Il livello di mondanità del Festival del Cinema al Lido di Venezia non sembra risentire particolarmente dello sciopero degli sceneggiatori e autori di Hollywood. Il red carpet resta uno strano e sfavillante campionario di semidei e bizzarrie da capogiro, tra attori, politici, cantanti, influencer e star della televisone. Di certo pesano le assenze di diverse celebrità americane, come Emma Stone, protagonista dell’ultima opera di Yorgos Lanthimos, Poor Things, o l’impossibilità di vedere il re dei mondani, Guadagnino, aprire la mostra con la sua ultima opera, Challengers. Eppure il Palazzo del Cinema di fronte al mare splende in tutto il suo bianco e rosso, la crescita attrattiva dell’evento non sembra essersi arrestata e i nomi in concorso restano di primo livello. Da Pablo Larrain al sopracitato Lanthimos, passando per Michael Mann, Sofia Coppola e David Fincher. Numerosi poi i film italiani in concorso (Sollima, Costanzo, Garrone, Castellitto, Diritti e De Angelis) e presenti nelle altre sezioni, come Orizzonti e Orizzonti Extra. Da parecchio non si vedeva una pattuglia così vasta di film nostrani in laguna: segnale positivo di una scena eterogenea, fatta di storie con identità molto diverse tra loro. Ci sono però elementi che ritornano in alcune di queste pellicole, tra questi nuova centralità di Roma come generatore nuove storie e lo scontro generazionale. 

Una sterminata domenica (Alain Parroni)

Nel film del giovane regista Alain Parroni, presentato nella sezione Orizzonti, la Roma che ci viene mostrata è quella semi rurale della periferia, che a vederla sembra ancora quella cantata per immagini da Pasolini. Casermoni/alveare circondati da prati incolti, bidonvilles dove si praticano forme di pastorizia di autosostentamento e giovani che cercano di riempire il vuoto delle giornate. Questi ragazzi di vita della generazione Z si chiamano Kevin, Brenda e Alex e stanno sempre insieme, come in un ménage à trois da nouvelle vague, ma in romanesco. Tra un furto e uno sputo sulla folla radunata per l’Angelus, Brenda confida ad Alex di essere incinta. Il ragazzo vede nella paternità l’unica cosa davvero buona che ha fatto e sentenzia: “meglio genitori giovani che vecchi”. La giovinezza rappresenta il loro unico asset da contrapporre al mondo degli adulti, indistintamente considerati come zombie con pochi anni di vita ancora da trascorrere. Il tempo dei protagonisti è invece dolorosamente infinito e senza speranza. Alain Parroni dimostra una grande padronanza della cinepresa e si concede qualche virtuosismo nella seconda parte del film, in particolare nel disgnare una Roma dark e senza salvezza, in cui Alex può trovare rifugio dall’acquazzone improvviso solo all’interno della tetra – e molto discussa – statua cava raffigurante Giovanni Paolo II nei pressi di Termini. Il finale è frenetico e d’impatto, ma al film manca, come in molti lavori di una certa scuola romana, il tentativo di trovare un’alternativa al solito “ce la faremo, nonostante tutto”.

Felicità (Micaela Ramazzotti)

Lo stesso leitmotiv si ritrova nel film in cui esordisce da regista Micaela Ramazzotti. L’artista romana è sia dietro che davanti alla cinepresa e interpreta un ruolo che sa di deja-vu: quello della coatta un po’ ingenua ma dal cuore molto grande. Desiré lavora come truccatrice sui set cinematografici, ha un fidanzato e una famiglia complicata. Il fratello soffre di bipolarismo e vive ancora con i genitori che minimizzano il suo disturbo e vivono egoisticamente in un mondo di frasi fatte, bei tempi che furono e patetiche illusioni. Il padre in particolare, sogna ancora di sfondare in televisione partecipando gratis a squallidi show su una rete locale. Desiré cercherà di aprire gli occhi ai suoi genitori sulle condizioni del fratello, ma finirà vittima di ricatti morali e una condizione familiare tossica, che finiranno per gravare anche sul rapporto con il compagno. Il film è un escalation di miseria umana quasi insopportabile, di cui il personaggio di Desiré è catalizzatore e propagatore. Max Tortora è efficace nel ruolo del padre manipolatore, al pari di Anna Galliena nel ruolo della madre fatalista e succube dei sogni del marito. Matteo Olivetti, dopo l’esordio coi fratelli d’Innocenzo e la recente apparizione nell’originale Disco Boy, si conferma il nuovo volto del buon coatto del cinema italiano.

Adagio (Stefano Sollima)

Stefano Sollima è invece il papà burbero del cinema italiano, quello che ti strofina il muso contro la violenza che sta alla base del nostro sistema. I suoi film raccontano spesso il mondo criminale con ruvidità, facendone emergere figure epiche e controverse. Soprattutto i confini tra bene e male non sono mai così nettamente distinguibili. Ce ne aveva dato prova in ACAB All Cops Are Bastards, raccontando la storia di agenti di polizia antisommossa a Roma, in seguito con il pluripremiato Suburra, da cui verrà tratta la serie di successo. Ora la trilogia sulla capitale criminale si conclude e la città assume tutti i contorni di una vera e propria Gotham. Un enorme incendio è divampato nella periferia, illuminando a giorno lo skyline notturno della città. L’elettricità va e viene, lasciando per diversi minuti interi quartieri nell’oscurità. Un ragazzo si prepara ad andare a una festa esclusiva, dove dovrà fare da esca per un gruppo di poliziotti corrotti. Ma qualcosa va storto e Inizia così un viaggio nel ventre nero della città, che risveglierà “vecchie glorie” del crimine romano, apparentemente assopite. Adagio è un film solido, diretto con mano esperta da chi ha fatto assaggiare di che pasta è fatto anche a Hollywood (Soldado e Without remorse) e l’esperienza oltreoceano pesa in termini di credibilità. A tratti però il film sembra perdere slancio e non sfrutta del tutto il potenziale della trama. Come nel film di Parroni e di Ramazzoti, anche qui ci sono generazioni a confronto, quella tra vecchi criminali ormai in rovina e nuove leve per cui c’è ancora spazio per la redenzione. Curioso vedere Servillo nei panni di un uomo d’azione, mentre Mastandrea e Favino rispolverano quanto già potuto vedere in film come L’odore della notte di Caligari o la serie Romanzo Criminale. Molto azzeccata infine la colonna sonora, nata dal sapere elettronico dei redivivi Subsonica.

Roma quindi si prende la scena ancora una volta, dipinta a tinte fosche, quale luogo purgatoriale (se non infernale) da cui non sembra esserci via di uscita. Il limite di questa nuova filmografia (in cui ci metto anche i fratelli D’Innocenzo) è quello di non andare oltre la fotografia impietosa di una situazione. Il cinema pone interrogativi, non dà risposte, ma può provare a fornire ogni tanto nuovi orizzonti.