A differenza di quanto è accaduto in paesi come la Francia, dove a un centralismo culturale fondato sull’onnipresenza della capitale ha fatto da controcanto l’esistenza irrequieta e vagabonda di alcuni dei suoi protagonisti più significativi (si pensi a tutta quella serie di poeti irregolari che va da Villon fino a Rimbaud e Artaud), in Italia il policentrismo geografico sembra aver prodotto come reazione l’esigenza di fissare in una fisionomia ben definita, sia in termini linguistici sia istituzionali, i protagonisti della vita culturale del paese.

Col risultato di aver negato per molto tempo considerazione a esperienze tutt’altro che irrilevanti quali la fioritura della scrittura in dialetto  o a esperienze di vita eccentriche e fuori dai canoni ammessi dal mondo letterario accademico (mi riferisco, ad esempio, ai continui vagabondaggi di Dino Campana, segnato per di più dallo stigma sociale della follia; ma bisognerebbe ricordare che il canone della letteratura italiana ha origine nel lungo esilio dantesco e nello sradicamento linguistico di Petrarca). È ciò che emerge con estrema evidenza da Un doppio limpido zero (a cura di Stefano Modeo, Interno poesia, 2023) dedicata alla produzione poetica di Raffaele Carrieri, uno dei poeti più fecondi e allo stesso tempo misconosciuti del nostro secondo Novecento.

Non si tratta tuttavia della prima antologia di Carrieri pubblicata in Italia. Come ricorda lo stesso curatore, nell’ampia nota filologica posta a conclusione del volume, la prima era uscita nel 1970 per «Lo Specchio» Mondadori, compilata dallo stesso autore, col titolo di Stellacuore. La seconda, sei anni dopo, sempre per Mondadori, ma per le cure di Giuliano Gramigna. Il merito principale della presente pubblicazione consiste nel rimettere in circolazione un corpus di testi abbastanza consistente nell’abbondante ed eterogenea produzione carrieriana, nonché di chiudere il cerchio grazie all’inserimento di pagine tratte dalle ultime raccolte di Carrieri (scomparso nel 1984) Fughe provvisorie e La ricchezza del niente, rispettivamente del 1978 e del 1980.

Il risultato di questa operazione è la messa a fuoco di una delle figure più interessanti e originali della poesia italiana del XX secolo, la cui produzione prende le mosse da un’esigenza più fisiologica che libresca: come il perdurare di un’ingordigia vitalistica che si cerca di placare, potremmo dire, con altri mezzi. In mancanza di un’edizione critica complessiva che ci permetta di ricavare maggiori informazioni sulle origini della sua attività poetica, si può dire soltanto che Carrieri poeta esordisce tardi, nel 1942, con il Poemetto a Campigli (come si può leggere nella bibliografia acclusa al volume), e solo nel 1945 pubblica la sua prima vera e propria raccolta, Il lamento del gabelliere, con prefazione di Carlo Bo, relativa al periodo trascorso a Palermo nel 1922, durante il quale era stato impiegato in qualità di funzionario della dogana

Nato a Taranto il 17 febbraio 1905, Carrieri si era distinto fin da giovanissimo per un temperamento inquieto e avventuroso che lo aveva spinto a imbarcarsi, appena quattordicenne, come clandestino per raggiungere l’Albania e da lì proseguire per il Montenegro, dove si era unito, per un certo periodo, alle comunità di pastori locali. In seguito seguì D’Annunzio nell’esperienza fiumana, alla fine della quale, durante gli scontri del Natale di Sangue, rimase gravemente ferito a una mano.

L’infermità che lo segnerà per tutta la vita non gli impedisce di continuare i propri vagabondaggi attraverso il Mediterraneo fino al breve soggiorno a Palermo. Da lì, nel 1923, Carrieri raggiungerà Parigi dove entrerà in contatto con i principali rappresentanti della cultura d’avanguardia, tra i quali Picasso (di cui sarà amico e per cui poserà come modello) e Blaise Cendrars. Infine, dopo altri viaggi per l’Europa, si stabilirà a Milano nel 1930. Nel capoluogo lombardo vivrà per quasi tutta la vita, segnalandosi come giornalista, scrittore e soprattutto critico d’arte (con importanti contributi sugli artisti italiani futuristi, su Modigliani, Guttuso, Fiume e Manzù) prima ancora che come poeta.

In quest’ultima veste Carrieri continuerà a pubblicare regolarmente numerose raccolte fino a pochi anni prima della morte, realizzando un corpus di testi di cui solo oggi possiamo toccare con mano tutta la varietà e coerenza. Se la prima produzione si impernia soprattutto sulla rievocazione di luoghi, incontri ed esperienze avvenuti nel corso delle proprie peregrinazioni, col passare del tempo emergeranno nuovi filoni, che andranno a intrecciarsi indissolubilmente al tema della memoria: dalla realtà sociale della Milano del secondo dopoguerra (p. 131), all’insonnia (p. 145), dalla morte degli amici (p. 208), a quella della madre, cui fu legato per tutta la vita (p. 210), fino alla propria, ormai imminente (p. 227).

