La notizia si diffonde all’inizio dell’anno: Quentin Tarantino sarebbe passato da Brescia per un incontro esclusivo al Teatro Grande, in cui avrebbe presentato il suo primo saggio in assoluto sul cinema. È il grande colpo della da poco inaugurata Capitale della cultura 2023. Niente Roma o Milano. Il regista di Pulp Fiction avrebbe fatto la sua unica data italiana del tour promozionale a casa della Leonessa. Inutile dire che il popolo di cinefili tra il Garda e la Val Trompia – compreso il sottoscritto – si è sentito finalmente un po’ meno nella periferia della cultura. Il giorno dell’apertura delle biglietterie per l’evento, il sito che gestiva le vendite online va in crash in pochi minuti, mentre una fila monstre di locali – tra cui il sottoscritto – tenta la via offline attendendo pazientemente davanti al Grande. Tre ore di coda e infine l’ingresso della biglietteria a pochi passi, quando due giovani in mantellina annunciano che tutti i biglietti – tutti, persino la piccionaia per melomani – sono venduti. Avrei dovuto quindi rassegnarmi e attendere come il resto d’Italia l’uscita nelle librerie di Cinema Speculation.

Il libro è un tomo voluminoso, in cui Tarantino ci racconta per la prima volta la sua versione del cinema attraverso una serie di pellicole esemplari. Ci si accorge però fin dalle prime pagine che l’intento del regista non è quello di abbracciare l’intero arco della storia della settima arte, ma di concentrarsi su quella che considera la sua personale âge d’or: i favolosi anni Settanta, naturalmente. Non c’è infatti alcuna enciclopedica volontà in Tarantino, e nemmeno un’aspirazione all’oggettività. Si tratta appunto di speculation, che il Cambridge Dictionary definisce “the activity of guessing possible answers to a question without having enough information to be certain”. Ed è questo paradossalmente l’aspetto più godibile del libro di Tarantino. Il regista, senza troppi preamboli, è come se ci conducesse nella sua vecchia videoteca – in una, da giovane, ci lavorò davvero – e, con in mano una birra, estraesse dagli scaffali polverosi alcune videocassette, snocciolando ricordi, aneddoti e una competenza dell’industria cinematografica da vero nerd.

Quella di Tarantino è una giovinezza passata a frequentare precocemente le sale buie dei teatri di Los Angeles, insieme a una madre che lo svezza a suon di film da adulti, a patto che il piccolo Quentin stia alle regole: niente domande durante la proiezione.  Così un ragazzino di sette anni assiste a La guerra del cittadino Joe, di John G. Avildsen, pellicola che racconta la storia di un padre alla ricerca della figlia che si è unita a una comunità hippie dedita alle droghe. L’educazione di Tarantino procede veloce con una carrellata di film incredibili per un minorenne: La trilogia del dollaro di Sergio Leone, Il Padrino, Ispettore Challaghan: il caso Scorpio è tuo!, Il braccio violento della legge, Bullit. Questi sono solo alcuni dei titoli che formano l’immaginario di un ragazzo che osserva il mondo degli adulti e lo assorbe come una spugna. Quello che Tarantino restituisce nella sua storia è l’importanza della comunità degli spettatori di cinema. L’autore ricorda tutte le sale in cui è stato, offrendoci una mappa dei teatri losangelini (e non solo) che va dal Tiffany all’Orpheum, nella downtown in cui negli anni settanta i cartelloni erano pieni di film della cosiddetta blaxploitation. È proprio assistendo a uno di questi film, Black Gunn di Jim Brown, che Tarantino vive un’esperienza, che, divenuto regista, cercherà per sempre di ricreare: «Nella scena in cui Bruce Glover e gli altri scagnozzi bianchi minacciano Jim Brown seduto sulla sua scrivania, lui schiaccia un bottone sul pavimento e gli cade in mano un fucile a canne mozze, il pubblico di maschi neri reagì con un entusiasmo che fino a quel momento non avevo mai visto in nessuna sala cinematografica. E considerato il fatto che vivevo con una madre single, si trattò probabilmente della esperienza di mascolinità più intensa a cui avessi mai partecipato». Il pubblico e la sua reazione è quindi, secondo Tarantino, fattore fondamentale per comprendere l’efficacia di una storia al cinema, oltre che per catturare lo zeitgeist di un’epoca. A tal proposito, esemplare è un altro passaggio del saggio, in cui ci viene descritta la reazione della sala a una scena cult di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo!: «In una scena, Scorpio (Andy Robinson), il cattivo ispirato al vero killer dello Zodiaco, sta su un tetto, puntando il suo fucile da cecchino su un parco di San Francisco. Improvvisamente, tra le tacche del mirino appare un omosessuale nero che indossa uno sgargiante poncho viola ed è insieme a una specie di cowboy baffuto molto simile al personaggio di Dennis Hopper in Easy Rider (…). Quando ero un ragazzino, come facevo a sapere che il tipo col poncho era gay? Perché almeno cinque spettatori sghignazzarono dicendo: “è una checca!” Compreso il mio patrigno Curt. E continuarono a ridere per le sue mossette, anche se veniva inquadrato dal mirino di un serial killer (…). In realtà potrei dire che alcuni spettatori, in quel momento, speravano che gli sparasse». Il popolo del cinema che si raduna nelle sale buie negli anni settanta è avido, impaziente e alla ricerca di esperienze forti. Protetto dall’anonimato dell’oscurità si lascia andare a esternazioni ed entusiasmi che restituiscono tutti gli umori tumultuosi di una nazione piena di contraddizioni. Lo sapeva Martin Scorsese che, nel suo capolavoro Taxi Driver, ci mostra un Travis Bickle assiduo frequentatore di cinema di film a luci rosse, in cui decide di portare la sua nuova fiamma per un dopocena romantico. Nel libro, Tarantino racconta un divertente aneddoto su come Taxi Driver fosse stato accolto dal pubblico “caldo” di alcune sale, specie quelle con un pubblico a maggioranza nera. Il film, ai tempi, veniva proposto nel filone dei revengematics, film di vendetta, in doppia visione con pellicole che i distributori promuovevano per la loro analogia, come Il Reduce, che aveva una frase di lancio come “Il reduce non si arrabbia… Pareggia i conti!”. Tarantino vide così Taxi Driver per la prima volta in quella che fu la sua grindhouse preferita, il Carson Twin Cinema, e ci racconta le inaspettate reazioni del pubblico. «Fin dall’inizio, il pubblico pensava che Travis Bickle fosse fuori di testa. Lo trovava ridicolo. Più il film andava avanti e più Travis si comportava in modo folle, e più ci sembrava buffo. Ma oltre che un fuori di testa, pensavamo anche che fosse uno sfigato (…). Dubito che al Grand Palais di Cannes (dove vinse la Palma d’Oro ndr) venne accolto da tante risate come quel sabato pomeriggio in un sobborgo di Los Angeles». Sia ben chiaro: Tarantino mostra per Taxi Driver, Scorsese e lo sceneggiatore Paul Schrader un’ammirazione sconfinata, tanto da dedicare all’opera ben due capitoli del libro. In uno di questi, intitolato “Una speculazione cinematografica. Se il regista di Taxi Driver fosse stato Brian De Palma” il regista si cimenta in un curioso gioco alla What if?, immaginando cosa ne sarebbe stato del film iconico di Scorsese nelle mani del regista di Carrie. La speculation nasce da un episodio realmente accaduto: Paul Schrader propose la sceneggiatura del film prima a De Palma, che la rifiutò trovandola poco commerciale.

