Il libro di Davide Piacenza La correzione del mondo (Einaudi, 2023 – https://www.culturewars.it/) solo in apparenza è la cronaca di ciò che sta accadendo negli Stati Uniti, e in parte in Italia, intorno alla cancel culture, alle culture wars, al wokeism, e ad altri fenomeni la cui denominazione è ora nel vocabolario di molti.

In realtà, il libro fornisce delle indicazioni utili a ragionare in tempo reale – live, per così dire – su un pezzo di storia contemporanea, mentre quest’ultima si svolge sotto i nostri occhi.

Piacenza, infatti, coglie che l’acceso dibattito riguardante la political correctness, e come essa presuntivamente mette in pericolo la libertà d’espressione, non è solo il risultato delle rivendicazioni intrise d’odio – verso gli immigrati, i poveri, le donne, le minoranze – della destra trumpiana e delle più estreme formazioni neofasciste e neonaziste che feriscono la convivenza civile nelle società occidentali, e fuori di esse.

Purtroppo, le cose sono più complicate, poiché «anche il mondo delle opinioni degli altri, come le nostre percezioni interiori» – quelle che si trovano nella coscienza e non su uno schermo – «è più complicato d’un sistema binario e approssimativo» (p. 247).

Intanto, il quarto capitolo de La correzione del mondo (pp. 192-231) pone in sequenza, a beneficio dei disinformati, un campionario inevitabilmente limitato, ma significativo, delle malefatte della più becera area conservatrice americana, quella per intenderci che nel 2015, quando Donald Trump lanciava la sua candidatura alla Casa Bianca, pensava davvero, e twittava di conseguenza, che il futuro presidente avesse ragione quando diceva che gli «immigrati messicani», per il solo fatto d’essere immigrati e messicani, «sono stupratori» (p. 203).

Poi, colmata questa e altre eventuali lacune nel sapere relativo all’atrocità d’una certa condotta politica d’oltreoceano, il libro di Piacenza dice qualcosa di più, almeno per chi ha a cuore la rigenerazione democratica nei Paesi occidentali, ovvero la correzione ponderata della democrazia, non quella allarmata e fanatica del mondo.

Questo surplus non è più cronaca degli eventi, ma premessa a uno studio della trasformazione in corso nello stile cognitivo del numero incalcolabile d’individui che sono utenti dei social media.

«Grande è la confusione sotto il cielo algoritmico» (p. 37), scrive infatti Piacenza in vena di aggiornare forse Mao Zedong, forse Confucio (v’è incertezza circa chi detenga il copyright della celebre frase). In altre parole: ciò di cui facciamo esperienza ogni giorno, viene scrupolosamente registrato sottoforma di dati (capta) afferrati o estratti (per-capta) dai nostri dispositivi portatili della percezione esteriore (‘fotografica’, outside-in) della realtà. Questo orientamento pressoché esclusivo verso il fuori nell’apprendere quel che conta e vale la pena conoscere, finisce per alimentare la ferocia dopata d’una folla digitale smaniosa di like, d’esasperata visibilità, e quindi di compulsive e autogratificanti identificazioni d’un nemico che non siamo mai noi, ma qualcun altro.

Quello del like, chiosa Piacenza citando il primo presidente di Facebook, Sean Parker, è infatti «un loop di feedback e validazione sociale» (p. 69), che da un lato identifica, e dall’altro lato esclude (noi contro loro, il Vero contro il Falso, il Bene contro il Male). L’autore parla d’un loop a base fortemente emozionale che crea dipendenza, non meno d’una droga apparentemente empowering (la cocaina, l’Adderall al di fuori d’una attenta prescrizione medica, almeno negli USA). L’inganno del potenziamento personale ci rende insensibili alla permeabilità cognitiva delle nostre percezioni immediate, di certi nostri comportamenti abituali, del bisogno di sostanze digitali che confermino la nostra addiction. Quest’ultima ci priva di quelle ‘odiose’ capacità riflessive che sembrano solo farci perdere tempo con la loro ostinazione critica ad analizzare e a distinguere (si veda il quinto capitolo, «Quel che ci stiamo perdendo», pp. 244-253), presi come siamo nella logica della gratificazione immediata, e della conseguente contrapposizione polarizzata delle opinioni. In queste condizioni, anche la comunicazione politica – a tutti i livelli, a destra come, ahimè, a sinistra – finisce per alimentare «la grancassa di una réclame psicogena» (p. 196).

