La più grande protesta contro il capitalismo consiste nel prendersi cura dell’altr* e nel prendersi cura di sé stess*. Assumere la pratica, storicamente femminilizzata e quindi invisibile, del curare, del nutrire, del prendersi cura. Prendere sul serio la nostra reciproca vulnerabilità, fragilità e precarietà e sostenerla, rispettarla, attribuirle potere. Proteggersi a vicenda, mettere in atto e praticare la comunità. Una parentela radicale, una socialità interdipendente, una politica della cura

(Johanna Hedva, The Sick Woman Theory [1])

Nel leggere La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere di Giusi Palomba – pubblicato da minimum fax nel 2023 anche grazie al lavoro della editor Alice Spano – una parola che risuonava costantemente nella mia testa era “cura”. È probabilmente qualcosa che deriva da una mia inclinazione personale, dal desiderio che ho provato e provo di riflettere su cosa sia la cura e come possa essere una base, uno strumento, un dispositivo sul quale e con il quale creare comunità. Comunità: una parola che torna spessissimo nel libro di Palomba, che viene usata senza una connotazione definita ma su cui la parte finale del testo si sofferma.

Sto per concludere queste pagine in cui ho usato la parola comunità di continuo, senza darne una definizione che ne esaurisse il senso. […]  La comunità, qualunque essa sia, non è sempre immutabile, né sempre presente, né sempre in grado di agire per il bene altrui. Oppure a volte semplicemente non esiste. Invece di romanticizzarla forzatamente all’ombra della sua traduzione inglese, mi rendo conto che insistere a invocarla anche quando non esiste può generare confusione e tristezza. […] John Berger diceva: «Casa è un insieme di pratiche». Parafrasando potrei dire che comunità per me oggi è un insieme di pratiche, molto più che una questione di luoghi. Ho capito per certo che mi interessa partecipare a questa spinta collettiva sugli argini del discorso culturale, della narrazione, e far straripare i fiumi di quello che si è detto e pensato e rappresentato fino a ora (pp. 225-226).

Pur trovandosi alla fine del testo, questa citazione mi sembra un primo passo per tentare di dare una visione, pur necessariamente parziale, di quanto questo libro sia denso e di quanto sia importante e rivoluzionario che sia stato pubblicato in un paese come l’Italia.

La trama alternativa affronta numerosi problemi e temi, e una una tale densità di contenuti è espressa con un linguaggio tanto accessibile da tenere insieme autohistoria [2], racconti di casi di cronaca, analisi di prodotti audiovisivi, testi saggistici, e molto altro.

Il saggio si apre con la descrizione di un’esperienza personale in cui l’autrice racconta di essersi trovata a di fronte l’accusa, nei confronti di un carissimo amico (Bernat, nome fittizio), di violenza sessuale da parte di una persona della stessa città (Mar, nome fittizio), la quale però decide di non rivolgersi alla polizia per denunciare l’accaduto, ma di affidarsi invece alla sua comunità per mettere in atto un processo di presa di coscienza e riparazione collettiva.

Trovarsi di fronte a questo racconto, per una persona sopravvissuta a violenza sessuale, non è facile. L’atteggiamento punitivista che porta a desiderare che la persona che ha agito violenza venga punita come merita è forte; la rabbia è tanta e difficile da tenere a bada.

Pur essendo forse il primo nodo più complicato con cui mettersi in relazione e in discussione, l’idea che ogni persona possa definire ciò di cui ha bisogno in seguito a una violenza, che possa decidere di «non lasciare che altri definiscano il senso della propria storia, poiché la perdita di questo controllo potrebbe inficiare sul processo di guarigione» (p. 165) è un’idea potente e ricca di potenzialità generativa, che ho scelto di seguire attivamente e con attenzione e infine, di fare mia.

Proprio da questa generatività è necessario cominciare a cercare di comprendere un libro che parte da prospettive e posizionamenti che in Italia si vedono pochissimo, anche all’interno dei movimenti politici.

Partiamo da un presupposto e alcuni dati. Il presupposto è personale: in nessun caso nella mia esperienza soggettiva la polizia o le istituzioni hanno davvero fatto qualcosa per proteggere me o le mie compagne e sorelle dalle violenze che abbiamo subito. Nessuna denuncia è servita a far prendere coscienza della violenza, nessuna punizione ci ha protette. Spesso, anzi, la denuncia ha portato a una spirale, al dover sopportare un’esposizione mediatica morbosa, al vivere anni di incubi in cui la propria vita personale viene scandagliata al fine di dimostrare che no, ci sbagliavamo, abbiamo esagerato, frainteso, non compreso, non reagito abbastanza.

