Nessuno ci crede, che i marinai di vascello guardassero sempre la linea dell’orizzonte. Sui ponti inferiori l’atmosfera è soffusa, e ci sono i fratelli Lumière a scancherare sulle loro immagini in movimento. Così almeno sfoglia il tempo. Fan finta che la vita non abbia parti morte.

Quattro Balenieri si sono intrufolati nell’ultimo viaggio del Pequod, scesi poco prima del vortice bianco. Hanno fatto in tempo a riportare i gusti di visione di quelli là. Che sono, badate bene, assai raffinati.


The X saga, Ti West, 2022- (Massimo Cotugno)

Che l’horror stia attraversando una seconda giovinezza è ormai un dato di fatto. il sottogenere da home video è diventato un fenomeno trainante in grado, in alcuni casi, di salvare gli incassi dei cinema. Specie quelli art horror sfornati dalla casa newyorkese A24. Ma con Ti West e la sua X saga (che consta al momento di 2 capitoli, X – A Sexy Horror Story e Pearl, il prequel) siamo lontani dall’horror intellettuale alla Midsommar (2019) di Ari Aster o The Lighthouse (2019) di Robert Eggers. Le ispirazioni dei film di West vanno ricercate nello slasher più brutale dei padri fondatori, da Tobe Hooper (The Texas Chainsaw Massacre, 2003) a Wes Craven (Le colline hanno gli occhi, 1977) fino a Rob Zombie (La casa dei 1000 corpi, 2003). C’è anche posto per citazioni di classici come Psycho (1960) di Hitchcock, in questa saga che ha come tema centrale la ricerca del successo, il desiderio di essere speciali. E Mia Goth, l’attrice protagonista di entrambe le pellicole, speciale lo è davvero. X – A Sexy Horror Story è ambientato negli Anni ‘70 e segue le vicende di una piccola troupe intenta a girare un porno nel fienile di una sperduta campagna statunitense. Mia Goth interpreta Maxine, giovane attrice disposta a tutto pur di diventare famosa. Come da tradizione, il mondo rurale americano saprà regalare un ingente numero di squartamenti, grazie a folli redneck e coccodrilli insaziabili. Ti West è abilissimo nel rielaborare i topoi del genere, riproponendo schemi collaudati senza mai scadere nell’ovvio, come se assistessimo al remix di un bravissimo DJ. Il pezzo suona benissimo, anche se non è originale. Con Pearl però la musica cambia. Siamo agli inizi del Novecento e una ragazza di campagna sogna di sfuggire a una vita senza sbocchi inseguendo il mito del successo. Per ottenere ciò che vuole dovrà solo far fuori un po’ di persone. Mia Goth regge la scena da sola, candidandosi a nuova icona del cinema horror, Barbara Steele del ventunesimo secolo.


La Ricerca, Giuseppe Petruzzellis, 2023 (Elisa Teneggi)

Luigi Lineri è nato nel 1937 e colleziona pietre. No, non è esatto: le ricerca, le cataloga per forma nel suo atelier con metodo rigorosamente ascientifico (parole sue). Le caccia sul vecchio greto dell’Adige, che, dopo che il corso del fiume è stato deviato, ha rivelato un pezzo di terra nascosto per secoli, forse millenni. “Saxa loquuntur” dicevano i latini, “i sassi parlano”. Lineri cerca delle piccole chiavi per interpretare la loro lingua, sbozzata dagli elementi e forse, prima ancora, dal lavoro paziente dei nostri antenati, che plasmavano le rocce a somiglianza delle divinità minori del loro mondo: pesci, pecore, fertilità e via dicendo. La collezione di Lineri è attiva dal 1985, ma è solo in anni recenti che alcune parti di essa hanno lasciato l’atelier alla volta di varie mostre internazionali. E da quest’anno, grazie a La Ricerca, documentario sperimentale di Giuseppe Petruzzellis che presenta Lineri e il suo lavoro, possiamo conoscerla anche noi. Godendo di un documento umano autentico e poetico, affidato alla narrazione di Lineri e al suo sapere antico, legato intimamente con la terra. La Ricerca è una visione affascinante, fuori dagli schemi, e uno spunto di riflessione importante sul rapporto corrente tra uomo e natura, premiato prima a Visions Du Réel 2023 (Nyon, Svizzera) con il Premio Speciale della Giuria Giovani e poi al Biografilm Festival 2023 di Bologna con la menzione speciale Hera “Nuovi Talenti”. Completa un viaggio unico la colonna sonora originale di Nicolás Jaar, metà del duo elettronico Darkside e riconosciuto produttore e compositore nel panorama internazionale. Da vedere appena possibile.

