MUBI, meritoria piattaforma di streaming di film d’autore, ha messo a punto per i suoi abbonati una straordinaria retrospettiva sul regista finlandese Aki Kaurismäki.

Sono disponibili ventiquattro titoli tra corti e lungometraggi: per intenderci, della sua produzione maggiore restano fuori solo Miracolo a Le Havre, del 2011, e il recentissimo Fallen Leaves (2023), da noi recensito qui.

La rassegna, che abbiamo seguito in rigoroso ordine cronologico, ci ha dato modo di verificare quanto succede nella fucina di tanti grandi artisti: tutti gli elementi che ne compongono la cifra diventano via via più nitidi, e lo stile – opera dopo opera – si fa sempre più riconoscibile e allo stesso tempo più essenziale.

Abbiamo deciso di soffermare la nostra attenzione su Le luci della sera (titolo originale Laitakaupungin valot), film del 2006 in cui ci sembra che i cardini della poetica di Kaurismäki arrivino al massimo grado di tensione e asciuttezza. L’opera chiude un’implicita trilogia dedicata alla Finlandia, iniziata con Nuvole in viaggio (1996) e proseguita con L’uomo senza passato (2002).

Siamo in una Helsinki notturna, mirabilmente ripresa dal fido direttore della fotografia Timo Salminen, su cui torneremo. Koistinen (Janne Hyytiäinen) è una guardia giurata solitaria e presa di mira dai colleghi, che sogna di aprire un giorno una propria compagnia privata di sorveglianza. Sogno che esplicita ad Alia (Maria Heiskanen), proprietaria di un chiosco di panini e bevande, probabilmente l’unica persona con cui Koistinen intrattiene un minimo di rapporti sociali.

Per la sua ingenuità viene circuito da Mirja (Maria Järvenhelmi), che si finge innamorata di lui ma che in realtà fa parte di un gruppo criminale. Koistinen non solo diventa complice, suo malgrado, della rapina a una gioielleria che avrebbe dovuto sorvegliare, ma – pur avendo scoperto il doppio gioco di Mirja – si rifiuta di collaborare con le forze dell’ordine, finendo così in carcere.

Una volta tornato in libertà, Koistinen tenta una goffa vendetta personale ai danni del capo della banda, che apre al finale drammatico eppure in qualche modo speranzoso, nel quale ricompare Alia.

La mite guardia giurata di Helsinki entra a buon diritto nella rosa degli antieroi di Kaurismäki. Taciturno e vagamente depresso, Koistinen riduce al minimo i suoi interventi attivi nel mondo. Quasi non parla, e ha grande difficoltà nel guardare negli occhi il proprio interlocutore. Per un eccesso di timidezza? Sarebbe una spiegazione troppo semplice. I personaggi dei film del grande regista finlandese, quasi tutti catatonici, è come se fossero eternamente concentrati su un altrove che li proietta fuori dal loro tempo presente. Che poi, secondo l’immutabile estetica di Kaurismäki, è sempre un presente privo di segnali della contemporaneità. Le ambientazioni di esterni e interni sono irresistibilmente démodé, si ascolta musica da radio a transistor o al più da giradischi (ne Le luci della sera si passa da Giacomo Puccini a Carlos Gardel), si guidano modelli di automobile scomparse da decenni, ci si veste con abiti piovuti da chissà quale epoca e latitudine. Perché?

Perché chi afferma che Kaurismäki è un regista politico incappa in un secondo eccesso di semplificazione. Certo, il regista ha a cuore di mostrare le miserie e le difficoltà del proletariato, ma il suo obiettivo non è la denuncia delle iniquità economico-sociali, come da decenni sta facendo un suo nobile collega, Ken Loach.

