Se fossimo su Netflix, potremmo trovare La vita intima di Niccolò Ammaniti (Einaudi, 2023) nella categoria “commedie italiane”, non in quanto analoga alla storica commedia all’italiana, ma come opera d’intrattenimento di tono leggero situata in Italia. La storia comprende ingredienti tipici del genere, dosati con cura: un’ambientazione contemporanea con riconoscibili note fiabesche; un umorismo diffuso che non arriva alle punte amare della satira; un pizzico di grottesco, bilanciato dal retrogusto umano dei personaggi; un tema intimistico ma di facile digestione, reso piccante dalla miscela di erotismo e thriller; il tutto presentato in uno stile piano, scorrevole, a tratti quasi elementare, che non pone inciampi interpretativi e permette di leggere il libro tutto d’un fiato.

La vita intima a cui si riferisce il titolo è quella di Maria Cristina Palma, ex-atleta ed ex-modella, moglie di un immaginario Presidente del Consiglio italiano, dichiarata da uno studio scientifico-scandalistico la donna più bella del mondo. La incontriamo per la prima volta nel suo attico di Piazza Navona mentre col suo personal trainer allena il corpo statuario che le è valso lavoro e fama, e da subito la troviamo impegnata ad affrontare il dolore: «Mentre l’allenatore rimembra una parmigiana di melanzane da svenimento toglie un disco dal bilanciere e il peso all’estremità opposta dell’asta, cinque chili di pura ghisa, si sfila e finisce sull’alluce destro della donna, che caccia un urlo così potente da zittire la coppia di inseparabili nella gabbia smaltata sopra le felci».

Il romanzo introduce così, in chiave leggera ed umoristica, un tema portante per l’evoluzione della sua protagonista che, pur privilegiata dalla vita con un corpo ideale e una famiglia ricchissima, è reduce, a quarantadue anni, da una storia affettiva costellata di perdite: l’abbandono del padre, la morte per tumore della madre, poi quella dell’adorato fratello maggiore in un incidente subacqueo e del primo marito in uno scontro autostradale. Ci informa di tutto questo una biografia non autorizzata che contribuisce alla sua immagine social con un ritratto in veste di principessa malinconica, nota al mondo del pettegolezzo come “Maria Tristina”.

L’altro lato del suo volto pubblico emerge poco dopo, quando ignora i consigli del medico pur di indossare i tacchi al ricevimento della sera e si ubriaca al Circolo Canottieri di Roma Nord. Dolorante e annoiata dalla festa, nascondendosi in bagno per sfuggire agli ammiratori, casualmente si trova ad ascoltare di nascosto l’opinione che la sua assistente personale ha di lei: «Alla fine, lo vuoi sapere, mi fa pena. È così inadatta, scema… […] È frivola». Appare così anche il lato della sua figura a cui i detrattori hanno dato l’altro nomignolo di “Maria Cretina”.

La protagonista scelta da Ammaniti si presta in effetti con grande facilità allo stereotipo della dama sofferente dalla profondità nascosta o della bambola sciocca senza profondità alcuna. L’autore, che lo sa bene, in questa storia prova a ribaltare il rischio in un vantaggio: sceglie di prendere sul serio una figura che il grande pubblico può conoscere solo appiattita sulla carta o sui pixel e immaginarne la terza dimensione.

Per farlo, non smentisce l’una o l’altra di queste maschere patinate, ma le approfondisce e le fa coesistere per suggerire la complessità di un carattere. Dopodiché rende il personaggio credibile bilanciando i suoi tratti eccezionali – il privilegio materiale e la malasorte affettiva – con una personalità del tutto normale. Così Maria Cristina appare nel racconto leggermente introversa, spesso insicura, non vistosamente colta o brillante, ma nemmeno stupida o sprovveduta come molti intorno a lei sembrano pensare, certamente un po’ frivola, ma anche affettuosa e protettiva verso le persone a cui tiene – in breve, una “ragazza semplice”, nella più tipica tradizione delle Miss, con la quale è possibile empatizzare, se non direttamente identificarsi.

È dunque facilissimo per chi legge fare il tifo per lei, tanto più facile in quanto la sua vicenda segue un’accattivante parabola esistenziale di crisi e riscatto. Durante la settimana di vita raccontata nel libro, Maria Cristina si trova infatti ad affrontare una rottura dell’equilibrio che la riscuote da lunghi anni di depressione e passività, dando inizio a un percorso di riconquista di sé e ritorno alla vita.

Ad accompagnarla in questa ricerca compaiono personaggi dai ruoli evidentemente fiabeschi. C’è Andrea Sarti, amore adolescenziale che ritorna dalle profondità di un passato rimosso e funge, attraverso continui ribaltamenti, tanto da principe azzurro quanto da malvagio antagonista armato di revenge porn. Stefania Subramaniam, parrucchiera indiana di Casal Bertone, in veste di irriverente e affettuosa fata madrina. L’amico d’infanzia Luciano Vasile, tenero, fedelissimo e pasticcione, come aiutante e prevedibile spalla comica. E poi la giornalista Mariella Reitner, terrore della classe politica italiana, che per Maria Cristina diventa sorprendentemente (e forse non del tutto verosimilmente) un’alleata; è colei che formula l’obiettivo della ricerca e le affida la prova da superare: «Io credo che tu questa intervista debba proprio farla. […] Tuo malgrado, hai un ruolo e la gente ti giudica senza sapere nulla di te. La tua verità, quella più intima, devi tirarla fuori».