È una constatazione che mi fa tremare, ma che è spiegabile alla luce del fatto che l’istituzione carceraria è fallace [3], oltre intrisa di misoginia e razzismo, e il suo risultato appare quello di generare altre violenze; proprio ciò che il femminismo anticarcerario vuole evitare.

Adesso alcuni dati: in Italia le carceri sono sovraffollate, nel 2022 sono state 85 le persone hanno deciso di togliersi la vita in carcere. L’11 agosto 2023, riporta l’Associazione Antigone, già 42 erano i casi di suicidio. Le condizioni sanitarie sono terrificanti e numerosi sono i casi di persone morte mentre in “custodia” della polizia; l’ultima notizia è molto recente. Ripetute sono inoltre le notizie di vere e proprie torture all’interno delle carceri.

In Inghilterra e Galles le persone nere rischiano nove volte di più delle bianche di essere fermate e perquisite, e dal 1990 ci sono stati più di 1700 morti di persone in custodia della polizia. Ricerche statunitensi dimostrano inoltre che gli ufficiali di polizia sono il 15% più soggetti ad agire violenza domestica e almeno il 40% delle famiglie di ufficiali di polizia ha fatto esperienza di violenza domestica. […] Durante le giornate successive all’omicidio di Sarah Everard, Cressida Dick, in quel momento a capo della polizia di Londra, si vede obbligata a fare delle dichiarazioni per rassicurare l’opinione pubblica sulla credibilità delle forze dell’ordine. Ma quando deve rispondere a una domanda su come comportarsi in caso di fermo da parte di un agente, tira fuori una risposta scioccante: se l’agente è solo, allora è meglio verificare la sua identità, consiglia Dick, e nel caso in cui la percezione del pericolo persista, meglio avvisare un passante o rifugiarsi in un’abitazione, bussare a una porta, fermare un bus o chiamare il 999, numero per le emergenze. La capa della Metropolitan Police di Londra consiglia letteralmente alle donne di sfuggire al controllo degli agenti per mettersi al sicuro. Ecco quanto possono essere pericolosi i colleghi secondo un membro femminile della stessa istituzione (p. 143).

Cosa ci dicono questi dati? Suggeriscono che molto spesso le forze dell’ordine non fanno gli interessi delle comunità, non quelli delle comunità marginalizzate, non quelli delle donne che sopravvivono a violenza di genere [4]. Ci dicono anche che le persone che fanno parte delle forze dell’ordine sono immerse nella stessa cultura misogina e machista in cui tutt* veniamo cresciut*.

Ma allora perché – come si chiede Angela Davis in Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale – «In gran parte del mondo si dà per scontato che chiunque sia stato giudicato colpevole di un reato vada in prigione. […] Perché la gente ha creduto così facilmente che rinchiudere una porzione sempre più vasta della popolazione statunitense avrebbe aiutato quanti vivono nel mondo libero a sentirsi più sicuri e protetti? […] perché diamo per scontato il carcere?» [5]. Allontanare dalla società e dalla quotidianità persone che hanno commesso dei reati o delle violenze, senza tenere conto della complessità che ogni violenza commessa porta con sé, senza analizzare esperienze personali, vissuti individuali, background sociali, ecc. sembra evidentemente più facile che immaginare altri tipi di percorsi, forse soprattutto perché siamo poco abituate a pensarci in comunità, a sperimentare pratiche di azione collettiva di risoluzione di conflitti.

L’idea che possa esistere un mondo che preveda la trasformazione al posto della punizione è difficile, complessa e faticosa, perché siamo abituate a pensare che i meccanismi di punizione e detenzione siano gli unici possibili, una sorta di stato di natura.

[What is Transformative Justice?]

La giustizia trasformativa riguarda invece tutti gli atti e i tentativi di riparazione collettiva di un danno subito e agito, che mettono in atto una serie di processi comunitari – guidati da persone che agiscono con funzione di facilitazione – senza ricorrere agli strumenti delle istituzioni o delle forze dell’ordine. Un «patto di fiducia che si sostituisce a un patto di omertà» (p. 202), che prende anche in considerazione il fatto che spesso le situazioni in cui si verifica la violenza sono conseguenti a situazioni di ingiustizia, di marginalità sociale, di disuguaglianze, di traumi, e principalmente del paradigma violento e patriarcale in cui tutte, tutt* e tutti siamo immers*.

Non si tratta di un processo facile, prima di tutto perché ci impegna nell’immaginare un mondo che attualmente non esiste, e questo può spaventare o scoraggiare. C’è anche da tenere in conto che ognun* di noi reagisce in modo diverso al trauma, e questo è un elemento che i processi antipunitivi e anticarcerari tengono in grande considerazione; ogni processo parte infatti sempre dall’ascolto delle esigenze di chi ha subito la violenza, che possono essere costantemente rinnovate o modificate, e su cui il processo trasformativo si impernia [6].