Il trailer ufficiale de La Ricerca

Pacification, Albert Serra, 2022 (Pier Giovanni Adamo)

Fino a questa primavera, nonostante i reiterati inviti di amici affidabili a recuperare almeno Història de la meva mort e Liberté (2013), di Albert Serra si era visto solo La Mort de Louis XIV (2016). Si fibrillava così da un annetto in attesa dell’uscita di Pacifiction, presentato a Cannes nel 2022 e approdato nelle sale nostrane solo a metà maggio. Per rimanerci giusto qualche giorno, il tempo di raccogliere poco più di ventimila euro e poi sparire. Destino certamente ingiusto e deprimente per un film così clamorosamente bello e seduttivo, eppure in altri termini l’unico destino possibile: quello dell’apparizione. Perché dall’inizio alla fine Pacifiction si guarda come fosse una fatamorgana, con la vampa del cielo che confonde i tramonti e le albe, le improbabili architetture abbandonate nei cui vetri si specchia una copia in plastica della giungla, corpi nudi impegnati in danze incantatorie (ma potrebbero essere fantasmi), la pioggia che incomincia a cadere a comando e le onde colossali che vanno a perdersi all’orizzonte. Un vero miraggio in alta definizione.

Rifacendo Le Rivage de Syrtes di Julien Gracq in versione postcoloniale e transgender, Serra inventa un film di pulsazioni sensoriali pure intorno ai “tormenti sulle isole” – questo il sottotitolo originale – di De Roller, l’alto commissario della Repubblica nella Polinesia francese interpretato da un paradigmatico Benoît Magimel. Tra la popolazione di Tahiti, infatti, si è sparsa la voce che al largo della costa si aggiri un misterioso sottomarino in vista della ripresa dei test nucleari sull’isola. Spaesato e intraprendente allo stesso tempo, De Roller indaga suscitando sospetti, solidarietà e deliri d’onnipotenza nei criptici personaggi che abitano l’isola, e che assomigliano più a pedine di un gioco di ruolo che a persone reali. Man mano che il film (di)mostra l’inconsistenza del potere e l’artificio dietro cui si nasconde ogni desiderio, il protagonista scivola in una condizione di radicale incertezza esistenziale (suggerita dalla magnifica scena bluastra del nightclub, Paradise ritrovato fin nel nome): non sarà forse lui stesso l’effetto di un’allucinazione collettiva? Anzitutto del pubblico, che magari in futuro avrà tempo per farsi ammaliare da Pacifiction: come prova l’ambigua relazione tra De Roller e la sua assistente Shannah, quello immaginato da Serra è un ecosistema talmente provocante e inattendibile che si finisce per innamorarsene per eccesso di paranoia. Proprio come è impossibile resistere al richiamo ancestrale dei crepuscoli oceanici quando il cielo e il mare hanno lo stesso colore dei neon da discoteca.


Un bel mattino, Mia Hansen-Løve, 2022 (Giacomo Tinti)

Uno sguardo profondo e rassegnato, un sorriso meraviglioso e malinconico: è Léa Seydoux, completamente spogliata di ogni glamour ed essenza erotica, catapultata nell’anonima quotidianità di Sandra, una traduttrice parigina che vive un’esistenza fittizia e precaria.
La protagonista dell’ultimo film di Mia Hansen-Løve si muove incessantemente per le vie di una Parigi dai colori caldi e soffusi, tra il dovere di crescere una figlia e il dolore di affrontare la rara malattia del padre, che giorno dopo giorno divora la sua brillante mente. Non c’è più spazio per l’amore, soffocato da cinque lunghi anni di lutto per la scomparsa prematura del marito. 
Ma l’incontro, inatteso e casuale, con un vecchio amico, il “cosmo-chimico” Clément (Melvil Poupaud) in piena crisi coniugale, stravolge il suo equilibrio e le offre una rinascita amorosa, una speranza, un nuovo meritassimo sapore di vita, senza però sfuggire alle pene d’amore. 
Un bel mattino è un film sulla bellezza, sull’imprevedibilità e sulla tragicità dell’esistenza umana. Un racconto carnale fatto di passione e di affetti, di lacrime e smarrimenti. Mia Hansen-Løve non ha paura di ispirarsi alla sua storia personale, il padre fu infatti colpito dalla rara sindrome di Benson, e apre una finestra sulla quotidianità di una donna che mette in gioco tutta se stessa, reclamando la propria gioia di vivere. La regista francese si muove con disinvoltura e delicatezza, senza mai invadere l’intimità dei suoi personaggi. Lo spettatore si immedesima con pathos nelle dinamiche quotidiane: dall’umiliante ricerca di una degna stanza per il padre malato, alla dolcezza e spontaneità negli sguardi e negli amplessi tra Sandra e Clément. 
Léa Seydoux risplende di un fascino malinconico. È sontuosamente discreta e naturale, perfettamente calata nel disegno di Hansen-Løve, ed è capace di vivere senza remore un’esistenza fatta di sofferenza e passione ardente.
Un bel mattino è un racconto sinuoso, realista e dolceamaro, che affronta il dolore esistenziale ma non rinuncia al romanticismo puro e privo di qualsiasi sentimento retorico. È una bellissima finestra che si apre sulla quotidianità della vita, capace di emozionare e di far accettare due sentimenti alla base dell’esistenza stessa: l’amore e il dolore.
La vita di Sandra è una rinascita continua, sofferta e meritata, tra un uomo che lascia e un altro che entra. Che ne rimane di tanto dolore taciuto, di lacrime spezzate e singhiozzi interrotti? 
Solo i bei ricordi, gli affetti e gli amori presenti, compagni sempre fedeli al risveglio, in un bel mattino.