Per Shehan Karanutilaka non soltanto il privato – soprattutto in Sri Lanka – è politico ma anche l’aldilà, che si configura come una copia surreale della vita terrena, con le sue geografie, i suoi imbrogli, la sua flora e la sua fauna ma, soprattutto, la sua burocrazia. Le sette lune di Maali Almeida (Fazi Editore, 2023) è un romanzo complesso e ambizioso, che richiederebbe la lettura attenta di un quadro di Bruegel o l’esegesi consapevole della Commedia dantesca per decifrarne i minuti riferimenti storici, politici, religiosi. Allo stesso tempo, però, getta il lettore nel caos della coloratissima umanità di Colombo, in una narrazione dai ritmi confusionari e rumorosi in grado di trasferire impeccabilmente l’atmosfera del luogo.

Già vincitore nel 2012 del Commonwealth Booker Prize con Chinaman, Karanutilaka si è aggiudicato esattamente dieci anni dopo il prestigioso Booker Prize con un romanzo che denuncia in modo spregiudicato la corruzione della classe politica singalese e le efferatezze della guerra civile durata per ben ventisei anni. Siamo all’inizio degli anni Ottanta e Maali Almeida, fotografo di guerra, omosessuale, alcolizzato e giocatore d’azzardo perde la vita in misteriose circostanze e ha sette notti per scoprire chi l’ha ucciso e perché, prima di attraversare la soglia dell’oblio e della reincarnazione. Fino alla sua ultima luna Maali cercherà di interferire con i suoi affetti più cari, i cugini Jaki e Dilan ai quali è stato legato rispettivamente da sentimenti di amore platonico e passionale, e a farli giungere non tanto alla verità riguardo alle circostanze della propria morte quanto al disvelamento delle ragioni politiche cui essa è probabilmente legata. Il protagonista riuscirà, infatti, a condurli sulle giuste tracce portando a termine, così, la sua missione testimoniale che si concretizzerà con una mostra dei suoi scatti più compromettenti.

La narrazione prende l’andamento di un giallo dai toni politici e spirituali: alla ricerca delle misteriose scatole contenenti le foto di Maali Almeida non saranno soltanto Jaki – annunciatrice radiofonica omosessuale – e Dilan amante sfuggente, figlio di un intermediario governativo. In un Paese in cui si confondono vittime e carnefici, sulla sparizione delle foto e dei negativi di Almeida indagano corrotti esponenti di ONG e poliziotti locali, feroci politici con le mani insanguinate da intrighi di palazzo. Mentre, in una sorta di mondo rovesciato, dall’oltretomba continuano le vendette e le scorribande dei separatisti Tamil e dei ribelli comunisti del Janatha Vimukhti Paramuna.

La vita ultraterrena appare come uno specchio deformante della società singalese configurandosi piuttosto come un altrove in grado di comunicare con la vita terrena attraverso il suo complesso pantheon di divinità e di demoni: “‘Luogo Migliore’ è un eufemismo che il registro tira fuori molto spesso. Mosè ti ha spiegato che è per evitare le discussioni teologiche con chi è religioso, anche se, dopo la morte, è sorprendente quanti siano in pochi” (pag. 450). Karanutilaka costruisce un immaginario post mortem dai toni vivacissimi e che sembra poter incidere sul destino dei viventi più di quanto non avvenga il contrario. In questo contesto, l’ironia agisce da cronotopo rabelaisiano cosicché il rovesciamento tra vita e morte è tratteggiato come un rispecchiamento in cui la realtà appare più assurda delle strane leggi di un aldilà in cui il “karma è una stronzata”. La religione viene derubricata a pura fantasia e a verace crudeltà. Come spiega lo stesso protagonista in uno dei numerosi e cinici battibecchi spirituali che caratterizzano il romanzo:

Nelle zone di guerra la gente prega tutti i giorni […] Soldati, civili, perfino i giornalisti. E nessuno ascolta mai. Abbiamo bisogno di questi testi di diritto perché la religione non proibisce nemmeno lo stupro. Lo sapeva? I comandamenti puniscono chi nomina il nome di Dio invano di domenica ma non esiste nessun ‘non violentare’ (pag. 213).