La voce di chi sopravvive alla violenza è centrale, la persona ha il potere di decidere come reagire alla violenza subita, come operare nel contesto della sua guarigione, accompagnata nell’attuare dinamiche che sono sempre percorse in gruppo, non lasciando mai la persona da sola. Questo, in un processo di guarigione, mi pare estremamente impoterante, per quanto doloroso e difficile.

Contemporaneamente, la persona che ha agito violenza viene coinvolta in un percorso di presa di responsabilità, di coscienza e di guarigione che non è chiamata a fare in solitudine ma, egualmente, accompagnata da persone care e da persone professioniste. L’isolamento, l’abbandono, l’emarginazione sociale, la messa alla gogna, l’omertà, non portano ad altro che al ripetersi e al rinnovarsi della violenza; chi agisce violenza, al pari di chi la subisce, necessita di una rete di sostegno che l* accompagni nel rendersi conto della violenza che ha agito e porti a evitare che l’atto possa ripetersi in futuro. Questo è un altro punto difficile da digerire, di nuovo la rabbia può essere difficile da controllare, l’atteggiamento punitivo appare quasi istintivo.

Ma i percorsi di giustizia trasformativa vogliono partire dalla ricerca di strumenti per trasformare ciò che c’è e modificarlo, cambiare le condizioni iniziali che portano alla violenza, affinché le violenze non si verifichino più, basandosi sulla «quotidianità delle piccole cose che evitano il verificarsi delle grandi cose», come afferma Mia Mingus (p. 204).

Già poter riconoscere l’errore, provare a collocarlo ed evitarlo, si avvicina a pratiche di giustizia trasformativa, il cui obiettivo è basato sulla «volontà di tenere tutto insieme, sulla capacità di contemplare due o più tensioni nello stesso momento, sullo stare in uno spazio – sicuramente scomodo e non sempre semplice e possibile da concepire – necessario alla riparazione e alla trasformazione, e riempirlo con tutto ciò che serve a questi due processi» (p. 131).

È importante in questi processi concentrarsi sull’empatia, la compassione, la complessità del reale. È importante lavorare sui paradigmi violenti e patriarcali, è importante riconoscere che la società in cui viviamo si basa su rapporti di potere e subalternità, che le persone socializzate come uomini spesso utilizzano la loro posizione di privilegio per agire violenza, talvolta anche con strumenti intellettuali, e che «disertare la mascolinità egemonica non è la fine del lavoro» (p. 183), ma semmai l’inizio per prendere coscienza dello spazio che gli uomini occupano, del potere che hanno, e cominciare a decostruirlo e distruggerlo, disimparando meccanismi di privilegio, con un lavoro che è faticoso e lungo.

Pur concentrandosi sulla violenza di genere, le prospettive trasformative che Palomba presenta in questo libro mi sembrano importanti per ogni tipo di abuso e violenza. Anche quelli che si verificano nelle relazioni amicali, nei luoghi di lavoro, o in qualunque altro tipo di situazione.

Non ci siamo ancora concessi di esplorare sistematicamente la potenza della cura, della presenza, della gestione consapevole di un conflitto e della riparazione. Non ci siamo ancora concessi una possibilità di riconciliazione con tutta l’umanità di cui siamo capaci. Le prospettive antipunitive, anticarcerarie, trasformative, ci consentono di scoprire che le persone non sono predestinate e condannate a ferire, né a essere vittime in eterno, ma possiedono in potenza le capacità di riparare, di guarire, di smettere di fare del male. Lo spazio di questa possibilità è necessario anche per riconoscere, prendere le distanze e trovare alternative alle logiche coercitive e punitive e alle istituzioni totali, alla brutalità della polizia e alla violenza dello Stato. Uno spazio che non è detto tutti vogliano o abbiano il privilegio di esplorare sempre e comunque. Ma possiamo credere nelle possibilità di trasformazione senza negare la difficoltà di metterle in pratica, e tenere a mente che i modi che scegliamo per gestire un conflitto o un abuso determinano la forma delle società in cui viviamo. Se i modi che abbiamo non sono sufficienti per concretizzare le nostre visioni, allora vuol dire che dobbiamo inventarne altri (pp. 222-223).

Questo libro parla di mondi, di sogni, della necessità di reagire in comunità di fronte agli abusi. E di questo è possibile parlare solo se si lavora sugli immaginari e sulle narrazioni, se si smette di pensare che la prospettiva punitivista e carceraria sia l’unica possibile per “risolvere” una violenza.

