A febbraio 2023 è uscita Autoritratto automatico, l’ultima raccolta di Umberto Fiori edita da Garzanti nella collana “La biblioteca della spiga”. Su fronte e quarta di copertina del libro sono state ordinate in quattro file da tre ventiquattro fototessere dell’autore da giovane. La disposizione e la natura delle foto ricordano quel gioco della «Settimana enigmistica» dove il duplicato di un’immagine nasconde dieci differenze da scovare, perché in tutte, eccetto una di lui da bambino, il soggetto è sempre Fiori a poco più di vent’anni, ma colto in pose diverse e con abiti e tagli di capelli differenti.

Sulla scorta di Susan Sontag, che definisce le fotografie «pezzi» di mondo, «miniature di realtà che chiunque può produrre o acquisire»[1], potremmo chiamare questi scatti – che poi nel libro spariscono, tranne per una singola fototessera rettangolare – «miniature dell’io», con cui il poeta è arrivato a completare due interi album per un totale di oltre settecentocinquanta esemplari. Di nuovo Sontag: «Le fotografie, che impacchettano il mondo, sembrano sollecitare l’impacchettamento»[2]. Nella Presentazione del libro, Fiori rivela che a partire dal 1968 si è fotografato abitualmente nelle cabine delle fototessere per oltre cinquant’anni, decidendo di «impacchettare» una sezione di mondo – la sua faccia – che, come accade per le cose e le persone di tutti i giorni, è tanto prossima quanto sfuggente. L’operazione, almeno a primo impatto, sembra difficile da ricondurre a un poeta come Fiori, che alla prima persona ha sempre preferito la seconda o la terza e che in esergo a Voi (2009) collocava proprio questa citazione di Carlo Emilio Gadda, tratta dalla Cognizione del dolore: «…l’io, l’io!… Il più lurido di tutti i pronomi! […] I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi si gratta…e nelle unghie, allora…ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona»[3].

L’accostamento forse stona: ma in sé l’operazione, se dimentichiamo per un attimo che Fiori mostra la sua collezione di facce solo a qualche amico in visita e piuttosto che selfie preferisce chiamarli «autoscatti» o «autoritratti», è curiosamente la stessa della modella americana Kim Kardashian, che nel 2015 ha raccolto in Selfish, un “coffee table photoboook” edito da Rizzoli, i selfie che si è scattata nel corso degli anni da sola, con le amiche o con il fidanzato. Di selfie, nonostante la riluttanza di Fiori, si finisce per parlare anche in Autoritratto automatico: a proporre la similitudine («In un certo senso, questi tuoi autoritratti sono come i selfie di oggi…», p. 82) è il personaggio del «Visitatore» che compare in Colloquio, titolo sotto il quale sono riunite una serie di conversazioni tra lo stesso Umberto Fiori e «un giovane intelligente, curioso e assai letterato» al quale il poeta decide di mostrare la sua collezione di autoritratti.

Il Colloquio chiude la prima sezione del libro, che si intitola Verso la faccia e contiene trentanove poesie. Le altre tre sezioni – Altre poesie, Seconda singolare e Tre poesie per l’Orientina (18 aprile 2008) – raccolgono un totale di diciotto poesie da leggere come digressioni, anche se rilevanti, rispetto al tema principale dell’autoritratto. Nelle sue prime raccolte, le relazioni che legano l’io di Fiori agli altri non hanno carattere privato, non si incontrano nomi propri e i personaggi sono anonimi, da quel primo «uno» che appare «lungo gli scavi» sul marciapiede di Incontri (Case, 1986) alla generica folla che si nasconde dietro la seconda persona plurale di Voi («A voi io penso sempre. Penso alla mia | infinita mancanza»[4]). Guardando Autoritratto automatico in prospettiva e confrontandola soprattutto con la produzione del primo Fiori, è significativo che tra le poesie di argomento vario che seguono la sezione Verso la faccia ce ne siano sette dedicate ad alcuni membri della famiglia Fiori e al compositore e polistrumentista Tommaso Leddi, membro degli Stormy Six. Le tre per la moglie sono raccolte in Tre poesie per l’Orientina (18 aprile 2008), mentre le poesie della sezione Seconda singolare si intitolano A mio padre, A Carla Fiori, mia zia (1914-2015), A Tommaso Leddi e A mio fratello Andrea.