Sarebbe tuttavia riduttivo fare di Carrieri unicamente un poeta dell’istinto. Al contrario, la vitalità delle immagini e la freschezza delle sensazioni che percorrono i suoi testi con un’abbondanza che può essere paragonata solamente a quella di poeti come l’amato Apollinaire e, in Italia, Govoni, non esclude un’altrettanto forte predisposizione alla metariflessione. E’ ciò che ha spinto Stefano Modeo ad adottare, come titolo dell’antologia, un verso tratto dalla poesia di Carrieri Quando canti: «come un doppio limpido zero» (p. 63). Ed è in questi termini che lo interpreta il curatore dell’antologia:

«In questo caso, penso che Carrieri faccia riferimento propriamente al canto della civetta, alla sua modulazione, che compie, attraverso un percorso figurato del suono, alto e poi basso, due anelli che si intrecciano, un doppio limpido zero appunto. […] Il canto della civetta compie questo giro con la voce e questo suono lega la notte dell’animale a quella di Carrieri che invece scrive poesie» (Nota filologica, p. 263)

Sulla base di questa suggestiva interpretazione si potrebbe anche vedere nella civetta, hegeliana nottola di Minerva, la coscienza che arriva sempre a cose fatte e dunque la funzione di “secondo tempo” che ha, in Carrieri, la scrittura poetica rispetto alla vita vissuta. In tal modo si spiegherebbe non solo il ruolo chiave che ha il ricordo in tutta la sua poesia, ma soprattutto quella contraddizione intrinseca a partire dalla quale prende corpo la maggior parte dei suoi testi.

Si veda, ad esempio, la lunga poesia Il povero emiro. All’antitesi fra schiavo o emiro, alla continua negazione del perdurare in uno stato («non mi riconosco in nessuno | nessuno può dire è nostro», p. 110, vv. 2-3), al movimento incessante delle similitudini e delle analogie che dischiude sempre nuove prospettive («L’amore delle donne | è come il miele nell’arnia», vv. 14-15; «Ho smesso d’andare coi fiumi, | come i battellieri del Reno», vv. 21-22; «come il vento sulla sabbia | ripeto, ripeto il tuo nome», p. 112, vv. 55-56), all’evocazione di elementi fiabeschi tratti dalla Romantik tedesca («per non sentire Loreley | chiamarmi con voce di morti», p. 111, vv. 35-36; «si chiamava Melusina | la sultana dei bastioni», vv. 52-53), così affini a certi tratti della poesia di Apollinaire («O belle Loreley aux yeux pleins de pierrerieries», La Loreley; oppure «Le Rhin le Rhin est ivre où les vignes se mirent…», Nuit Rhénane) si contrappongono degli elementi ricorrenti (anafore, ripetizioni, o, come nel caso presente, ritornelli: «Ogni volta che dentro m’oscuro | metto il crespo intorno al tamburo | e batto con mazze di fuoco | il lutto di ciò che ho perduto», p. 110, vv. 17-20), che garantiscono la stabilità del componimento e svolgono il ruolo di periodici ritorni, di punti fissi, nell’eterna metamorfosi del testo.  

Sono muri, argini che il poeta erge davanti a sé nella duplice e ambigua funzione di riparo e ostacolo, come si vede nella brevissima poesia intitolata Il silenzio non mi salva: «Il silenzio non mi salva | la parola non m’aiuta. | Muri aggiungo muri tolgo. | Più mi scopro più mi nascondo» (p. 141), tutta giocata sulle antitesi tra silenzio/parola, aggiungere/togliere, scoprirsi/nascondersi, che conferiscono alla quartina una sorta di tensione immobile, di inquietudine perenne senza alcuno sbocco.

Il secondo tempo della poesia: tempo del crepuscolo, tempo del sopravvissuto («Il primo | dovevo essere io, | più maturo e pronto | e pure più disposto», p. 232, vv. 11-14) che va gridando «come il venditore | di giornali della notte | la morte degli altri» (vv. 15-18); tempo dei bilanci («avrei fatto meglio a rompere | pietre sotto il sole di agosto | o vendere granchi | legati allo spago […] Avrei fatto meglio imbarcarmi | e girare la ruota […] avrei fatto meglio mutar rotta | e andare da un’altra parte», pp. 241-242, vv. 1-4, 12-13, 25-26), non concede, dunque, alcuna compensazione, alcuna illusione a chi, a suo tempo, ha avuto il privilegio di afferrare la vita con le unghie e coi denti e invece di venirne interamente arso è tornato a incagliarsi, straniero, nella vita di tutti i giorni.

Forse è in questa “maledizione”, in questa radicale differenza («la memoria è una macchia | che appassisce la carta», p. 246, vv. 1-2) che consiste il segreto dell’irregolarità di Carrieri, nonché dell’imbarazzo o addirittura del fastidio («la presenza di un personaggio come Carrieri dà fastidio», scrisse Enrico Emanuelli su La fiera letteraria il 18 aprile 1954) che ha finora provocato, nell’immacolata coscienza del mondo letterario italiano, la sua testimonianza.

Ma è il prezzo che deve pagare chiunque porti inscritto sul proprio corpo («Il mio corpo mi porta via. | Mi taglia mi ritaglia | mi separa dall’arpa | mi separa dall’amata», p. 108, vv. 7-19; «io e la mia mano | come due nemici | che lavorano insieme», p. 85, vv. 9-11) il segno di un eccesso. «La terra m’è supplizio», scriveva D’Annunzio nel secondo ditirambo dell’Alcyone, riferendosi a tutti coloro che, in una vita anteriore, hanno conosciuto l’ebbrezza della condizione divina. «E rotolo, rotolo | nell’illusione d’essere | di nuovo vivo» (p. 246, vv. 14-16) avrebbe aggiunto Carrieri.   


Raffaele Carrieri, Un doppio limpido zero. Poesie scelte 1945-1980, a cura di Stefano Modeo, Interno poesia, 2023, €18.


In copertina: foto di Abyan Athif su Unsplash.