La vicenda di Emmanuel Cafferty, figlio d’immigrati messicani e latinoamericani, e impiegato fino al giugno 2020 in una company di luce e gas della California meridionale, è esemplare del fenomeno morboso, di natura techno-psichica, in corso nella società contemporanea. Cafferty ha perso il lavoro perché un giorno, fermo al semaforo sul suo pickup, è stato ripreso con lo smartphone da un altro automobilista mentre componeva le dita d’una mano, distrattamente fuori dal finestrino, a formare l’okay sign, senza avere la minima idea che oggi quel gesto è il segno di riconoscimento dell’alt-right (e senza avere neppure idea di cosa fosse l’alt-right). Una volta divenuta virale la foto, e scatenatasi la shitstorm, l’Ufficio Risorse Umane della ditta di Cafferty ha sentito il dovere ‘morale’ di licenziarlo. Commentando la sua vicenda, Cafferty ha puntualizzato che «un uomo può imparare dai suoi errori», anche se lui, a dire il vero, non ha nulla da imparare, poiché l’errore non esisteva: «mi sento come se fossi stato colpito da un fulmine» (p. 107). Quelle del cielo algoritmico, insomma, più che essere le bright lights di cui scriveva Jay McInerney nel 1984 a proposito della big city (in italiano Le mille luci di New York, Bompiani, 2016), sono delle vere e proprie saette che inceneriscono, per l’idiozia e la surriscaldata incompetenza cognitiva di qualcuno, l’esistenza di qualcun altro.

Piacenza, rifacendosi a quanto osservato dallo storico britannico Dominic Sandbrook («How the Culture Wars Came from History», The Post – UnHerd, 28 maggio 2021), fa risalire la veemenza delle odierne culture wars alla furia «iconoclasta» (p. 22) del IV secolo d. C., una furia scatenatasi contro le immagini che caratterizzò il trapasso dalla civiltà pagana a quella cristiana nell’impero romano. Oggi questa guerra, in una società in cui la cultura visuale ha quasi il monopolio della comunicazione, fa leva, più che sul senso di realtà, sulla capacità suggestiva delle immagini stesse. Ecco allora che il segno dell’ok – non solo il monumento a uno schiavista che si trovava a Bristol, in Rhode Island – evoca un mondo d’odio nazista da abbattere.

Quanto scrive Piacenza circa il carattere suggestivo (pp. 6, 97, 262) e nient’affatto razionale o argomentato degli scambi d’idee – anzi, del lancio di pietre– che avvengono sui social, è stato curiosamente prefigurato più di cento anni fa da Federico De Roberto in un brano de I Viceré (1894) dedicato alla mobilitazione emotiva della folla. Alla fine dell’Ottocento, infatti, la suggestionabilità della folla – la possibilità che essa fosse costantemente engaged – diventava per la prima volta oggetto d’indagine sociologica e psicologica. La folla, come argomento scientifico, è stata tenuta a battesimo da Scipio Sighele (La folla delinquente, 1891) e da Gustave Le Bon (Psicologia delle folle, 1895), e può essere considerata l’antenato della massa, che, come ‘soggetto’ psicologico e politico, verrà invece indagata solo più tardi da Sigmund Freud, da un lato, e da Elias Canetti, dall’altro.

Nel romanzo di De Roberto, I Viceré, all’indomani dell’unificazione del regno d’Italia e della caduta della destra storica, Consalvo Uzeda tiene un comizio nell’ex monastero dei Benedettini di Catania, approntato per l’occasione a ospitare la performance politico-teatrale del rampollo d’una famiglia i cui natali sprofondano nelle origini barocche – e per ciò stesso inclini all’esagerazione visiva, tutta esteriore, di superficie – d’un ceppo nobiliare spagnolesco. Consalvo, la cui retorica comiziale addobba la vuotezza di senso d’un potere trasformista e auto-riferito, alimenta una logorrea persuasiva infiammandosi alla corrente di simpatia trasmessagli dagli applausi (i like) di chi lo guarda e lo ascolta. Egli restituisce poi all’audience, con le parole e i gesti (i post), lo stream emotivo che ha ricevuto dalla prima, per beneficiarne infine di ritorno, allorché il pubblico rilascia mormorii e grida d’ammirazione (il loop di feedback e validazione sociale). In tal modo Consalvo conquista la sua fetta di consenso, e viene addirittura eletto – grazie all’aver detto nulla – al parlamento.