Qualcosa, tuttavia, aveva già iniziato a cambiare con La bella vista (2002) – dove ci sono tre poesie dedicate a Claudio Damiani, alla moglie e ai figli Livia, Tommaso e Cecilia –, anche se la novità del nome proprio arriva con Il conoscente (2019), dove il personaggio che dice io si chiama Umberto Fiori. Tuttavia, nella Nota per il lettore alla fine del libro, Fiori precisa che «gli aspetti apparentemente autobiografici e i personaggi presentati sono frutto di pura immaginazione o – in qualche caso – di liberissima rielaborazione»[5]. In Autoritratto automatico il di più di «privato» rispetto a ciò che leggiamo nel Conoscente è dato, oltre che dal (relativamente) alto numero di poesie dedicate agli affetti, dalla cornice che inquadra la sezione Verso la faccia, e cioè la Presentazione e il Colloquio, nelle quali Fiori parla diffusamente della genesi e del tema principale del libro. A differenza di quanto si potrebbe immaginare, le poesie della sezione Verso la faccia non sono un album di ricordi privati: in alcune (come Collezione, Movente, Date) il riferimento alla collezione è più esplicito, ma nel complesso a interessare Fiori non sono tanto le sue fototessere bensì la pratica in sé di fotografarsi e i rapporti tra l’io e il «miraggio» identitario e tra il singolo e la Storia. Nonostante, quindi, in Autoritratto automatico Fiori lasci più spazio a ciò che è solo suo – mio padre, mia zia, mio fratello Andrea –, ad essere tematizzato è l’impulso ad andare «verso la faccia», un impulso inevitabile e poco nobile che non riguarda solo lui.

Al giovane Visitatore del Colloquio gli autoscatti di Fiori sembrano una versione retrò degli attuali selfie: «al centro c’è sempre la faccia», gli dice.Ma Fiori non è d’accordo: «una foto-tessera non la condividi, non la esponi subito a una comunità»; in un selfie «più che la faccia, al centro c’è la situazione, l’attimo […]. La foto automatica non registra un istante privilegiato» (p. 83). «Certo che se uno conosce le tue poesie – soprattutto le prime – e poi vede questa collezione…» (p. 84), insiste il Visitatore, alludendo al noto tratto di indistinzione e impersonalità che definisce il soggetto del primo Fiori. Dialogando con il Visitatore, il poeta fa quello che gli abbiamo visto fare in altre occasioni: si difende, e difendendosi fornisce al lettore le coordinate per inquadrare la sua ossessione per la faccia.

Al poeta preme che gli altri – la «gente» che compare spesso nelle sue poesie, con cui «parlare […] | è fatica: sempre spiegarsi, ripetere»[6] – non giudichino la collezione alla stregua di «una spropositata operazione narcisistica» (p. 84) e si preoccupa di far capire al lettore che insistere sulla propria faccia è stato un modo per «perderla» («stare senza ormai |mi viene naturale, non mi costa | quasi più niente», p. 85) e liberarsi dell’«ingombro osceno»[7] di cui spesso si è lamentato. Il contrario di ciò che fa Narciso – nominato nella poesia Favola (Non-) –, che si attacca alla sua faccia come un rampicante al muro perché non trova sostegni di altro tipo. Il Narciso di Fiori «non si bacia […], non affoga, | non si trasforma in un fiore: diventa vecchio» (p. 74) e l’unica regola della collezione, spiega il poeta al giovane Visitatore, è quella di accettare anche gli scatti meno felici, che rivelano lo scarto tra chi vorremmo essere e chi ci capita di essere.

