbiamo affrontare occorrono governi forti, capaci di decidere, e non parlamenti chiacchieroni e inconcludenti che intralcino l’azione dell’esecutivo. Insomma, in nome della governabilità, dovremmo ulteriormente sacrificare le esigenze della rappresentatività. Stiamo attenti a non giocare col fuoco e, soprattutto, ricordiamoci che la classe dirigente uscita dalla Resistenza e dal 25 aprile, di fronte a problemi non certo meno gravi di quelli attuali visto che si trattava letteralmente di ricostruire un Paese distrutto, seppe governare senza sacrificare la rappresentatività del Parlamento e gli equilibri costituzionali.

Ma il 25 aprile, dicevo, non è solo una festa necessaria; è anche una festa impossibile. È impossibile perché questo nostro non è il tempo della profondità storica, del radicamento nel passato. È il tempo dell’eterno presente, delle istantanee, del culto del nuovo. È il tempo delle impressioni fugaci, dei post e dei tweet, non dello scavo in profondità e delle valutazioni meditate. In un testo bellissimo del 1874, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Friedrich Nietzsche sosteneva che la vita ha bisogno sia della memoria che dell’oblio e protestava contro quella che chiamava una “saturazione di storia”, un eccesso di memoria, il peso gravoso del passato che impedisce di voltare pagina, di fare la storia e di costruire il futuro. Rivendicava, perciò, la necessità dell’oblio: i popoli, come gli individui, devono imparare l’arte di dimenticare se vogliono continuare a vivere. Mi pare che oggi ci troviamo in una situazione opposta a quella denunciata dal filosofo tedesco. Non soffriamo affatto di una saturazione di storia, anzi: gli eventi non fanno in tempo a svolgersi che già vengono dimenticati, senza possibilità di essere depositati nella coscienza collettiva. Lo sviluppo delle nuove tecnologie ha, tra gli altri, anche questo effetto. Ma non c’è solo questo. Il 25 aprile non soffre soltanto di queste trasformazioni sociali generali che, ben al di là del 25 aprile, riguardano la dimensione storica in generale, la categoria stessa della storicità: se, per esempio, il dilagare delle immagini e delle ricostruzioni virtuali ci permettono, per così dire, di “vedere” la Roma antica o la Rivoluzione francese o la Resistenza italiana, il rischio è di schiacciare tutto in un presente indistinto, in una sorta di videogioco che favorisce l’intrattenimento più che la conoscenza, la cultura storica. Ma, dicevo, il 25 aprile presenta delle criticità sue proprie, indipendenti da questi problemi di ordine generale. Il 25 aprile, bisogna pur riconoscerlo, è stato vittima di un insopportabile abuso politico e ideologico della storia. Per semplicità, diciamo che gli abusi sono venuti sia da destra che da sinistra. Da destra, l’opera di delegittimazione del 25 aprile si è concretizzata soprattutto nella denuncia strumentale delle nefandezze che i partigiani avrebbero compiuto, come se l’indiscutibile valore etico, storico e politico della scelta partigiana potesse risultare diminuito da qualche pagina oscura di un libro profondamente luminoso. Anche il richiamo, assillante negli ultimi anni, alla pari dignità di tutti i morti, dei giovani della Repubblica di Salò come dei giovani della Resistenza, è in realtà retorico e strumentale. Qui, ovviamente, non è in discussione la pari dignità dei morti, ma la scelta che fecero i vivi! In questo senso, la scelta partigiana, alla base della Repubblica democratica e della Costituzione, conserva un’incolmabile superiorità etica, storica e politica rispetto alla scelta dei “ragazzi di Salò”, che si schierarono con la Germania di Hitler in perfetta continuità con il “Patto d’acciaio” che Hitler e Mussolini strinsero nel 1939. D’altra parte, l’errore più grave che certi settori della sinistra hanno compiuto è stato quello di volersi, per così dire, appropriare del 25 aprile. Ma il 25 aprile non è una festa della sinistra. Nessuno può onestamente negare il ruolo centrale che la sinistra, le sinistre, hanno giocato nelle vicende dell’antifascismo e della Resistenza, ma, come non si deve mai finire di ricordare, le matrici culturali e le forze politiche della Resistenza sono diverse: socialisti, liberali, comunisti, azionisti, cattolici e perfino monarchici hanno dato vita a questa straordinaria esperienza storica e politica. Del resto, non si tratta di un’eccezione italiana, se è vero come è vero che in Francia e in Inghilterra due conservatori come De Gaulle e Churchill furono campioni dell’antifascismo e della lotta contro la Germania di Hitler. Insomma, quando, per non fare che un esempio, alla manifestazione milanese e nazionale del 25 aprile, è capitato in questi ultimi anni che dei presunti custodi del 25 aprile abbiano fischiato, in Piazza Duomo, dei relatori colpevoli di non appartenere alla forza politica “giusta”, è stato reso un pessimo servizio alla memoria della Resistenza e alla verità storica.

Dunque, il 25 aprile come festa necessaria e impossibile. Non esiste una soluzione facile per uscire da questa impasse. Forse non esiste nessuna soluzione. Non ci resta che abitare questa soglia, questa zona di confine tra necessità e impossibilità. Non ci resta che camminare con circospezione su questo filo sottile di senso che separa, da una parte, una vuota retorica puramente celebrativa che ormai non parla più a nessuno e, dall’altra parte, l’abisso dell’oblio, la pura e semplice rimozione di una storia ancora essenziale e preziosa, un oblio e una rimozione che sarebbero, per i partigiani, una seconda, definitiva e insopportabile morte e, per il Paese, un colpo durissimo al corpo, già così provato, delle sue istituzioni repubblicane.