“Se quando non ci sarò più si pubblicherà qualcosa di mio e i critici faranno quella loro stupida ricerca come oggi fanno di una nuova scrittrice: ‘…appare una nipotina di Lalla Romano e della prima Ginzburg, alla radice ci sono Pratolini e Anne Philipe’, sappiate che io non ho letto né femmine né maschi, sicché non ci potete trovare che me, poca roba, mia però”.

Così scrive Dolores Prato (1892-1983) alla fine della vita, in uno dei suoi numerosi laboratori per aforismi e frammenti dal descrittivo (per questo sfrontato e abissale) titolo Io, ad oggi inedito e testimonianza della qualità altissima delle sue prose brevi. Falso che avesse letto poco – alla narrativa, frequentata con assiduità negli anni della formazione (prediletti Dostoevskij e Tolstoj, ma ci sono anche Annie Vivanti, Naja tripudians e i romanzi d’appendice), preferiva in ogni caso nella maturità la lettura quotidiana di numerosi giornali d’orientamento diverso e la saggistica, anche questa su temi d’amplissimo spettro: le lettere di Manara Valgimigli, saggi su Roma antica e moderna, storie di papi, Deleuze su Proust. Vero il succo dell’aforisma autodefinitorio: in particolare a partire dagli anni Sessanta, non c’è forse scrittrice italiana che appaia meno interessata di Dolores Prato sia all’originalità stuporosa della materia narrativa, dichiarata senza paure o cortesie autobiografiche, sia a una qualche dotta affiliazione letteraria che sostenga i propri lavori. Con esattezza, Giorgio Zampa, in una conferenza a Treia del 26 novembre 1998, disse che Dolores Prato mostrò, da un certo punto della sua vita in poi, una eccezionale “fermezza d’animo”, nel non voler più “barare”, nel cercare la verità dell’immagine coniugando “l’esigenza della precisione espressiva con l’esigenza della verità interiore”. Di qui, afferma ancora Zampa, nasce il suo sguardo, la necessità di scrivere quel che scriveva, la sua vita, e la necessità che quel che scriveva doveva essere scritto solo in quel modo, il suo, contenuto ritmo e mescolanze tra realtà e fantasia – “Eccoti il racconto dove c’è un po’ del nostro collegio, dico un po’ perché il lavoro letterario mescola: realtà e fantasia”, scrive l’autrice a una compagna di educandato nel 1972, spedendole un suo racconto; nello stesso anno invia un testo e scrive alla figlia dell’amica ginesina Lina Barbi e le dice: “vorrei che lo leggessi due volte, nella seconda lettura avvertirai meglio un ritmo musicale di pensiero e di parole”.

Senza dubbio, la materia autobiografica di partenza è rovente ed esemplare, come pure raffinatissima e coltivata con prepotente autonomia la cultura di questa grande autrice.

Nata a Roma il 10 aprile dagli amori tra una fresca vedova, Maria Prato, e un avvocato di cui non si conosce il nome, messa a balia sui monti Lepini e quindi traghettata a sedici mesi dalla madre per questioni di decoro da Roma a Treia, nelle Marche, Dolores Prato passa l’infanzia presso uno zio prete alchimista in seguito migrante in Argentina e una zia colta, silenziosa, poco amante dei bambini; diviene poi educanda presso il monastero di Santa Chiara di Treia, tra coetanee di famiglia o ricca o nobile e sotto la guida di una madre superiora dal passato e dal presente mondano, Elvira Masi (amica tra l’altro del maestro della Massoneria Adriano Lemmi). Alla fine dell’Educandato l’autrice torna a Roma e si laurea al Magistero, dopo aver ascoltato con attenzione ma ondivago convincimento le lezioni di Luigi Pirandello, i consigli di vecchi e nuovi padri spirituali e di future Missionarie della scuola, come Luigia (per l’autrice “Gina”) Tincani.

Dolores Prato per qualche tempo è insegnante: avversa al regime fascista, non tesserata, si fa cacciare da una scuola a Sanginesio e tra gli anni Trenta e Quaranta è a Milano, amica di Vincenzo Cento, impiegata nella Libera Scuola di Cultura e d’Arte e amante di Domenico Capocaccia, avvocato militante nel partito comunista clandestino. Dagli anni Cinquanta convive con Andrea Gaggero, un gesuita ridotto allo stato laicale per aderenze col PCI; già corrispondente e amica di Concetto Marchesi, sarà per breve tempo in questo periodo vicina agli ambienti della Marcia della Pace Perugia-Assisi, alla Casa Rossa di Giuseppe Mazzullo, nonché sodale dei riservatissimi Jutta Bruto e Stefano D’Arrigo.