L’elemento su cui Reitner (e, dietro di lei, Ammaniti) s’interroga è proprio ciò che dalle molte immagini non si vede: la vita intima. L’aggettivo “intimo” indica, etimologicamente, ciò che è più interno, quindi profondo, segreto, vicino. Si può intendere a vari livelli: c’è l’intimità profonda della psiche, in buona parte sconosciuta anche alla persona che la ospita; c’è l’intimità come eufemismo per la vita sessuale; l’intimo come indumento più vicino al corpo; c’è anche un’intimità affettiva, come il rapporto fra due persone che sono passate dall’estraneità alla confidenza. Tutti questi aspetti hanno un ruolo nel romanzo di Ammaniti; eppure proprio il primo livello, il più propriamente psicologico, è il più limitato, probabilmente perché a volerlo indagare a fondo, con tutte le risorse della lingua letteraria, porterebbe lo scrittore troppo lontano dal tono e dal pubblico di riferimento.

Per un testo che, come ammette il narratore stesso in uno dei suoi occasionali interventi in prima persona, s’ispira al linguaggio audiovisivo («lascerò che a parlare siano le immagini, come in un film»), questa particolare dimensione pone qualche difficoltà. Creare una narrazione per immagini in uno scritto, dove si può ottenerla solo indirettamente, non è strano. Usare la letteratura per esplorare la vita intima nemmeno: questa è proprio la cosa che la letteratura fa meglio di qualsiasi altra arte – rappresentare l’interiorità umana dall’interno. La manovra insolita è cercare di fare le due cose insieme: volersi avvicinare a questo mondo intimo, che per definizione non è visibile dall’esterno, con la modalità visivo-descrittiva che la letteratura può più facilmente condividere con il cinema.

L’impresa appare sensata nell’ottica di una possibile trasposizione televisiva, come è già successo in passato con Anna (Einaudi, 2015), altro libro di Ammaniti adattato per una serie tv nel 2021. Implica però il concentrarsi su ciò che nella vita intima di una persona è accessibile, comunicabile, e rappresentabile in immagini – tendenza che, combinata con lo stile di Ammaniti, più incline al “dire cosa mostra” che al “mostrare senza dire”, pone dei limiti alla profondità di scavo nella psiche del suo personaggio. Entro questi limiti, tuttavia, l’esperimento ottiene buoni risultati: se non porta alla luce nuove e profonde verità sulla condizione umana, riesce comunque a umanizzare personaggi di carta e pixel e renderli passibili di empatia.

Un rapporto ambiguo di profondità e superficie, interno ed esterno, si nota anche nella gestione del punto di vista. All’inizio del romanzo di intimo c’è ben poco, il narratore inquadra la protagonista da fuori; solo gradualmente la focalizzazione si sposta fino ad aderire in modo percettibile all’ottica di Maria Cristina. Tuttavia qualche dubbio rimane, visto che il narratore non si eclissa, e continua a segnalare la propria presenza con commenti e digressioni. Di chi è, dunque, lo sguardo che guida il racconto? Riuscire a determinarlo sarebbe interessante per mettere meglio a fuoco anche l’atteggiamento del narratore verso la società che rappresenta.

La vita intima di Maria Cristina contrasta infatti con un’ingombrante vita esteriore che è, in realtà, uno degli aspetti più interessanti del racconto, efficacissimo nell’evocare una certa percezione dell’alta società italiana dei tardi anni Dieci del Duemila. I personaggi della politica e dello spettacolo che circondano la protagonista sono evidentemente ispirati a figure reali, ma senza riferimenti univoci, come se l’autore avesse rimescolato i tratti di personaggi famosi per creare volti nuovi ma familiari. Questo bilancia il sottotesto fiabesco con un effetto di realtà molto riuscito. Ma l’aspetto più affascinante della storia è l’atteggiamento, apparentemente condiviso dal narratore, che la protagonista ha verso questo mondo: un vivo disinteresse, anzi aperto fastidio, per la vita pubblica.

L’esperienza di Maria Cristina pare infatti confermare la massima per cui la politica rovina tutto ciò che tocca. Ne dà prova suo marito, probabilmente il personaggio meno simpatico, talmente risucchiato dagli intrighi di palazzo da non essere più libero né nel lavoro né nella vita: al pari dei suoi colleghi e collaboratori, sembra aver sacrificato l’autenticità all’ambizione. Come non preferirgli l’imprenditore Nicola Sarti, enfant terrible che di professione sguazza nel lusso, o meglio «acquista pezzi di creato e ne gode», secondo l’apprezzamento di Maria Cristina? Nel racconto Nicola subisce un trattamento ben più originale di Mascagni: è continuamente oggetto di sospetti e smentite in un gioco di suspense che si basa, oltre che sull’ossessione paranoica di Maria Cristina, su quanto sia facile per chi legge sospettare un imprenditore ricchissimo di disonestà; e funziona proprio perché, invece di confermare questo pregiudizio, continuamente lo sfida. Nella mentalità di Maria Cristina, d’altronde, la ricchezza è un dato di fatto e un requisito per una vita libera e felice; ha un’aria di spensieratezza innocente, senza ombre.

