«Qualunque sia la favola del reincanto che sta per essere raccontata, il giorno del suo incipit è sempre bello perché coincide con l’uscita delle passioni tristi, quelle che i sistemi di dominio devono continuamente indurre e amplificare per garantirsi presa», scrive Stefania Consigliere in Favole del reincanto (2020), saggio in cui l’antropologa cerca di riflettere sugli esiti della modernità. Già Max Weber aveva parlato di «disincantamento del mondo» (1919), causato dalla perdita di una dimensione “spirituale” intesa non in senso religioso, ma legata ad uno sguardo “fantastico”, pronto alla meraviglia e ad una ricerca di senso fuori dalle logiche della tecnica e dalla razionalità intellettuale. Con il suo nuovo libro Tundra e Peive (2023, il primo romanzo ad entrare nella collana Terra di Nottetempo, dedicata al tema ecologico) Francesca Matteoni, scrittrice, poetessa e studiosa di folklore e magia, fa proprio questo: forza la gabbia della logica e spinge il lettore verso coordinate spazio-temporali e relazionali incantate.

Ragionando su incanto, disincanto e reincanto, Consigliere identifica nell’alterità e nella molteplicità una nuova pedagogia estranea allo schematismo binario e alla gerarchizzazione, che possa riattivare un’interpretazione inedita della realtà; a tal riguardo, il pensiero ecologico contemporaneo sembra muoversi verso le stesse coordinate di senso, specialmente per ciò che concerne le teorie ecomaterialiste e ecofemministe, che rinunciano definitivamente alla visione dualistica cartesiana tra mente e materia. I mantra ecologici making kin e making kind di Donna Haraway (intensi come parentela e cura al di là del legame di sangue) esortano a ripensare il nostro vivere attraverso l’immaginazione di uno scenario radicalmente diverso, che decostruisca il nostro linguaggio e il nostro rapporto con ciò che ci circonda.

La letteratura entra così in campo come strumento essenziale per immaginare legami diversi tra esseri umani e luoghi, animali, piante, stelle; la narrazione può farsi veicolo di consapevolezza della molteplicità delle relazioni che dominano ogni aspetto esterno, empatia tra i diversi soggetti che costituiscono questi scambi, e infine visione di ciò che spesso rimane nascosto (prendo in prestito i tre termini dal saggio di Serenella Iovino Un viaggio non sentimentale, 2014). Muovendosi nell’alveo di questi ragionamenti, Matteoni inaugura magrittianamente il suo romanzo con «Questa non è una favola», frase che se contestualizzata all’interno del discorso del reincanto diventa manifesto poetico: il parlare di folletti, di mutazioni tra specie, di streghe e alberi ammalati è un modo per dire qualcosa di profondamente reale. Matteoni si inserisce con le sue particolarità in una tendenza narrativa del contemporaneo tutta al femminile che privilegia il fantastico e il perturbante (penso a Laura Pariani, Nicoletta Vallorani, Loredana Lipperini, Viola Di Grado e Laura Pugno) per allontanarsi dalla rappresentazione come cronaca di un’unica realtà e far emergere così l’invisibile.

La storia di Tundra e Peive immerge fin da subito in un’atmosfera stravagante, in cui una ragazza, un folletto e un gatto sono gli eroi destinati a salvare la Terra dalla fine imminente: a causa del disinteresse degli esseri umani, gli alberi sono diventati vittime di una spietata malattia, la Malvaspina, che li trasforma in figure crudeli con coltelli affilati al posto delle foglie pronti a fagocitare ogni cosa. Le scene del degrado arboreo invadono tutto il libro, e l’ibridazione degli alberi con materiali antropici dà origine ogni volta a un senso di cupa tragedia: «da un taglio nel tronco della betulla fluiva una poltiglia violacea; qualcosa o qualcuno si agitava rabbioso sotto la terra. Nelle siepi si affacciavano spine di plastica; negli steli dell’erba si dimenavano filamenti di nylon che strozzavano i fiori resistenti alla stagione, facendoli a pezzi» (p. 24).

Benché lo schema della storia segua la struttura classica della fiaba evidenziato da Propp – difficoltà iniziale, battaglia contro l’ostacolo da parte dell’eroe, vittoria finale –, il romanzo la smonta dall’interno, privilegiando uno sguardo attento all’interiorità e alla riflessione. Matteoni non ha interesse a mostrare una moralità polarizzata tra bene e male, ma si orienta intorno al principio della complessità che caratterizza ogni esperienza dei suoi personaggi. Sullo sfondo della catastrofe, le numerose figure fantastiche, di cui Matteoni fornisce un breve indice all’inizio del libro, inondano le pagine con le loro storie, in cui dolore, colpa, violenza, amore e amicizia si intrecciano costantemente. Fra questi: la giovane Talia, ponte tra gli umani e la Radura; il folletto Tundra e il suo gatto Peive, simbolo di una amicizia che dura da più di ottocento anni; la sarta di mezza età Bess, membro della stirpe delle Antiche – esseri unici capaci di dialogare con gli alberi e con le fate –, l’Uomo del Nord, mezzo-uomo, mezzo-lupo, portatore di una grande colpa e segnato dal tormento che contraddistingue i Nomadi – «individui che mantenevano la propria umanità solo esteriormente, mentre era difficile dire cosa fossero diventati dentro» (p. 63) destinati a vagare per sempre senza pace –; lo stregone Senzastelle, ferito dal male e impossibilitato ad uscire dalla sua logica; il bambino Testadilepre in cerca di sé stesso.