Nel corso della sua esistenza, l’autrice pensò più volte di organizzarsi in un qualche ruolo: farsi suora, raggiungere lo zio in Argentina, sposare il futuro etnologo Paolo Toschi conosciuto a San Sepolcro tra gli anni Venti e Trenta, fondare un pensionato a Roma, iscriversi al PCI, diventare (umoralità e autoironia impagabili) “o regina o scrittrice”. E invece sostanzialmente e più semplicemente “scrisse”, ogni giorno, tessere di prosa e lettere (meravigliosi i suoi epistolari, anche questi oggi largamente inediti), con continuità e raffinatezza, riuscendo a pubblicare rocambolescamente solo alcuni elzeviri su Roma (soprattutto su «Paese Sera», diretto dall’amico Fausto Coen, recentemente raccolti in Roma, non altro da Quodlibet) e tre libri tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, Scottature, Sangiocondo, Giù la piazza non c’è nessuno: i primi due in autoedizione, l’ultimo per Einaudi, e il secondo e il terzo in una versione tagliata, con cruccio dell’autrice, rispettivamente da Andrea Gaggero e Natalia Ginzburg per esigenze di potabilità editoriale e malcomprensione del progetto narrativo (sono stati pubblicati integralmente solo dopo la morte di Prato).

Una biografia dai tratti estremamente variegati, come si vede. E tuttavia, rispetto alla materia autobiografica c’è nell’autrice l’idea che la sua vita, la sua genealogia di “bastarda integrale”, tangente ma irriducibile a tutte le categorie della cosiddetta normalità (mai pienamente figlia, mai sposa, mai madre, mai facente parte stabile e convinta di un qualche gruppo, mai veramente scrittrice edita nella forma da lei desiderata), non siano interessanti di per sé. Piuttosto, tra le altre cose, Dolores Prato ritiene che, componendosi, questa vita e questa genealogia abbiano raccolto e custodito occasioni oggetti e parole in via di sparizione, a loro volta recuperati dalla scrittura e nondimeno contestatori rispetto allo sciupio del sedicente nuovo, così che autobiografia, fantasia, memoria e archeologia letteraria fanno corpo unico, rilavorati in sottile anarcoide e imprevista tessitura: “Tutti dicono che ho fantasia. E io rispondo che non l’ho. Non riesco a inventare un raccontino. E allora come mai tutti lo dicono? Che sia fantasia quei nessi spontanei tra le cose e le idee, tra persone e parole? Quello scoprire i fili che legano tutte le cose? Questo improvviso annodare, sì, ce l’ho. Ma è fantasia questa?” (Io).

Per quanto riguarda le affiliazioni letterarie e critiche, l’autrice si sa precorritrice di quel che si fa via via presente e poi futuro perché irrimediabilmente vocata a una pubblicazione postuma (ha letto il libro sui sogni di Luigi Malerba, scrive in una lettera ad Alessandro Bonsanti degli anni Ottanta, quando dona le sue carte all’Archivio Vieusseux di Firenze: e con l’occasione gli segnala i suoi, di sogni: raccolti e scritti a centinaia nel corso di tutta la vita, forse belli; la stessa cosa aveva fatto con Ungaretti, negli anni Sessanta, scrivendogli per lettera dei sogni di Jack Kerouac: più cervellotici dei suoi, tanto diversi). Ma la sua inimicizia verso le compagnie letterarie nasce anche in virtù di una separatezza sempre resistente, indocile e rabdomantica, che può essere indifferentemente chiamata anticipazione, naturale inclinazione a un sguardo inquieto sul proprio tempo, inattualità per l’ancoraggio a un passato che è soprattutto sceltissima tradizione, peraltro di vocazione potentemente antididattica: “Ogni scrittore ha uno scopo, in un modo o nell’altro vuole influire sul lettore, pare che ognuno si senta sacerdote di un suo messaggio divino. La Muriel Spark dice che il proposito primo suo è quello di aprire una finestra nella mente del lettore. Poveri noi, la nostra testa dovrebbe essere oramai un Colosseo. Vorrà dire che scrittrice io non sono perché non penserei mai di pretendere di aprire nessuna finestrella su nessuno” (ancora da Io).