Al contrario, la cosa pubblica (per non parlare dell’attivismo) è una minaccia alla libertà, all’iniziativa individuale, perfino alla vita. Chi legge può scoprirsi solidale con la sua frustrazione perché, da quando Domenico è entrato in politica, la sua tenuta di famiglia «è finita sotto gli occhi della guardia di finanza, degli ispettori del lavoro, degli ecologisti, dei Nas, dell’Arci […]. Il risultato è che oggi l’azienda è in deficit e la maggior parte dei lavoratori è stata licenziata». Non si fa alcuna fatica a crederci, ed è preoccupante. Come siamo arrivati a dare per scontato che le istituzioni che dovrebbero garantire contributi equi, sicurezza sul lavoro, rispetto per l’ecologia e per la sanità mandino le aziende oneste in malora?

La prospettiva di fondo, dunque, risulta piuttosto cupa. Mentre il racconto rimette in discussione l’antica immagine evangelica del ricco disonesto, creando margine almeno per sospettare che sì, tutto sommato una Maria Cristina, così come un Andrea Sarti, potrebbero essere sia ricchissimi che brave persone, per le istituzioni pubbliche e le persone impegnate al loro interno questa opzione non si dà: la corruzione, etica se non economica, appare strutturale. Pare quasi che, nel mondo in cui viviamo, l’unica forma sana dell’ambizione, l’unica compatibile con la libertà e l’autenticità umana, sia occuparsi degli affari propri e godere del proprio privilegio.

A questo assunto si lega un’altrettanto aproblematica rappresentazione delle gerarchie sociali. I personaggi d’estrazione inferiore che godono di un trattamento positivo o neutro nel libro sono tutti fan di Maria Cristina; le voci critiche sono marginalmente liquidate come odiatori. La narrazione è dalla parte della protagonista quando questa trova il coraggio di licenziare i custodi della tenuta, fannulloni e approfittatori: non c’è dubbio che siano i custodi che hanno torto, e Maria Cristina appare giustamente dura e risoluta, come una Rossella O’Hara che difende la sua terra. Però Via col vento mostra anche le ombre, l’ingiustizia di una società schiavista su cui si regge la ricchezza dei singoli e che Rossella non si fa scrupoli a sfruttare. La vita intima no: nella vicenda di Maria Cristina la legittimità di quella ricchezza è scontata e la questione della responsabilità sociale non si pone.

Il tono parodico leggero e uniforme rende difficile capire se il libro presenti questa visione della società per affermarla o per denunciarla. Si ha l’impressione che Ammaniti cerchi di fare tutte e due le cose insieme, per andare sul sicuro. In ogni caso, dal quadro sociale de La vita intima emerge una mentalità popolare caratterizzata da una specie di feudalesimo di ritorno dove al posto dei nobili stanno i ricchi, di cui nessuno sogna di mettere in discussione il potere; dove il valore sta nel curarsi al meglio degli affari propri, e chi cerca di occuparsi del bene pubblico è sospetto – o è già corrotto sul piano umano o lo diventerà, perché il dominio pubblico non è un presupposto del benessere collettivo, ma un ostacolo alla libertà individuale e alla gioia di godersi la vita.

Questo significa forse che la ricerca privata della felicità personale e della realizzazione di sé sia sbagliata, specialmente se una ha la disgrazia di nascere ricca? Certo che no. Si può serenamente fare il tifo per Maria Cristina nella sua ricerca di armonia con sé stessa, e gioire con lei quando sembra averla raggiunta. Ciascuno può trarre ispirazione dal suo percorso per le proprie rivoluzioni interiori. Perché è vero che la vita intima è essenziale, e che conoscendosi e affrontando i propri fantasmi si può migliorare la vita propria e dei propri affetti.

È però anche necessario rendersi conto della mentalità di fondo che emerge dal racconto di Ammaniti, in maniera tanto più urgente quanto più ci si accorge che è molto facile finire per condividerla. Perché anche la dimensione pubblica riguarda ogni persona che faccia parte di una società. E se le regole e le istituzioni che rendono possibile la vita associata appaiono un ostacolo, invece che un aiuto, alla libertà personale, bisogna trovare il modo di ridar loro valore nell’interesse collettivo. Altrimenti, a qualcuno potrebbe venire in mente che sia più semplice liberarsene, dimenticando che sono state elaborate per rendere la dignità e il benessere accessibili a tutti. A quel punto, chi non ha una tenuta di campagna dove ritirarsi quando tutto crolla potrebbe dover lottare daccapo per riconquistarle.


Niccolò Ammaniti, La vita intima, Torino, Einaudi, 2023, 19€, 312 pp.