La prendo larga. Piaccia o meno, avvicinarsi a un libro di poesia, da un po’ di tempo, significa spesso confrontarsi con questa domanda: quale logica mette insieme le diverse forme (linguistiche, strutturali, stilistiche…) raccolte da un libro? Perché – piaccia o meno – avere a che fare con la poesia, da un po’ di tempo, significa avere a che fare con i versi, sì, ma solo in parte; significa più generalmente avere a che fare con forme varie, più o meno esplose, della lingua e, indirettamente, con la difficoltà, sempre più evidente in molte scritture, di avvicinarsi naturalmente alla poesia, di intenderla come codice formale e simbolico universalmente definito.

La distinzione di Gilda Policastro (Giulio Perrone Editore, 2023) mi sembra essere una prova evidente di questa frammentarietà (o simultaneità) testuale. Ideale prosecuzione, per alcuni aspetti, del precedente Inattuali (Transeuropa, 2016), La distinzione ne recupera e amplifica infatti l’eavesdropping («l’ascolto casuale in situazioni di vita sociale (o social)»), non solo letteralmente (Cut-up è ripresa, con modifiche, proprio da quel libro, e la sezione Inattualissime evidentemente lo prosegue), ma soprattutto concettualmente. Se vogliamo individuare un centro di senso, una “logica”, in questa operazione multidirezionale – come vedremo – di Policastro, lo possiamo trovare proprio in questo demandare la produzione testuale a soggetti diversi da quello che dice io. Soggetti umani oppure no; comunque decentrati, multipli, contraddittori.

Scorrere le sezioni dà un’idea di questo decentramento. Dopo Sala d’attesa, su cui torno più avanti, troviamo Dispositivi, che fin dal titolo tira in causa la possibilità di delega: si evidenzia uno strumento, una mediazione (tecnologica) che, con Agamben, «abbia in qualche modo la capacità di catturare, determinare, intercettare, modellare, controllare e assicurare i gesti, le condotte, le opinioni e i discorsi degli esseri viventi» (Che cos’è un dispositivo?, Roma, Nottetempo, 2006). Ecco quindi SwiftKey, «esempio di scrittura automatica personalizzata che prende il nome dalla tastiera virtuale per Android e ios», dove il testo si produce seguendo il flusso di coscienza (algoritmica) stimolato appunto dalle associazioni automatiche della tastiera («Ma non è ancora un dato ufficiale che io sappia i | test sono in corso anzi sono appena partiti da un | altro po’ di lavoro che mi hanno fatto bene e che | […]») e interrotto solo da un taglio arbitrario, e ironico («[to | be | continued]»). Oppure – guest starGp(t)-3, in cui si riporta la conversazione con l’intelligenza artificiale:

“Scrivi una poesia sulla malattia, gli ospedali, la morte”
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Malattia,
ospedale,
morte.
Tre parole che sconvolgono la vita,
tre parole che portano sofferenza e paura.
Malattia,
che ci fa sentire deboli e inerme,
che ci fa tremare di fronte all’ignoto.
Ospedale,
luogo di sofferenza e di paura,
luogo in cui si lotta per la vita.
Morte,
ultimo passo verso l’ignoto,
un passo che tutti dobbiamo fare.
Malattia,
ospedale,
morte.
Tre parole che ci ricordano
che la vita è breve e fragile.

Bisogna sottolineare, però, che la natura di dispositivo non è propria solo degli strumenti tecnologici esplicitamente coinvolti, e utilizzati (citiamo ancora Scrolling, Poesia ASMR, Notepad…), ma può essere estesa anche ad altre pratiche di delega e mediazione (seguendo ancora Agamben, che riconosce nello stesso linguaggio «forse il più antico dei dispositivi»). In questa prospettiva possiamo quindi inserire, oltre al già citato eavesdropping, anche Blurb – i cui versi (?) sono calchi parodici delle fascette editoriali («Una commedia ironica e romantica per cuori leggeri e bollenti spiriti || Un libro da leggere per chi sa che i libri ci connettono a chi amiamo») – oppure la scrittura social che entra in Facebook poetry («Brutta gente, | la letteratura»), o ancora la struttura a elenco, dal sapore balestriniano, di (poesia e basta) («Voglio cominciare io | Questo giochino di annegamento della poesia | Nei bei versi del gran mare di niente | Poesie tramonti | Poesie gabbiani | Poesie dal di fuori | Dal di dentro | Nell’accanto | Del poco prima»).

