Volendo riassumere in due parole il contenuto dell’opera di Tommaso Pincio, subito vengono in mente queste: doppio e Roma. Individuabili, d’altra parte, nello pseudonimo dell’autore (al secolo Marco Colapietro): Tommaso, nome di origine aramaica che vuol dire gemello, e Pincio, il colle romano. Si tratta, in entrambi i casi, di ossessioni, che dominano la produzione recente di Pincio, come dimostra ad esempio Diario di un’estate marziana (Giulio Perrone, 2022). Qui il narratore-autore ripercorre le tracce di Ennio Flaiano in una Roma deserta, realizzando un particolare connubio tra un’autoeterografia – un’autobiografia realizzata attraverso la biografia di altri – e una flânerie, in cui a ogni scorcio corrisponde un passo biografico, un’associazione di pensieri, il riconoscimento di una comunione di intenti tra sé e il narrato. Anche, però, la produzione passata dell’autore è dominata dall’ossessione per il doppio – diversi gli alter ego di Pincio, da Mario Esquilino a Fausto Maceria – e dall’ossessione per Roma: non solo Cinacittà (Einaudi 2008), anche quello difficile da circoscrivere in un genere, tra noir e distopia apocalittica, ma anche la sua appendice saggistica Pulp Roma, pubblicato per la prima volta nel 2012 per il Saggiatore e appena riedito dalla stessa casa editrice senza grosse modifiche, eccetto la collana e la copertina (la quale, molto più della precedente, rende l’idea di una Roma pulp, di una Roma a fumetti).

Pulp Roma viene definito dall’autore «un capriccio, o meglio uno svago. Vi si illustrano umori e fissazioni che accompagnarono la stesura di un mio romanzo, qualche anno fa.  Non che consideri quell’opera così notevole da corredarla di un’appendice. […] A premermi è semplicemente l’idea da cui il romanzo scaturì; il come sia nata, il come si sia sviluppata». In Pulp Roma Pincio racconta innanzitutto come ha lavorato al suo romanzo Cinacittà, quali materiali ha raccolto, quali e quanti tentativi ha fatto prima di portarlo a compimento. Prima di tutto, Pincio ci avverte che Cinacittà è stato fin da subito una riscrittura: riscrittura di un racconto originariamente intitolato The melting spot e riscrittura di un racconto romano che Pincio aveva tentato di realizzare anni e anni prima intitolato La porta di Acaba, volutamente scritto sulla falsariga di Quer pasticciaccio brutto de’ via Merulana di Gadda. I due testi narrativi appena citati sono poi inframmezzati da saggi letterari che, partendo da lontano, tornano sempre alla scrittura di Pincio: il saggio dedicato a Lolita, Nabokov e alla criptoamnesia che Pincio dice di aver subìto, appunto, rimuovendo completamente dalla memoria il tentativo di riscrittura gaddiana, riemerso solo una volta ritrovato materialmente il testo; il saggio dedicato alla Roma di Stefano Tamburini in Xanxerox; ancora, il saggio più letterario dedicato a Daisy Miller, dove si legge una descrizione dei romani che solo un romano, forse, potrebbe formulare così accuratamente. Pincio riconosce nel personaggio di Giovanelli inventato da Henry James «alcuni tratti distintivi della romanità. Se per il viaggiatore il miasma che esala dalle rovine può rivelarsi letale, conducendo a un infiacchimento dello spirito o a morte, il romano corre costantemente il rischio di diventare vittima degli anticorpi che ha sviluppato per sopravvivere in un luogo al contempo troppo languido e troppo indifferente a tutto. Corre cioè il rischio di essere troppo molle, troppo privo di nerbo morale, e troppo cinico e dunque greve, pesante e immobile come le pietre da cui è circondato, sebbene il suo cuore non sia affatto di pietra».