I protagonisti delle pellicole di Kaurismäki sembrano sospesi fuori dal tempo perché sono emblematici. Torniamo alla guardia giurata Koistinen. Tutti si prendono gioco di lui e a poco a poco si rende conto di quanto sia povera la propria esistenza. Ha un lavoro umile e ripetitivo, le speranze di cambiamento non poggiano su nulla di concreto, e l’unica volta che una bella donna lo avvicina è allo scopo di usarlo per un losco affare. Eppure, con la pervicace scelta di non collaborare allo smascheramento della banda criminale, Koistinen non resta semplicemente fedele al proprio amore impossibile, bensì al proprio senso morale, ultimo possibile appiglio di un pover’uomo allo sbando. E in questo modo si fa simbolo della dignità umana, che nessuna condizione esteriore può scalfire. Le luci della sera si chiude così con la potenza di un apologo, che ci ha ricordato la poetica di registi della statura di Robert Bresson o Krzysztof Kieślowski.

Ma Le luci della sera è anche esemplare dell’inconfondibile stile di Aki Kaurismäki. Lo capiamo fin dalla prima scena: il film inizia con il passaggio di tre vagabondi che disquisiscono amabilmente di filosofia, offrendoci così un quadretto magari non matematicamente impossibile ma di certo paradossale.

Insomma: è come se l’universo tratteggiato da Kaurismäki fosse quasi simile al nostro, ma se ne differenziasse per eccesso o difetto. Per eccesso, ad esempio, nella splendida fotografia di Timo Salminen, che per mezzo di colori al massimo della saturazione (Le luci della sera è un trionfo di rossi e di blu) mostra una realtà iperrealistica, come sul punto di esplodere. Per difetto nella recitazione controllatissima degli attori, quasi muti e immobili, e nella macchina da presa che si sofferma per tutto il tempo necessario su ogni inquadratura, senza mai sentire il bisogno di esibire colpi a effetto.

Queste due tecniche opposte creano una curiosa sensazione di immedesimazione e spaesamento: riconosciamo e non riconosciamo quell’universo. La guardia giurata Koistinen da un lato ci somiglia, è come tante persone soggiogate da un capitalismo che soffoca, massifica e priva della possibilità di una vita appagante; ma dall’altro lato la sentiamo estranea, forse addirittura ci spaventa, perché è capace di vivere in quell’altrove a cui abbiamo accennato, che a noi appare scomodo perché, appunto, troppo rigoroso per eccesso o difetto.

Allora, in Kaurismäki come in pochi altri registi contemporanei, l’essenzialità formale è specchio di quella morale. La modernità può progredire come e quanto vuole, sembra dire il regista, ma le vicende umane sono e saranno sempre governate da pochissimi principi: amore, morte, fedeltà, tradimento. E a prescindere dalle condizioni in cui ci è dato di vivere, l’ultimo baluardo – che non può né deve crollare – è rappresentato proprio dalla dignità, dalla coerenza.

Lo sa bene Koistinen, quando – in una delle poche scene del film in cui si sorride con gusto – entra in un locale per affrontare tre loschi individui che hanno lasciato per giorni un cane alla catena senza dargli cibo né acqua. Koistinen entra nel locale, chiede al barista chi siano i proprietari del cane, una volta soppesata la loro stazza ordina un whisky, lo trangugia, si avvicina al tavolo, chiede spiegazioni e viene invitato a proseguire la conversazione all’esterno, dove viene malmenato. Qui va anche fatto un plauso al pudore (e alla genialità) del regista, che anziché indulgere sulla violenza inquadra il tavolo dei tre tizi, che rimane vuoto sino al loro ritorno una volta sistemato lo scocciatore.

La stessa dignità e coerenza di Koistinen le ha mostrate Aki Kaurismäki in un gustoso aneddoto che riguarda proprio Le luci della sera. Il film, all’oscuro del regista, era il candidato finlandese agli Oscar 2007 come miglior pellicola straniera. Non appena lo è venuto a sapere, Kaurismäki ha ritirato l’opera, ritenendo il suo cinema inconciliabile con la kermesse americana.