Da ogni pronunciamento dell’autrice, come si vede, emanano, al di là delle venture e sventure editoriali e biografiche, sprezzatura e distinzione: una sprezzatura e una distinzione tuttavia capaci di manifestare con ineducato candore il dubbio, la certezza, il dolore, e che finiscono per essere tratti caratterizzanti tanto della vita, quanto dell’opera di Dolores Prato, l’una tanto distante dall’altra proprio perché tanto vicine nell’onesta combutta della creazione, dentro al racconto, di un catturante altrove, della creazione di un’altra realtà: quella della pagina, peraltro sempre più attenta ai luoghi che alle persone, agli oggetti che ai concetti, alle parole che ai discorsi, alle sincronie che agli svolgimenti. E di questo si dovrà, soprattutto e per finire, dare conto.

I luoghi principali sono Treia (Treja, nella grafia prediletta dall’autrice, in onore delle semiconsonanti e contro un’imposizione fascista che trasforma la grafia antica in quella moderna, ancora oggi in corso) e Roma; gli oggetti sono folla, ma quelli che fanno da snodo della sua scrittura sono un tavolino e un pettine; le parole sono legione, e di tutte si dice sia l’incantamento per il loro aspetto materico (il suono), sia il potere strabordante che possono avere di rendere critico uno sguardo rispetto al rapporto tra il linguaggio e le cose, oppure, al contrario, di togliere verità al reale e azzoppare una vita. Treia è la città dell’infanzia e dell’adolescenza: come la zia in Giù la piazza non c’è nessuno, questa città non sa gestire la bambina, che le rimane parzialmente estranea, ma nello stesso tempo è surrogato dell’elemento materno, quello che forma vita (“Treja fu il mio spazio, il panorama che la circonda, la mia visione: terra del cuore e del sogno. Eppure, mentre crescevo lì dentro, il suo nome mi pareva da vecchia: me ne vergognavo come mi vergognavo della zia che mi pareva ridicola e vecchia anche lei: tra noi due mancava una mamma a far da gradino […] Io non appartenevo a Treja, Treja apparteneva a me; essa non mi aveva chiamata, non gradiva la mia presenza per le sue strade, nelle sue chiese, lo vedevo benissimo, e anche questo apparteneva a me”).

Roma è la città della maturità: profondamente conosciuta nei suoi luoghi più nascosti e storici, diventa una sorta di alter ego dell’autrice per la prepotente resistenza alla breve stupidità dell’uomo, e specialmente alle distruzioni subite da quando divenne capitale d’Italia fino agli orrori delle speculazioni edilizie: “La vera Roma è ridotta simile al corpo di un martire: spezzata, dispersa, esposta a frantumi sotto forma di reliquia. Ci sono ormai, dentro e fuori le mura, quartieri interi così insignificanti e standardizzati che potrebbero essere trasferiti in qualunque città, senza togliere nulla a Roma. Eppure, a guardar bene qualche suo residuo si insinua tra quegli agglomerati di case e di casoni” (da Roma, non altro). A Roma, si è detto, Dolores Prato nasce biologicamente e anagraficamente (viene qui registrata col nome “Dolores Olei”, in onore della leggendaria fonte in Trastevere), ma la sede di nascita alla coscienza è altra, è un tavolino sotto il quale da bambina, a Treia, si rifugia, perché inappetente e paurosa che gli zii la caccino da un riparo finalmente raggiunto:

“Sono nata sotto un tavolino. Mi ci ero nascosta perché il portone aveva sbattuto, dunque lo zio rientrava. Lo zio aveva detto: ‘Rimandala a sua madre, non vedi che ci muore in casa?’ Ambiente non c’era intorno, visi neppure, solo quella voce. Madre, muore, nessun significato, ma rimandala sì, rimandala voleva dire mettila fuori della porta. Rimandala voleva dire mettermi fuori del portone e richiuderlo. Pur protetta dal tappeto che con le frange sfiorava il pavimento, ascoltavo fitto fitto: tante volte venissero a cercarmi per mettermi fuori!” (da Giù la piazza non c’è nessuno).

Un nuovo spostamento, dalla casa degli zii all’educandato treiese di Santa Chiara all’inizio del Novecento, sarà contestato tramite la rottura di un pettine, già simbolo di cura domestica prima dell’uscita nel “fuori”, dell’immersione nel mondo di Treja, ora ultimo gesto di cura in preparazione di un nuovo abbandono nel chiuso, fuori dal mondo:

“La zia mi ravvivava sempre i capelli avanti di uscire; era l’ultimo tocco casalingo prima della vita pubblica per la strada; ma questa volta me li riavviava perché mi avrebbe condotta in collegio e lì mi avrebbe lasciata. Con urlo di belva pugnalata le strappai di mano il pettine e lo spezzai” (da Educandato).