Anche a livello di diegesi narrativa, Matteoni scompone radicalmente la linearità temporale della fiaba per catapultare il lettore in una continua oscillazione tra tempo presente e tempi passati e futuri. Ogni protagonista non rappresenta solo se stesso, ma ciò che è stato nelle vite precedenti e ciò che sarà; solo così ciascuno potrà trovare il suo posto nel mondo e le risposte che desidera. Per riuscire in questa ricerca di senso, Matteoni sfoglia piano piano ogni personaggio delle proprie storie, muovendoli senza regole attraverso scale temporali e spaziali molto distanti fra loro, solcando ogni elemento naturale e ogni limite fisico. Come riflette Bess – prima madre, poi guaritrice e esperta di erbe, in fine strega bruciata sul rogo, per poi ritornare Antica in veste di sarta innamorata –: «Non credo sia il passato che risveglieremmo. O che abbia senso parlare di passato. Tutto è così vivo, presente nella fine, se questa è la fine. Sto toccando tutte le mie vite ed esse creano riconciliazione. E così le vostre» (p. 130).

In questo turbinio di vite, gli esseri umani appaiono addormentati nel loro disincanto, impossibilitati a comprendere il presente perché privi di memoria e di speranza per il futuro. Il reincanto cercato da Matteoni non a caso esclude completamente il mondo degli adulti, imprigionati in una logica schematica e antropocentrica, impossibilitati ad una «visionaria libertà mentale» (come già sosteneva Pariani in Apriti, mare!). Ribaltando le consuetudini, spetta al giovane folletto Tundra, poiché «Mezzo e Mezzo […] è stato umano, è fatato» (p. 168), ad insegnare agli adulti come riconnettersi con ciò che li circonda e con loro stessi. In antitesi a questa staticità si aprono l’incedere del tempo del mondo magico e i viaggi dei tanti protagonisti intorno a luoghi incantati – la casa dentro zia Salice, la Radura, Boscovento, i ghiacciai e l’Oceano Artico –. Solo gli esseri fatati si rendono conto della fine in arrivo e per evitarla ragionano sul senso della memoria, unico strumento in grado di ricucire i ponti con il passato e ridisegnare un possibile futuro.

Il reincanto passa anche attraverso il linguaggio, da cui traspare la provenienza poetica dell’autrice e il suo interesse per il mondo magico: la semplicità linguistica della favola viene qui sostituita da un lessico lirico e ricercato, che investe ogni essere di una propria vitalità in un sentimento panteistico. Così Matteoni dipinge la scena d’amore tra Bess e l’Uomo del Nord, in cui le due figure perdono i loro contorni umani nella cornice di una foresta che respira:

«L’alba incantata perdurava nel pieno della notte. Le cortecce dei faggi respirarono, spellate dalla fatica, dalla pazzia, dalla caccia. L’Uomo passò una mano tra due lunghe ferite sulla schiena di lei, segni di ali perdute, che cicatrizzavano in fretta. Il dolore non era che un sasso costretto nella gola. Bess si voltò, lo morse sul torace, nascose il viso. Toccavano le loro vene sbocciate, l’incavo delle cosce, le unghie aprivano solchi, le carni premute nelle dita. L’Uomo spinse il suo volto sul ventre della donna, risalì fino ai seni e alla bocca. Le lacrime scioglievano la lama nella pelle. Tutto quello che lei sentiva era il peso di lui come un abbraccio, i denti, le labbra piene, la resa. La violenza serrata dell’amare. Dai cespugli esalavano le lingue salate del sangue. Salivano nella purezza amniotica del cielo» (p. 210).

La fertilità creativa di Matteoni fa interagire l’immaginario tipico delle fiabe, che affonda nella tradizione dei fratelli Grimm, in alcuni racconti sciamanici e nei miti scandinavi (come nel caso delle selkie – creature teriomorfiche –, dei myling – anime dei bambini insepolti – e dei kelpie – spiriti maligni dall’aspetto equino), con elementi della cultura pop e punk, uniti ad un immaginario delirante e onirico che richiama l’Alice di Lewis Carroll. La stessa autrice rivela nei ringraziamenti di aver scritto parte del libro in una residenza per scrittori e scrittrici nella città di Visby, sull’isola di Gotland in Svezia, e che le lunghe passeggiate sul Baltico hanno profondamente ispirato l’atmosfera del libro.

In Tundra e Peive affiorano allora i fili dell’incanto attraverso una narrazione che richiede uno slittamento percettivo: il riconoscimento di altre possibilità di vita sotto il segno dell’alterità e della molteplicità, evocando un profondo sentimento ecologico e antiantropocentrico. Il lettore è spinto, attraverso l’intimità dei personaggi, a ricomporre un patchwork di storie colorate e cupe, e ad intrecciare insieme le trame tra mondi umani e non umani, in una favola-nonfavola che affonda le radici nella tradizione di un genere per decostruirlo e riattualizzarlo così da parlare a un pubblico di oggi.


Francesca Matteoni, Tundra e Peive, Milano, Nottetempo, 2023, 248 pp., €16,50.