Il punto infatti è che la delega non corrisponde banalmente a un allontanamento della scrittura dal soggetto; semmai all’allestimento di una tensione tra chi scrive e i suoi dispositivi, tra intenzione e automazione. Anche l’oscillazione tra verso e prosa, in tal senso (nel senso agambeniano, cioè, di intendere il linguaggio stesso come dispositivo), obbedisce a questo tipo di stimolo: se le poesie delle prime sezioni, lunghe e accumulatrici, vicine al modello delle Inattuali, giocano tra sarcasmo e inquietudine con temi atavici (ma re-immaginati dall’era social) come amore e morte («Io e la morte siamo amiche da tempo, abbiamo fatto un patto: | ricevo diagnosi fatali, condivido, inoltre | ne parlo | non parlo d’altro | Se d’amore si muore, io vivo d’amore | per la morte»), e cioè entrano nei sistemi simbolici della lingua e li alterano fino al disorientamento, le prose di Histoire d’H sono frammenti di narrazione che ruotano attorno a terze persone, scene, puntano più frontalmente al turbamento dei contesti ospedaliero e psicoterapeutico («La malattia è il passatempo dei sani: cura, adesione (empatia, abuso di)»).

Si capisce quindi che quello di SwiftKey e Gp(t)-3 è solo un livello di esternalizzazione visibile di un meccanismo che il libro vuole dimostrare in realtà insito nel linguaggio – e cioè la frizione tra aspirazione espressiva e strutture già codificate (da quella algoritmica a quella narrativa a quella versale eccetera). Quest’ultime colonizzano la lingua, mentre l’aspirazione ne devia i flussi, li rifunzionalizza, sovverte. Dimostrazione che ci sia una lotta tra soggetto e dispositivi è innanzitutto l’ironia straniante di molti testi, che ha il compito di disinnescare o immediatamente problematizzare i passaggi di senso (in Gp(t)-3, subito dopo la «poesia sulla malattia, gli ospedali, la morte» riportata sopra, si chiede «una poesia ironica sulla malattia, gli ospedali, la morte»); poi, al suo opposto, la carica emotiva. Questa a volte è agita pienamente (come nell’Antefatto Precari, rivolto in vocativo alla «Mamma»), ma più spesso – e più efficacemente – attraversata come alone, condizione. È su questo piano, infatti, rappresentando l’intersezione tra la precarietà fisica del soggetto e l’azione collettiva di dispositivi medianti (siano essi astratti come il sapere specialistico di un «dottor S.» o concreti come i «macchinari») che si gioca il tema dominante del libro, quello della malattia.

La malattia – fisica o mentale – è del resto, parallelamente, la frizione tra aspirazione biologica (alla sopravvivenza, alla salute) e morte, nel cui spazio si inseriscono dispositivi di cura, o controllo, o ipocondriaca degenerazione. E di tutto l’universo semantico che nella Distinzione è aperto dal patologico (dopo l’Antefatto, il libro si apre con l’incubatrice di una Sala d’attesa, e si chiude, poi, prima dell’Appendice, con i Residui diurni: «il trauma si lavorava sulla memoria emotiva del corpo»), è forse l’immagine dei tubi quella che ne inquadra meglio il portato simbolico. Tubi che tornano in molti testi, come parte delle «terapie intensive», oppure, soprattutto, come sonde che entrano nel corpo:

Accogli il nostro pensiero e traducilo in cura. È una cosa lunga, servono specialisti (Neuro, Logo, Psico, Nutri). Sono dentro tubi grossi, con apertura, senza apertura. Ho tubi che scendono dal naso all’esofago alto e basso. Ingoio liquidi, sputo. Sempre lo stesso esito: niente di organico, né funzionale.

Con la cura entra il pensiero, e cioè – nel nostro discorso – dispositivo e senso sono interconnessi. Di più: il tubo è l’intromissione del dispositivo nel soggetto, è la sua invasione e scandaglio devitalizzante («niente di organico»); ma nonostante ciò il soggetto lo accoglie, perché vede nel dispositivo esterno una possibilità di senso (biologico o espressivo) che non è più in grado di produrre da solo. Ecco, mi sembra possa rintracciarsi una corrispondenza tra dispositivo medico e dispositivo linguistico, collocati entrambi in una zona grigia non pienamente significata («uno stato di PREOCCUPAZIONE TOTALE | senza oggetto», si dice per i «depressi»), che riguarda, da una parte, l’allacciarsi della soggettività alla propria presenza fisica, inevitabilmente precaria, dall’altra il diaframma sempre più rilevante tra espressione e testo. La distinzione attraversa queste dinamiche – certamente rilevanti nella storia degli ultimi anni – e con esse l’affacciarsi della poesia, della scrittura in genere, a una pratica sempre più visibile di mediazione, ricodifica, «nudità non forclusa».


Gilda Policastro, La distinzione, Giulio Perrone Editore, Roma, 2023.