Parla della necessità, prima ancora, di riconoscerci in comunità, perché chi subisce un abuso di qualunque tipo possa trovare sostegno, senza essere obbligat* a scegliere tra punizione o silenzio, senza più trovarsi di fronte alle violenze nei percorsi giudiziari, e allo stesso tempo senza più trovarsi di fronte al muro dell’omertà sociale, o nella condizione di dover cambiare abitudini, relazioni, modalità di vita, rinunciare a frequentare spazi e a volte anche essere costrett* a cambiare città. Ciò che più mi resta di questa lettura è un costante richiamo all’importanza di costruire comunità e su queste poter contare nella reciprocità, che è l’unica pratica che ci permette di costruire spazi di cura e tenerezza radicale e di poter, in fondo, sopravvivere.

Ho avuto la fortuna di ascoltare Palomba parlare del suo libro durante una presentazione. Durante il dibattito finale, che è stato molto acceso, ho provato a esporre la difficoltà che provo nel pensare di dover gestire una situazione in cui una persona cara viene accusata di violenza sessuale, di quanto il pensiero mi mette in difficoltà, di quanto mi chiedo se sarei in grado di non far prevalere la rabbia nei suoi confronti, o se invece farei prevalere la “complice” omertosa e protettiva, invece di riuscire, come vorrei, a mantenere una posizione complessa, accompagnando la persona nel processo di coscientizzazione, guarigione, trasformazione a partire dalle necessità della persona sopravvissuta alla violenza.

Palomba, con la sua estrema capacità di tenere insieme le questioni complesse e di rispettare tutti i punti di vista, mi ha dato una risposta articolata, che ha concluso con «Comunque anche questo è un processo che non puoi fare da sola, ma che va fatto insieme».

Da questo insieme sarebbe importante poter ripartire.

Non è detto che io domani, in presenza di un abuso, possa riuscire a superarlo da sola senza ricorrere a sistemi punitivi. Non è una strada facile, non è scontato e nessuno dovrebbe pretenderlo da nessun altro. Rifletto spesso sull’idea che lo sforzo di fare a ritroso il percorso da un conflitto alla sua radice sia stato per me un modo per non chiudere i rapporti con tante persone. A volte allontanarmi è stato necessario, a volte sono riuscita a evitarlo. Non ho giustificato, non ho dimenticato, non ho – come si suol dire – perdonato: ho solo capito le ragioni di alcuni comportamenti e soprattutto ho realizzato di aver sempre avuto una parte di responsabilità. E spero che qualcuno, almeno una volta, vorrà o potrà concedermi lo stesso lusso (pp. 131-132).


[1] Non ringrazierò mai abbastanza Valentine aka Fluida Wolf per avermi consigliato la lettura di questo testo di Johanna Hedva.

[2] «autohistoria… a term I use to describe the genre of writing about one’s personal and collective history using fictive elements, a sort of fictionalized autobiography or memoir; an autohistoria – teoría is a personal essay that theorizes»: Gloria Anzaldúa, now let us shift…the path of conocimiento…inner work, public acts, in Gloria Anzaldúa e AnaLouise Keating (ed. by), this bridge we call home: radical visions for transformation, Routledge, New York, 2002, pp. 540-78, qui 578.

[3] «Chiunque si muova in questo campo di ricerca sa che il sistema punitivo non funziona, che la carcerazione non funziona, è il punto da cui si parte»: Marguerite Schinkel, docente in Criminologia all’Università di Glasgow e tra le fondatrici di CAP Scotland, citata a p. 111.

[4] Riporto al riguardo, e lo faccio con estremo dolore, una notizia legata al recente femminicidio di Giulia Cecchettin. Riporto anche un post del profilo Instagram della Polizia di Stato, che in seguito al femminicidio di Cecchettin cita alcune parole di Cristina Torre Cáceres: «Se domani sono io, se domani non torno, mamma, distruggi tutto. Se domani tocca a me, voglio essere l’ultima». Sotto al post migliaia di commenti testimoniano il mancato o insufficiente intervento delle forze dell’ordine in casi di violenza di genere:

[5] Angela Davis, Aboliamo le prigioni? Contro il carcere, la discriminazione, la violenza del capitale, minimum fax, Roma,2009, pp. 15; 20-21.

[6] Suggerisco, seguendo a mia volta il consiglio contenuto in La trama alternativa, la visione di questa serie di interventi sulla giustizia trasformativa, tra i quali Centering the need of survivors.


Giusi Palomba, La trama alternativa. Sogni e pratiche di giustizia trasformativa contro la violenza di genere, minimum fax, Roma 2023, 18 €, 243 pp.