Il cinema di questi anni sta attraversando una delle stagioni più delicate di sempre. Gli anni della pandemia hanno lasciato ferite indelebibili in un’industria che stava già combattendo contro le emergenti piattaforme e un intrattenimento video sempre più polverizzato tra centinaia di canali e device. Il mondo del grande schermo è in tumulto e gli scioperi di attori e sceneggiatori avvenuti la scorsa estate ne sono una delle ultime manifestazioni. La crisi del cinema può però rivelarsi un momento di riflessione, in cui riconsiderare il proprio ruolo nel panorama dell’intrattenimento. I successi oltre ogni aspettativa di Barbie e Oppenheimer la scorsa estate – anche oltre le previsioni marketing di Mattel, Warner e Universal – e i più recenti casi di Past Lives e Povere Creature sono l’evidente segnale di un cambiamento. Il cinema ha bisogno di ricostruire la sua comunità attraverso il valore delle storie, solo così la chiesa laica della sala buia potrà riconquistare i suoi fedeli. Quello che avviene al cinema dovrà essere un patto per la nuova alleanza, in cui lo spettatore non è più più fruitore stravolto in balia di trovate pigre e contenuti alla moda, bensì testimone.

E la testimonianza arriva da una rivelazione, un evento che sconvolge e mette in discussione le nostre certezze. Chiedete a Paolo di Tarso. O chiedetelo a me che ho appena visto Dune – Parte 2.

L’opera del regista canadese Denis Villeneuve, tratta dal romanzo di Frank Herbert del 1965, Dune, arriva tre anni dopo l’uscita della prima parte, che riusciva nell’impresa di restituire con insperata efficacia il mondo bizantino e al contempo rarefatto descritto nel classico della fantascienza (Marzia Beltrami nella sua recensione dell’epoca parlava di insperato equilibrio). La stampa era unanime nel conferire al film il merito di aver rotto l’incantesimo di opera irrappresentabile, ma qualcuno faceva notare come il prodotto di Villeneuve, con la sua aristocratica fantascienza e le ieratiche immagini, sembrasse uscito da un’altra epoca. Nonostante gli ottimi risultati al botteghino, realizzati ancora in un periodo di parziali restrizioni, la saga sembrava destinata a diventare culto per una schiera di puristi del genere: un costosissimo artefatto distante e privo di un’epica realmente popolare. Sempre che sia mai stato questo il suo intento. Dune – Parte 2 racconta la restante parte del primo libro della saga di Dune e inizia esattamente da dove la pellicola precedente era terminata. Dopo essere scampato al massacro della casa degli Atreides per mano dell’esercito degli Harkonnen supportato segretamente dalle truppe dell’imperatore in persona, Paul e la madre Jessica si uniscono ai Fremen, il popolo nativo di Arrakis. Fin dalle prime inquadrature è evidente come il protagonista assoluto di questo capitolo sia il deserto. Presentato in tutta la sua desolazione e crudeltà nel capitolo precedente, ora è diventato porto sicuro, casa insperata che accoglie chi lo sa comprendere. La spezia che continua a danzare nell’aria sembra riempire non solo i polmoni di Paul, ma anche quelli dello spettatore, immerso in una fotografia kubrickiana di abbacinante potenza. La prima mezz’ora del film è quasi un documentario del national geographic sul popolo dei Fremen, ma senza commenti in voice over. Il regista decide di mantenere un copione essenziale senza sprecare battute, proprio come i Fremen non sprecono i liquidi, nemmeno le lacrime per piangere i morti. Inaspettatamente è Stilgar, capo tribù del popolo di Arrakis, a ricoprire un ruolo chiave. Egli è un uomo che arriva dalla regione meridionale del pianeta, ritenuta inospitale dagli Arkonnen, ma in realtà abitata dai Fremen più fondamentalisti. In quelle zone remote terre resistono da secoli credenze religiose sulla venuta del messia e Stilgar non ha dubbi che Paul sia il salvatore. La storia assume contorni sempre più agiografici e il deserto è ormai quello della Giudea con le sue tentazioni. Villeneuve è bravo nel mostrare come, a questo punto della storia, nessuno sia più realmente padrone del proprio destino, ma tutti siano più o meno guidati da visioni e volontà altrui. Lady Jessica, divenuta Reverenda Madre dei Fremen, alimenta tra gli indigeni il culto del figlio Paul, ma le sue azioni sono ormai quelle di una fanatica, in preda all’ambizione e alla voce della bambina che porta in grembo. Stilgar vede ovunque segni della profezia, ormai accecato dal suo credo e Paul lotta invano contro accadimenti inevitabili. Persino gli Harkonnen e la loro tecnologia mortifera soccombono di fronte a misteri che la loro religione basata sul profitto non può lontanamente comprendere. Così Dune, invece di ammorbidire le asperità drammaturgiche mostrate nel primo episodio e virare verso un accomodante trama hollywoodiana, tiene la barra dritta sull’epica e regala un film monumentale. Villeneuve sottolinea questo aspetto alternando ai primi piani, campi lunghi dove misurare l’immensa sproporzione tra il deserto e gli eroi, pedine minuscole in balia di forze più grandi. Timothée Chalamet si candida ufficialmente a Skywalker della sua generazione, restituendo con grande credibilità le tappe mistiche di Paul; Rebecca Ferguson e Javier Bardem, nei ruoli di Lady Jessica e Stilgar sono due spalle che a tratti rubano la scena allo stesso Paul. Ma il film è un affollarsi di attori di prim’ordine, in alcuni casi utilizzati per poche sequenze – vedi Christopher Walken nel ruolo dell’imperatore – o una sola – vedi Anya Taylor Joy nel ruolo di Alia Atreides. Senza dimenticare Zendaya nel ruolo di Chani, l’amante Fremen di Paul – l’unico personaggio che sembra resistere ai piani profetici – , Florence Pugh nel ruolo della principessa Corrino e Austin Butler, che fa giustizia al personaggio del letale Feid-Rautha, dopo la dimenticabile interpretazione del cantante Sting nella versione di David Lynch.

Il film è una magniloquente opera corale che si sostiene sulle sue pachidermiche strutture dalla prima all’ultima scena, anche grazie alle musiche di Hans Zimmer tornato ai fasti di Interstellar. “The second Dune instalment is jaw-on-the-floor spectacular” scrive il Guardian. E  l’immagine della mascella che cartoonescamente cade per terra è l’espressione più azzeccata per descrivere la reazione a questo film, che non solo intrattiene, ma richiama i fedeli alla sua chiesa.