Immaginiamo di aprire il libro Qualche mese della mia vita e, per disattenzione o pigrizia, di cominciare a leggerne qualche pagina senza aver notato sulla copertina il nome del suo autore: Michel Houellebecq. Immaginiamo di sfogliare per un quarto d’ora le pagine di questo diario (romanzo?) scritto frettolosamente, disconnesso, destrutturato e spesso confuso nelle sue divagazioni: che genere di esperienza faremmo, conoscendo poco o nulla del contesto in cui questo libro è stato pubblicato? Non appena dovessimo scoprire che si tratta di un libro di Michel Houellebecq, ovvero inserendo l’opera nel suo contesto, tutto diventerebbe immediatamente più chiaro: Qualche mese della mia vita descrive infatti il periodo compreso tra gli ultimi tre mesi del 2022 e Aprile 2023, in cui l’autore si è ritrovato al centro di alcune controversie mediatiche: la prima legata a dei commenti sulla comunità musulmana francese rilasciati in un’intervista con Michel Onfray, la seconda riguardante quello che in rete viene spesso definito il “porno di Houellebecq”.

L’autore famoso per aver scritto Le particelle elementari, Possibilità di un’isola, La carta e il territorio ha infatti acquistato una certa fama anche al di fuori degli ambienti letterari a causa di alcune posizioni problematiche sull’Islam presentate, a detta di alcuni, soprattutto nel romanzo Sottomissione. Considerato, quindi, che le controversie legate alla sua percezione dell’Islam non sono nuove, è piuttosto sorprendente constatare come la maggior parte delle pagine di Qualche mese della mia vita siano invece dedicate al cosiddetto “porno di Houellebecq”.

Prima di gridare alla “deriva” di un autore che fin qui non si era mai preso troppo sul serio – basti pensare agli autoritratti che fa di sé ne La mappa e il territorio e in film come Il rapimento di Michel Houellebecq e nel più recente Thalasso, dove recita nel ruolo di sé stesso – è anche qui necessario vedere il “porno di Houellebecq” nel suo contesto. Quello che superficialmente è venuto a galla è che KIRAC (Keeping It Real Art Critics), un collettivo artistico di Amsterdam capitanato da Stefan Ruitenbeek e Kate Sinha, avrebbe invitato Houellebecq ad avere rapporti sessuali con alcune ragazze di Amsterdam disposte ad incontrarlo, a patto di poter filmare il tutto. Lo scorso gennaio viene rilasciato un trailer che annuncia l’uscita del documentario l’11 marzo 2023, a cui segue, fulminea, la denuncia di Michel Houellebecq e sua moglie Lysis Li, che pure avrebbe preso parte alle riprese. Nel trailer, la voce fuoricampo di Stefan Ruitenbeek sostiene che Li abbia dovuto annullare un tour di prostitute organizzato per il marito in Marocco per paura che venisse rapito da estremisti islamici: il ripiego sarebbe stato quello di accettare la proposta di Ruitenbeek e recarsi ad Amsterdam negli ultimi mesi del 2022.

In Qualche mese della mia vita, Houellebecq descrive le sue interazioni con Ruitenbeek, Sinha e con alcune ragazze, ritenendo di essere stato raggirato con un contratto retroattivo e costruendo attorno a sé un’immagine di inetto letterario che non convince del tutto, e ricorda un po’ troppo quella di un Baudelaire, citato più volte nel libriccino, che nella sua abiezione di poeta maledetto doveva comunque farsi raccomandare dalla madre di comprarsi delle scarpe nuove con le suole di gomma. Molto spesso, infatti, sia nel contesto delle controversie con Onfray che con KIRAC, Houellebecq insiste sulla sua ingenuità pratica, sulla sua mancanza di documentazione, sulla poca attenzione prestata ai contratti da lui firmati e al materiale inviatogli da Ruitenbeek per documentarsi su cosa fosse KIRAC, nonché sul genere di film a cui gli si chiedeva di partecipare (pp. 9-10, p. 18, p. 40, p. 61, p. 91, ). Anche assumendo, però, che l’inettitudine dell’autore non sia una semplice posa letteraria, rimane abbastanza sconcertante la scarsità di informazioni che Houellebecq mostra di possedere (o di voler rilasciare) sui suoi nemici, al di là degli insulti.

