Nel racconto che dà il titolo all’ultima raccolta di Guadalupe Nettel, La vita altrove (La Nuova Frontiera, 2023), un uomo passeggia per la città spiando la donna che vive nell’appartamento dei suoi sogni: quello che avrebbe voluto affittare con sua moglie. La casa dove ora risiede una donna affascinante e suo marito – un famoso attore teatrale – è per lui il simbolo di un’esistenza vicina e impossibile da toccare, una vita sospesa al di là di un sottile velo di Maya, inafferrabile, migliore, inevitabilmente altrove. Forse proprio qui è riassunto il senso dei racconti della scrittrice messicana, sempre così affilata e sensibile nel toccare il tema più intimo di tutti: la famiglia. Ma cos’è davvero una famiglia? Quand’è che ci sentiamo a casa? Leggendo questi racconti, sembra di ripercorrere le pagine dense dell’acclamato romanzo di Nettel, La figlia unica, nel quale riecheggia a tratti la filosofia di Donna Haraway col suo imperativo di generare parentele. Ma in questa raccolta siamo in un mondo ancora più onirico, e con elementi poetici: misteriose sparizioni, deus ex machina, capacità di viaggiare nel tempo.

Per spiegare come si spezzano – e si riallacciano, anche – i legami familiari, Nettel scende nella profondità oscura e densa dei rapporti. Chi è lo zio agonizzante e solo, riconosciuto in un reparto d’ospedale, che la famiglia ha sempre impedito ad Antonia di vedere? E cosa ha causato quella frattura? Qual è il segreto orribile che lo lega alla nipote? Nel racconto L’imprinting la narrazione di Nettel scivola sotto la pelle della protagonista: nel contatto fisico, nelle carezze con quell’uomo morente si svela un motivo agghiacciante, una caverna d’ignoto. Ancora, in Un bosco sotto la terra la famiglia protagonista è legata a un albero, una possente araucaria: la sua fragilità atterrisce l’io narrante, una bambina che comincia a notare lo sfaldarsi dei suoi rapporti più intimi. L’autrice riesce, in questa raccolta, a raccontare il rapporto col desiderio in maniera semplice e schietta. Cosa vogliamo veramente? Cosa ci muove? I suoi protagonisti sono spinti da ossessioni, semplici bisogni, volontà di riconoscimento negli altri. Nettel narra di vite che si sanno reinventare, di legami sfilacciati eppure indimenticabili.

Si tratta di una pulsione, quella verso il desiderio, che è a volte fatalmente legata alla catastrofe. Lo si percepisce nel racconto La porta rosa, in cui il protagonista evoca una magia per poter tornare indietro e cambiare tutto del rapporto con sua moglie – non sapendo che questo comprometterà quello con sua figlia. O ancora, nel secondo scritto, La confraternita degli orfani, l’io narrante si muove nella direzione che crede più giusta, sperando di poter riappacificare una madre col figlio; con un finale terribile e inaspettato. Il desiderio è la tensione che muove gli esseri umani, una vocazione ininterrotta, ma le azioni spinte solo dal desiderio comportano spesso conseguenze involontarie. Con il linguaggio semplice e dolce a cui ci ha abituato, Nettel ci mette davanti allo scompiglio dell’esistenza, e a quanto questo sia legato a minuscole apparizioni: una piccola porta rosa, un mucchio di foglie che prende fuoco, l’appassire di un albero. L’eterno vagabondaggio dei protagonisti di questi otto racconti fa a tratti respirare le atmosfere di Julio Cortázar: basta un passo per ritrovarsi nell’irreale, o per sprofondare in un mare di situazioni da incubo. In un certo senso, l’autrice coglie il malessere più evidente dei nostri tempi: la volontà perpetua di essere altrove, di immaginare migliori le vite altrui e di sognare un presente libero dalle proprie miserevoli incombenze. Forse proprio per questo i suoi protagonisti si illudono che la vita altrove esista davvero, ambendo alla stessa libertà dell’albatro o rifugiandosi nel mondo dei sogni.