Quando Piacenza stigmatizza quel che «il bon ton dei circoli progressisti impone a chi viene trovato in errore» (p. 39) – per un post sbagliato, o anche solo poco condivisibile, o magari per un equivoco ermeneutico-percettivo, come quello che ha determinato il licenziamento di Cafferty – l’aspetto barocco della distorsione comunicativa della morale nel mondo digitale emerge ancor più chiaramente. Ai malcapitati tocca infatti «di prodursi in messaggi di scuse sempre più manieristici e già sentiti» (ibidem), come se l’eventuale peccato del reo richiedesse di scontornare per penitenza il linguaggio, di tramutarlo in gesto, e di fissarlo in undato da conservare eternamente, da monumentalizzare e ripetere a volontà – proprio come una maniera senza vita, una posa sempre visibile di raggelante falsità, un loop che ribadisca un qualche dogma inventato e vieti di pensare con la propria testa (si veda, ad esempio, il contorto barocchismo d’un tweet di scuse della conduttrice e attivista britannica Jameela Jamil, p. 30).  

La «macchina impazzita che estrae frasi e discorsi dai rispettivi contesti ed epoche per renderli corpi del reato» (p. 117), è dunque governata da una legge che comanda una visibilità distorta, come se ciascun individuo non fosse altro che quel che appare in un certo momento, in certe circostanze, sotto una certa luce. Piacenza non trae la conseguenza, ma questo è proprio il modus operandi del razzismo, il quale fa leva su di un dato visibile alla percezione immediata, sganciata da una trama più complessa di relazioni cognitive – un colore della pelle etichettato in un modo uniforme – e vi attacca un giudizio, che però non è altro che il riflesso d’una ansia – una paura, un terrore – del giudicante. La macchina impazzita, o del caos, come la chiama Max Fisher (The Chaos Machine: The Inside History of How Social Media Rewired Our Minds and Our World, Little, Brown, and Company, 2022) espande quindi a dismisura la dinamica di pensiero sottesa alla razzializzazione dell’‘altro’, una dinamica fondata sul pre-giudizio, sulla parzialità della conoscenza, e sulla contagiosità suggestiva, anzi,virale, del pregiudizio stesso e della conoscenza limitata.

Sussiste quindi un’inquietante consonanza tra la cultura tutta sbilanciata sulle percezioni immediate, non riflessive, non cognitivamente mature, della macchina del caos, e il modo in cui ‘funziona’ il razzismo, almeno secondo gli argomenti della Critical Race Theory. Scrive ad esempio Isabel Wilkerson, che sulla mera base dell’«apparenza» (appearance), delle «caratteristiche fisiche» e di quel che le persone «sembrano» (look like), s’è costruita tra i coloni, dall’epoca della tratta degli schiavi dall’Africa (iniziata nel1619), una vera e propria gerarchia che usa il razzismo per articolare la società americana in caste pressoché immodificabili, simili a quelle del subcontinente indiano e della sua storia millenaria (Caste. The Lies that Divide Us, Allen Lane, 2020, p. 18). La confusione che viviamo sotto il ‘nuovo’ cielo algoritmico, anziché liberarci dalla dittatura del (pre)giudizio irriflesso di fronte a quel che percepiamo istantaneamente (ad es., un colore della pelle sgradito), la amplifica potenzialmente all’infinito, al punto che diveniamo intolleranti ad altre innocue percezioni visuali, come il gesto dell’ok, o qualunque altra cosa ‘bloccata’ in un’istantanea fotografica che la isoli dal suo contesto, e quindi dal suo senso.  

Sarà che gli smartphone portano il mondo intero nella prossimità d’una mano e nell’intimità d’uno sguardo ravvicinato, il fatto è che siamo tanto isolati gli uni dagli altri, che la nostra idea di ‘nemico’ è sempre più astratta, immaginaria (il nero, l’ebreo, la straniera, il gay, la persona transgender, quello con l’accent, la donna, il cinese, la native, un qualunque outsider, ma l’elenco in questi anni di social è in espansione, e specularmente si riduce la sua plausibilità). Tale idea di ‘nemico’ è costruita sulla somma di dati, foto e post relativi a persone che non conosciamo, non conosceremo, e solo illusoriamente sono tanto vicine a noi da scatenarci le vibes più incontrollabili, cioè sentimenti che in realtà non sono nostri, e nei quali infatti non sempre ci riconosciamo. Espropriati delle nostre percezioni – estratte esacrificate, per dirla con Andrea Righi, al moloch dell’economia digitale che esige l’affastellamento dei dati presi dalle nostre vite (The Other Side of the Digital: The Sacrificial Economy of New Media, University of Minnesota Press, 2021) – non sappiamo bene come ciascuno di noi possa essere un io con una coscienza.