Involontariamente o meno, dunque, il lettore ipotetico di Qualche mese della mia vita viene ancora una volta privato del contesto più ampio di cui la vicenda fa parte. Che cos’è, dunque, KIRAC? E perché il loro ventisettesimo film, in cui sarebbe dovuto comparire Houellebecq, oltre a non essere semplicemente un “porno”, avrebbe potuto (e forse potrà ancora, se le vicende legali si risolveranno in loro favore) essere particolarmente interessante? KIRAC si definisce un collettivo artistico; sul loro sito si legge: «our core business is making films». Più difficile è invece definire che genere di film siano, questi strani prodotti a metà tra fiction e documentario, in cui è spesso difficile capire che cosa sia reale e che cosa no. Nel corso del tempo, infatti, il progetto è cambiato molto: se nei primi film assistiamo più che altro a brevi riflessioni di Ruitenbeek e Sinha su opere d’arte altrui o sull’allestimento di mostre d’arte, negli ultimi, più lunghi e complessi, si può notare un graduale allargamento di campo, in cui si passa da una critica delle opere a una critica dei critici delle opere, a una critica di tutto quel mondo apparentemente periferico fatto di scuole d’arte, collezionisti, mercanti, cacciatori di fondi, che costituisce – di nuovo – l’ambiente e il contesto in cui un’opera d’arte riesce ad emergere in quanto tale.

Va precisato che alcuni dei primi episodi sono forse invecchiati male. Ad esempio, i film in cui Ruitenbeek e Sinha scatenano tutta la loro abilità analitica contro alcuni galleristi difensori di identity politics, pur mettendo a nudo alcune meccaniche di sfruttamento di tematiche politiche e sociali nel mondo dell’arte, non riescono a nascondere un certo autocompiacimento con cui, nella seconda metà degli anni 2010 andava di moda esporre le contraddizioni interne (spesso effettive) di una certa frangia del mondo accademico, intellettuale e artistico odierno. Altri però – e si tratta della maggior parte – gettano luce in modo disarmante sul mondo dell’arte e, soprattutto, sulla sua complessità: l’ottavo film, ad esempio, offre un ritratto sfaccettato del collezionista d’arte Stefan Simchowitz e lo stesso avviene, dal sedicesimo film in poi, nel mostrare il complicato rapporto che Ruitenbeek e Sinha costruiscono con il loro mecenate, Philip van der Hurk. KIRAC infatti, in quanto progetto artistico, non si sottrae all’occhio critico che rivolge ai suoi soggetti: se nessuna opera nasce nel vuoto, la stessa cosa vale per KIRAC, che nella sua relazione con Philip van der Hurk mostra (o mette in scena?) le dinamiche che intercorrono fra gli artisti e i loro protettori – ovvero il tentativo degli artisti di sedurre i protettori perché supportino i loro progetti, e quello dei protettori di veder riconosciuta e legittimata la propria sensibilità da parte degli artisti. Lo sguardo critico di KIRAC si estende quindi dalle opere fino alla vita personale delle tante persone che partecipano al progetto, includendo nella costruzione dei documentari tanto le liti con van der Hurk che la nascita dei figli di Ruitenbeek e Sinha – senza timore di mostrare tutto ciò che, quindi, costituisce il contesto, materiale e non, in cui KIRAC, in quanto opera d’arte, viene alla luce.