Sempre nel segno di un’analisi affettiva di Roma e dei romani (dunque, di sé), Pincio definisce il proprio testo un «pastiche letterario» in  quanto presenta forme e generi diversi, dal racconto al saggio all’aneddotica autobiografica, dal pulp al poliziesco. Allo stesso tempo, Pulp Roma può essere definito come un esperimento, seppur senza i crismi del rigore filologico ma conservando il respiro dell’aneddoto, di auto-filologia d’autore: ossia, a dirci come lavora è lo stesso Pincio.

La presenza di immagini riprodotte rende Pulp Roma, però, anche un pastiche iconotestuale: non solo, infatti, nell’opera si mescolano parole e immagini, ma la sola componente figurativa appare varia,  dall’autoritratto a mo’ di fumetto alle riproduzioni di due immagini nel saggio Criptoamnesie, al fumetto tratto da un albo di ambientazione settecentesca, Il mostro di Venezia, fino alla graphic novel The melting spot. Quest’ultima, commissionata dalla rivista Rolling Stone, consisteva inizialmente nell’adattamento integrale di Cinacittà e nella sua pubblicazione a puntate sul periodico. Il progetto non è mai stato portato a termine, ma Pincio decide di riportare in Pulp Roma quello che approssimativamente corrisponderebbe ai primi due capitoli di Cinacittà: Fausto Maceria, protagonista dal nome parlante e dalle fattezze pinciane, in uno sfondo costellato dalle ricorrenze dell’autore, ossia Roma, i soldi, Kurt Cobain («traccia fantasma» dell’opera pinciana e protagonista di Un amore dell’altro mondo, Einaudi 2002). I colori  irrealistici,  rosso sangue e verde alieno,  poi,  rendono i connotati di The melting spot assimilabili alle forme dei primi pulp magazines, appunto. Pincio non rinuncia a una delle due arti e sperimenta, per la storia di Cinacittà, due modalità di narrazione, il romanzo e la graphic novel, tentando l’adattamento della propria opera. E allora ecco che la seconda parola chiave, doppio, si affianca necessariamente alla parola talento: Pincio, scrittore e artista figurativo, gioca in questo «libercolo» non solo con il linguaggio verbale, ma anche con quello visivo, sperimentando tutta una serie di forme artistiche, frammentandole all’interno del testo, così da interromperlo, disturbarlo, modificarne il ritmo. Tra disegni, autoritratti, fumetti e pagine di giornale, Pulp Roma si presenta come un’antologia per immagini, non solo una «narrazione», quale viene definita in avvertenza all’inizio del libro. Il testo nasce come racconto delle ragioni che avrebbero portato Pincio alla stesura di Cinacittà, ma in corso d’opera si rivela una raccolta di aneddoti: da Dostoevskij alla scimmia di Nabokov a Fellini e De Chirico, fino al fumetto.  Pincio  si  muove  come  un flâneur nel  testo  e  trova,  attraverso  questa  ricerca  nella memoria, due fils rouges: Roma e il suo doppio talento. Il secondo, espresso nella sostanziale impossibilità di una reductio ad unum; la prima, perché Roma è cinematografica, è letteraria e artistica, e soprattutto è «il luogo apocalittico per antonomasia».Come disse uno scrittore americano intervistato da Fellini in una delle scene finali del suo film Roma (dichiarazione peraltro riassunta da Pincio in esergo a Cinacittà):

Vi domanderete perché mai uno scrittore americano viva a Roma. Prima di tutto perché mi piace i romani che ci frega niente se sei vivo o morto: sono neutrali, come i gatti. Roma è la città delle illusioni, non a caso qui c’è la Chiesa, il governo, il cinema, tutte cose che producono illusione, come fa tu come fa io. Sempre più il mondo si avvicina alla fine perché troppo popolato, con le macchine, veleni. E quale posto migliore di questa città, morta tante volte e tante volte rinata, quale posto più tranquillo per aspettare la fine da inquinamento, sovrappopolazione? È il posto ideale per vedere se il mondo finisce o no.


T. Pincio, Pulp Roma, Milano, il Saggiatore, 2023, 200 pp., € 16.