Coscienza qui significa una dimensione dell’esperienza personale che non sia appiattita sull’esteriorità quantificabile d’una comunicazione perlopiù visiva, istantanea e martellante, da potenziare indefinitamente. Il termine coscienza indica infatti una dimensione dell’esperienza nella quale v’è posto per la verticalità del pensiero e per la profondità degli affetti – questi sì inconfondibilmente nostri e autentici (Anil Seth, Being You: A New Science of Consciousness, Faber and Faber, 2021). La coscienza, insomma, è ciò che la ragione algoritmica dell’AI non può imitare, poiché non è il risultato della somma algebrica d’una mole stratosferica di dati, né l’esito dell’intersezione computazionale, meramente quantitativa, delle etichette, delle ripartite identità, che veniamo sollecitati a usare (anche nelle università) per definirci. Gli affetti della coscienza, al contrario, sono incatturabili dai capta con cui X, Facebook e Tik Tok accumulano il capitale originario del Mondo Nuovo.

Questo è forse il motivo per cui La correzione del mondo termina con la speranza che gli esseri umani imparino presto a nutrire affetti autentici, a essere buoni per davvero (pp. 275-278) e non perché se lo aspetta una cerchia di followers auto-suggestionata dal Male e dal Bene. È in nome di questa realtà dei sentimenti – ma anche in nome di quella ‘cosa’ altrettanto reale che a Cafferty è stata tolta dall’imbecillità corporate, il lavoro– che è possibile parlare sensatamente di libertà d’espressione.  La libertà d’espressione non è infatti libertà d’offendere qualcuno, come invece intende una certa destra: «cosa aspettiamo», allora, «a tornare a considerarla una battaglia intrinsecamente di sinistra» (p. 231)?

Anche tramite una battaglia del genere, prima d’una elezione presidenziale che sarà cruciale, occorre contrastare la frammentazione del fronte politico democratico chiamato ad arginare la regressione belluina verso cui ci proietta il darwinismo sociale tecnologicamente aggiornato di questi anni.

Chissà se, tra i promotori della Letter on Justice and Open Debate, apparsa su Harper’s Magazine il 7 luglio 2020, e firmata tra gli altri da Salman Rushdie, Margaret Atwood e Noam Chomsky, v’era qualche italo-americano memore della pluralità degli orientamenti ideali convocati a resistere, a partire dall’«abisso della […] coscienza» (p. 278), al fascismo nel biennio 1943-45:

«[…] Non bisogna permettere che la resistenza si irrigidiscaintorno a un suo tipo di dogmatismo e coercizione,che i populisti di destra stanno già sfruttando. L’inclusione democratica che vogliamo si può raggiungeresolo denunciando il clima intollerante che si è creato da entrambe le parti […]. Noi sosteniamo l’importanza di una dialettica e di un contraddittorio espressi con forza e anche taglienti, per tutti. Ma è diventato troppo normale sentire richieste di tempestive e dure punizioni in risposta a quelli che vengono percepiti come sbagli di parola o di pensiero. Ed è ancora più preoccupante che i leader delle nostre istituzioni, nel tentativo in preda al panico di contenerei danni, decidano punizioni frettolose e sproporzionate invece di piani di riforma più ponderati […]» (i corsivi sono  miei).

Un libro che ora indaga i significati ‘plurali’ dell’opposizione combattiva e della ‘resistenza’ entro il contesto italiano, al di là delle falsità, delle ipocrisie e degli stereotipi di certo patriottismo retorico, è A Century of Italian War Narratives: Voices from the Sidelines, per la cura di Luigi Gussago e Pina Palma (Brill, 2023).


D. Piacenza, La correzione del mondo. Cancel culture, politicamente corretto e i nuovi fantasmi della società frammentata, Torino, Einaudi, 2023, 320 pp., € 16.