L’ingresso in collegio è anche l’inizio della “deformazione religiosa” e linguistica cui Dolores Prato saprà per tutta la vita di essere stata vittima (“Nei danni di quell’educazione rientravano anche parole troppo spesso ripetute: dovere – obbligo – colpe, quante parole troppo spesso ripetute, facevano su di me quel che fanno le piccole martellate sul rame battuto: lasciano il segno”; “in paese per me l’universo era negli occhi e nelle parole. In collegio, stando quasi sempre chiusa, l’universo degli occhi si restrinse a quel panorama, sempre quello, ai corridoi, ai cameroni, si moltiplicò quello delle parole”, delle parole che “stritolano la vita”). La registrazione di queste parole, la distinzione tra le parole che significano e pesano perché gettano una luce critica sulla realtà e quelle che invece la impacchettano dentro una stereotipia sarà materia importantissima delle carte dell’autrice, specie dei suoi appunti, che alla fine della vita chiede di conservare come «creature vive» e proteggere. La cura e la preoccupazione per le sue carte, appunto, sarà infine l’urgenza degli ultimi anni di vita. Dolores Prato cercherà custodi, eredi, editori delle sue opere, salvo poi morire in una clinica a lunga degenza, Villa dei Pini (ad Anzio, dove si spense il 13 luglio alle 18.00 di sera), senza aver finito il libro che andava componendo (Educandato) né riordinato come avrebbe voluto le sue carte, di cui si occuperanno alcuni amici (Fausto Coen, Ines Ferri, Filippo Ferrari). Anche di questo destino delle sue carte Dolores Prato doveva essere, da umorale rabdomante, certa, quando scrisse e sognò (o sognò e scrisse: poco importa), il 24 aprile del 1967, di esser stata visitata nella notte dalla seguente visione: un libro di poesie russe sul suo tavolo,

“volevo occuparmene, poi non volevo; anche se interessante, era sempre cosa che mi distraeva dal lavoro mio. E poi il caso che il libro rappresentava mi riafferrava. Un caso umano. L’autore era esistito o era una finta? Le poesie erano sue, di oggi, o di un furbo che le aveva tratte e raffazzonate da vecchie poesie dimenticate? Era un europeo che fingeva di essere russo? Dallo studio attento di queste poesie che avevano la loro traduzione letterale accanto, si poteva arrivare a sciogliere l’enigma. La mia sensibile intuizione poteva arrivare dove la mia cultura non sarebbe mai arrivata. E se si fosse arrivati a capire che la parte russa era la traduzione di quella italiana? Il sogno era tutto qui: il mio studio, la mia scrivania, il libro che veniva allontanato e poi ripreso. Pieno di segni con note. Spuntavano liste di carta come una cresta. […] Squilla il telefono, io vado di là, Duccia [un’amica dell’autrice nel frattempo sopraggiunta, nda] appoggia il libro aperto sulle carte sparse, ma a mucchi ben chiari a me dei lavori miei, quelli che dovrei fare invece di questo. Sto telefonando. Sbattono le finestre di là. Primetta [la domestica di Dolores Prato, nda] grida: – Corra, corra, tutte le carte. Corro nello studio, tutte le mie carte sono volate, stanno sul pavimento. Il libro con le poesie russe che era pieno di strisce di carta per segni che mi erano costati tanta fatica, era lì spalancato, il vento lo sfogliava con gioia, non c’era più nessun segno a posto. – Ma chiudete dunque – grido io. – Ecco che cosa avete fatto, stavate lì a chiacchierare, e ora tutto il mio lavoro è da ricominciare. Da rimettere a posto tutto. […] – E questo? – dico io – questo chi l’ha fatto? «Il vento» mi rispondo. «Sì! Il vento è capace di tirar fuori da uno scaffale una scatola che ci è stata infilata con forza, che non si vedeva neanche tanto era indietro». Ma perché, come? Non lo capivo. Ero solo turbata da tutte quelle carte da rimettere a posto, da quei segni perduti sul libro russo e che non avrei cercato mai più di ritrovare. Mi sono svegliata con questa pena” (da Sogni).