Per tornare al “porno di Houellebecq”, quindi, chi conoscesse un po’ KIRAC avrebbe potuto aspettarsi qualcosa di più di un porno. Anche gli episodi più sessualmente espliciti, come il ventitreesimo, Honeypot, la cui idea centrale è quella forse un po’ sensazionalistica di riprendere un incontro fra una studentessa di sinistra e un filosofo di estrema destra, non si lasciano mai andare a un voyeurismo superficiale, cercando invece di espandere il più possibile il contesto in cui avvengono le riprese e di ritrarre le parti in causa da quante più prospettive possibili. La potenziale importanza di KIRAC 27, dunque, sarebbe quella di poter fotografare, prendendo come soggetto un grande autore come Houellbecq, l’interdipendenza fra arte e vita, fra arte e suo contesto, che peraltro è esattamente il centro di uno dei migliori romanzi dello scrittore francese, La carta e il territorio, in cui l’artista Jed Martin dipinge un ritratto proprio di Michel Houellebecq – e in cui lo stesso Houellebecq, descrivendosi, offre di sé un’immagine squallida, a tratti comica, forse non del tutto corrispondente alla realtà ma in linea con una certa percezione pubblica del suo personaggio. La letteratura ha spesso giocato con questa interdipendenza, includendo il suo autore all’interno dell’opera, raccontando, espandendo, moltiplicando la sua biografia, e KIRAC ha fatto di questo gioco il centro della maggior parte dei suoi documentari, mostrando l’interdipendenza tra chi compra, vende e pubblicizza arte e chi la produce, come pure tra chi compra, vende e pubblicizza KIRAC e la vita di chi lo filma.

La domanda che KIRAC 27 potrebbe porci – mostrandoci uno Houellebecq spesso accusato di misoginia in un rapporto esplicito con una o più donne – così come la domanda che ci poniamo tutt’ora leggendo le interviste che contengono affermazioni controverse dello stesso Houellebecq (e come esse pure gli epistolari, le note biografiche e gli aneddoti che gravitano intorno alle opere di qualsiasi artista) è centrale: si può qualificare un autore in base alla sua opera, o un’opera in base al suo autore? Si può leggere un’opera indipendentemente da tutto ciò che rappresenta il suo contesto – da quello più immediato della vita fisica e mentale del suo autore, fino a quello più ampio della sfera sociale di cui l’autore fa parte – oppure no? Schierarsi semplicemente per una delle due posizioni, fruendo le opere senza considerarne il contesto, o non fruendole affatto proprio a causa del contesto, pare troppo semplice. Di questo, i membri di KIRAC sembrano essere consapevoli: per KIRAC rappresentare l’interdipendenza fra arte e contesto non solo non è problematico, ma è parte stessa del processo creativo. Kate Sinha, in questo senso, durante il processo Houellebecq, ha usato parole molto lucide per descrivere in che modo il trailer di KIRAC 27 sia stato messo assieme:

Quel trailer è nato nella nostra vita reale. In quel periodo, io stessa stavo partorendo. Mio figlio aveva tre settimane quando ho scritto il trailer, e il trailer è un’opera d’arte in cui rifletto sul fatto che queste vicende sono intrecciate tra loro, […] un’opera d’arte in cui si mostra il mio stesso sacrificio: mentre io sono nella prima settimana dopo il parto, mio marito è con Houellebecq a girare ad Amsterdam con Jini e Isa [due ragazze incontrate da H.], e anche Lysis fa un sacrificio simile per suo marito, preparando delle donne per lui. Il trailer è un’opera d’arte sul genere di sacrifici – per alcune persone bizzarri – che le donne fanno per gli uomini che amano. […] Sono scioccata dal fatto che la sensibilità che sento di aver messo in quel trailer non sia arrivata al signor Houellebecq, perché il trailer mostra anche il modo in cui trattiamo le questioni intime come il parto nei nostri film. Per esempio, io ho subito un’episiotomia durante il parto, ma non è qualcosa che abbiamo evidenziato nel trailer, del tipo: guardate com’è esplicito. Penso che si possa estendere questo discorso anche al materiale erotico [in KIRAC 27]. Non lo stiamo trattando come paparazzi in cerca di qualcosa di sensazionale. Voglio dire, siamo artisti e pensiamo che sia materiale importante. E, in questo, abbiamo un senso dell’onore.