Questi racconti accolgono anche – come sempre in Nettel – prospettive non antropocentriche. La scrittrice crea un microcosmo in cui l’uomo non è mai il solo protagonista: piante imponenti, animali amici, forze naturali misteriose e perturbanti concorrono alla creazione di un universo in cui tutto è intrecciato. Lo si osserva con particolare lirismo nel racconto Albatri vaganti, in cui riecheggiano suggestioni novecentesche. Come anche nella sua precedente raccolta, Bestiario sentimentale, e nel già citato romanzo La figlia unica, Nettel opera un decentramento rispetto alla realtà del singolo individuo: come a dirci che nonostante le emozioni e gli imperscrutabili legami familiari, si fa comunque parte di una realtà più grande, in effetti gigantesca rispetto alla prospettiva umana. L’autrice riesce in questo intento con una sapiente miscela di fattori materiali e spirituali: ad esempio, l’interazione tra i suoi protagonisti e gli elementi della natura; mai scontata o prevedibile, e ancor di più l’empatia con gli animali e il loro linguaggio segreto. Nella fattispecie, ho precedentemente citato Donna Haraway, autrice di Chtulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (Nero, 2019) perché leggendo i passaggi di Nettel sugli scambi tra uomini, piante e animali, in particolar modo i volatili, ho ripensato alla figura del “gioco della matassa tra specie compagne”. In questo caso, il racconto più evocativo è Albatri vaganti, ma è possibile rileggere sotto questa luce anche i piccioni presenti nelle vite delle protagoniste de La figlia unica. Il gioco della matassa è secondo Haraway una forma di condivisione che attiva la “narrazione multispecie”, cioè un intrecciare fili tra specie diverse nel contesto di una Terra ferita e vulnerabile. Nella sua ricerca, cioè in quella che chiama fabula speculativa in chiave femminista, la filosofa suggerisce – per salvare il pianeta – di fare matassa, cioè generare parentele tra specie umane e non umane. Ebbene, la narrazione di Nettel ricorda al lettore che tutto è interconnesso, tutto è contaminato: segue pertanto l’invito di Haraway a restare a contatto col problema, staying with the trouble. Non si tratta di un problema personale, con gli altri individui e i loro sentimenti: è piuttosto un’esortazione a risignificare in toto i propri legami familiari, inserendoli in un contesto in cui si fa parte dello stesso humus e si è alleati interspecie verso un sistema diverso dal capitalismo e verso un’ecologia rinnovata.

Non a caso La vita altrove si conclude con il racconto Il torpore, che rappresenta perfettamente l’unione dei due temi: la necessità di evasione attraverso il sogno – l’intorpidimento del titolo – e la necessità di ricongiungersi con la natura, quasi un intimo bisogno di intrecciarsi fisicamente con essa. Così la protagonista annota:

«alcune mattine mi sveglio e mi sento soffocare, sull’orlo di un attacco di nervi; con il desiderio di correre per ore. In quei momenti il mio rifugio è il balcone della cucina, dal quale si vede un pezzettino di cielo. Mi dico che quello spazio di cinque metri quadrati è tutto ciò che distingue questa casa da una tomba. Nel frattempo mio marito si immerge nel sonno come se indossasse uno scafandro. Credo che dormire sia diventata la sua personale forma di dissidenza. Io invece ho cominciato a sognare di tornare nel bosco. Non nella comune, ma nella parte più interna, dove vivono solo gli animali, dove magari, con un po’ di fortuna, potrei ritrovare quel branco di volpi» (pp. 153-154).

Resistenza che si esplica contro un sistema in cui l’individuo è in perenne cattività, ed è costretto a rivolgere lo sguardo altrove per credersi più libero. Da questa particolare prospettiva si comprende appieno il cuore dei racconti di Nettel: è la narrazione di una rivolta, o almeno dei suoi modesti, ottimistici e talvolta efficaci sforzi.


Guadalupe Nettel, La vita altrove, traduzione di Federica Niola, Roma, La Nuova Frontiera, 2023.