Tarantino ci racconta il suo privato pantheon di registi e attori e lo fa senza filtri, con la sfrontatezza e la spacconaggine di uno dei suoi personaggi. Fa classifiche di attori arbitrarie, stronca recitazioni con un paio di frasi a effetto, non si cura di essere oggettivo nella sua analisi. Quella del regista non è però una scarsa competenza in fatto di critica del cinema, ma è una vera e propria scelta stilistica. A prova della sua grande conoscenza in fatto di critica, Tarantino interrompe l’analisi dei film esemplari, inserendo un capitolo su una serie di critici cinematografici (da Vincent Canby del New York Times a Roger Ebert del Chicago Sun-Times), soffermandosi in particolare sui giornalisti che si sono avvicendati a partire dagli anni Settanta a capo della rubrica di cinema del Los Angeles Times. Attraverso estratti dalle recensioni di film che lo stesso Tarantino prende in esame nel libro, il regista di Django Unchained racconta di giornalisti come Charles Champlin, «che recensiva film così come avrebbe venduto auto usate», o Sheila Benson, le cui recensioni sono liquidate in maniera sessista come «le relazioni di una casalinga sui libri che aveva letto per un corso serale di letteratura americana». Ci sono poi parole di grande stima per il lavoro di Kevin Thomas: «Fu grazie a lui che conobbi Russ Meyer, Jess Franco e Dario Argento». Pare che l’ultimo film di Tarantino si intitolerà “The movie critic”. Che sia ispirato a Thomas?

Cinema Speculation è quindi molte cose insieme: è un’ode a un’epoca del cinema, quella degli anni Settanta, in cui registi feroci come Peckinpah e Don Siegel offrono a un pubblico affamato una dose di violenza senza lieto fine, in contrapposizione alla cinematografia del decennio successivo, vista da Tarantino come triste e accomodante. Ma questo libro è anche un tuffo sincero nei ricordi e un vademecum per nuovi appassionati di cinema, senza edulcorazioni, presentando l’arte di fare cinema come un fatto di soldi, fortuna, idee, prepotenze, sfighe e ancora soldi, che in un modo o nell’altro portano alla generazione di film imperdibili o anche solo di pellicole che funzionano.

Quentin Tarantino, Cinema Speculation, Milano, La nave di Teseo, 2023, 20€, 445 pp.