Ciò che KIRAC e in parte Houellebecq hanno mostrato separatamente con le loro rispettive pratiche artistiche, e ciò che tutt’ora potrebbero mostrare assieme in KIRAC 27, quindi, è che, così come la vita di un autore può modificare e illuminare il significato di un’opera, allo stesso modo l’opera, inserendosi come evento nella vita di un autore e, eventualmente, in quelle dei suoi fruitori, a sua volta cambia e trasforma queste vite. In questo senso si può parlare di un rapporto di interdipendenza tra arte e vita, tra arte e suo contesto – ovvero di una relazione in cui arte e vita si riqualificano costantemente a vicenda in un rapporto dinamico. Volendo avventurarsi in una similitudine per descrivere questa interdipendenza, si potrebbe immaginare l’opera d’arte come la massa di un corpo nuovo che, comparendo all’improvviso nello spazio e prendendovi posto, lo pieghi e lo ristrutturi attorno a sé: lo spazio piegato, il contesto, è parte dell’opera in quanto le sue deformazioni possono rivelarcene le caratteristiche, ma allo stesso tempo la presenza dell’opera riqualifica e ridetermina costantemente lo spazio in cui essa si inserisce. Così, ad esempio, il fatto che Kate stesse partorendo contestualizza e informa il trailer di KIRAC 27, e il trailer, esprimendo qualcosa sull’esperienza di questo parto come sacrificio, ne trasforma il significato.

Se quindi è vero che la vita qualifica l’arte e l’arte qualifica la vita, allora da una parte tutto può essere incluso nell’opera di un artista (dalle caratteristiche della lingua al contesto storico in cui si trova a lavorare, ai suoi scambi epistolari, aneddoti raccontati e, oggi, alle sue apparizioni in foto o video); dall’altra parte, però, come Houellebecq ha forse voluto suggerire ne La carta e il territorio, e in alcune sue dichiarazioni al processo in cui si sarebbe definito un “attore” all’interno di KIRAC 27, tutto, nella vita di un autore, può essere considerato parte di un’unica performance artistica – anzi, dell’unica possibile: la performance di una vita, in cui l’opera realizzata, visibile, presentata al pubblico, non rappresenta altro che la parte emersa, infinitesimale, di quell’enorme massa capace di deformare lo spazio del suo tempo, dei tempi precedenti e di quelli a venire che è la vita di un individuo. Una performance infinitamente complessa, questa, in cui, come nella vita di Houellebecq e dei membri di KIRAC, c’è spazio anche per il male, la debolezza, l’inganno e la bassezza, perché anche tutto questo fa parte della vita.

Houellebecq, però, per qualche mese della sua, di vita, sembra essersene dimenticato. Di certo, il libriccino che ci ha lasciato ci dirà qualcosa sulla sua opera, se collocato nel contesto più ampio di tutto ciò che accadrà poi – incluso KIRAC 27, che mi auguro riusciremo a vedere. Varrà forse anche per lui quello che egli stesso ha scritto di Thomas Mann (p. 81)? Crolleranno i grandi edifici dei suoi romanzi? Forse no: ma resterà comunque fra di essi anche questo libretto a rivelare, insieme con tutto il resto, chi sia stato veramente Michel Houellebecq. Resterà anche questo libretto non necessario, di cui in realtà non vale la pena di parlare al di fuori del suo contesto, questo libretto pieno di insulti, di lamentele infantili e paragoni gonfiati, il cui autore, che forse avrebbe voluto avere, di un Baudelaire, l’ironia, il fascino e soprattutto la capacità suprema di sorvolare con la scrittura le proprie nefandezze e i propri errori, scopre ancora una volta di poter essere solo il personaggio di un suo stesso romanzo – nel caso di Houellebecq, forse, il comico Daniel di Possibilità di un’isola, che, pur avendo dedicato la performance della sua vita a scrivere spettacoli e film di satira politicamente scorretta, alla fine è costretto a riconoscere che “la vita, in fondo, non è comica” (p. 318).


Michel Houellebecq, Qualche mese della mia vita, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, Milano, La Nave di Teseo 2023, 15€, 124 pp.