Si è parlato di realismo magico e della forte ascendenza esercitata da un autore come Garcia Marquez con cui certamente l’autore di Le sette lune si confronta mettendo a punto, però, delle lame assai più affilate e consapevoli nell’articolare l’elemento fantastico e magico all’interno di una complessa significazione postcoloniale. Sullo sfondo, ma di fatto profondamente attanagliato alla trama del romanzo, c’è la complicata storia di un paese attraversato sin dalle sue origini dai contrasti tra le diverse etnie locali poi esacerbate dall’alternarsi dei domini coloniali (prima portoghesi, poi olandesi e infine inglesi). L’ironia batte spesso proprio su questo tasto, su un autodafé nazionale dai toni amarissimi:

Qualche volta, quando penso al disastro in cui si trova questo paese, mi viene in mente che forse sarebbe meglio lasciarci comprare dai cinesi o dai giapponesi, lasciare la proprietà dei nostri pensieri agli yankee e ai sovietici, o lasciare che gli indiani risolvano il nostro problema tamil, proprio come abbiamo lasciato che gli olandesi risolvessero il nostro problema portoghese (pag. 322-3).

O ancora:

Se dobbiamo scegliere un animale come simbolo nazionale perché non il pangolino, qualcosa di originale che possiamo dichiarare nostro? Come molti srilankesi i pangolini hanno la lingua lunga, la pelle dura e il cervello piccolo. Si nutrono di formiche, topi e qualunque altra creatura più piccola di loro. Si nascondono terrorizzati quando si trovano davanti a un bullo e ne combinano di tutti i colori a luci spente. Sono vecchi di centinaia di migliaia di anni e arrancano verso l’estinzione (pag. 370).  

L’antica isola di Ceylon divenne parte del Commonwealth nel XIX secolo e ottenne l’indipendenza soltanto nel 1948. A entrare all’interno dell’intricato andamento narrativo sono, però, soltanto i fatti relativi alla guerra civile che scaturì successivamente alla costituzione della Repubblica socialista singalese nel 1972 e che portò la popolazione locale a scontrarsi con la minoranza Tamil che si era stabilita nella parte settentrionale del Paese. L’azione romanzesca scaturisce a seguito dell’attacco terroristico delle Tigri per la liberazione del Tamil Eelam nei primi anni Ottanta al quale la maggioranza singalese si ribellò uccidendo in pochi giorni migliaia di Tamil. Le due parti giunsero a un compromesso soltanto nel 2001 ma Maali Almeida non riesce ad assistere a questa tregua e l’autore immagina una chiusura altrettanto cruenta in grado di pareggiare i conti tra le due parti.

Gli intenti dell’autore e del suo protagonista sembrano coincidere in modo evidente nel valore della testimonianza. La decisione finale di Maali di attendere altre lune prima di reincarnarsi è in tal senso eloquente perché comporterebbe l’oblio necessario all’originarsi di una nuova vita e, di conseguenza, l’abbandono della lotta, la rinuncia al cambiamento in cui l’esistenza presente era implicata. Ma la scrittura si rifiuta di essere ridotta a mera testimonianza e si riempie di colore, di allegorie e di rimandi dai contorni barocchi e quasi rococò, a volte anche di un eccesso di significati che entropicamente rischia di perdersi e disperdersi nella complicata trama romanzesca in cui, dal fondo, l’azione emerge come l’unico senso possibile della vita, della morte e della letteratura.


Shehan Karunatilaka, Le sette lune di Maali Almeida, traduzione di Silvia Castoldi, Fazi Editore 2023, 472 pp, 20 €.