allo specchio, istintivamente, ogni volta esponi lo stesso lato, la stessa espressione, quella che negli anni ti sei abituato a considerare la migliore; senza rendertene conto ti aggiusti, ti sistemi come vorresti essere. […] La macchina registra quello che c’è, non la faccia che tu sogni di avere. È come quando uno ascolta la sua voce registrata e inorridisce, fatica a riconoscersi. Ecco, io cercavo di fissare la mia faccia involontaria, quella che mi sfuggiva. E mi sfugge ancora. (p. 82)

Si tratta quasi di un esercizio spirituale: per Fiori la faccia non solo è qualcosa che sfugge, ma è anche «un ingombro» che ci separa dagli altri perché il bisogno ossessivo di ritoccarla indebolisce la nostra capacità di ascolto e osservazione della realtà. Non cancellarla quando viene male è quindi un esercizio per non farsene dominare, per imparare ad abbassare la guardia nei confronti del mondo esterno e andare «fuori, ai capolinea», dove non c’è modo di specchiarsi e «solo le cose si vedono».

Vetrine, macchine:
è tutto così liscio, così lucido.
La gente in giro,
appena può, si specchia.
Ma fuori, ai capolinea
dove finisce il comune
e più avanti, nei campi, in mezzo al verde,
solo le cose si vedono.
Nel fango secco oppure lassù, nel cavo
dell’alta tensione, uno
riflessi non ne ha più. Manca, si perde.
Allora viene la paura
di apparirsi di colpo. Come ai bambini,
nelle cantine, il diavolo.[8]

Nella cabina delle fototessere, il soggetto sperimenta – come descrive la poesia Seggio – qualcosa di simile a ciò che accade all’interno del seggio elettorale, dove poco prima di tracciare la X si è presi dallo stesso «languore» di quando la foto sta per essere scattata. La similitudine non è casuale perché evoca il legame che l’oggetto della fototessera mantiene con la dimensione sovraindividuale. Nonostante la cabina offra la possibilità del foto-fun, le fototessere servono prima di tutto per il documento di identità; hanno quindi uno scopo preciso e predeterminato, da cui deriva quel loro carattere burocratico e impersonale che manca al selfie e alla fotografia, nelle quali il soggetto fotografato è già sottoposto a un’interpretazione arbitraria. La fototessera, al contrario, ritaglia la nostra identità di singolo su un formato predefinito, che non abbiamo scelto noi: altezza minima 45 mm; larghezza 35. Ed è questo il motivo per cui spesso nelle fototessere siamo brutti, a differenza delle monache e degli idioti del Cottolengo che impressionano lo scrutatore di Calvino – evocato dal giovane Visitatore – perché in foto vengono sempre bene:

«controllando queste carte d’identità, in ogni foto in cui trovava sembianze tese, atteggiate a espressioni innaturali, riconosceva la sua stessa mancanza di libertà di fronte all’occhio di vetro che ti trasforma in oggetto, il suo rapporto privo di distacco verso se stesso, la nevrosi, l’impazienza […] Le monache no: posavano di fronte all’obiettivo come se il volto non appartenesse più a loro; e a quel modo riuscivano perfette» (p. 78)

Per indagare i connotati, il senso e i limiti della faccia – non tanto, o meglio, non solo della sua, ma della faccia in generale – Fiori allontana il mondo e la Storia, troppo grandi da far entrare in una fototessera («Ma i piazzali, le strade, | «gli spari, i canti, le idee, | le cucine fumose, i grandi discorsi?», p. 35). Se in Case, Esempi e Chiarimenti il soggetto faceva esperienza del mondo per le strade, nei giardini, nelle sale d’aspetto e dentro gli ascensori, in Verso la faccia il mondo è fuori dalla cabina. Paragonata ad altre sedi di separazione, solitudine e distanza (l’«armadio bruno del confessionale», una «capanna», «un’astronave»), Fiori le attribuisce un carattere di ambivalenza: il fatto che i suoi due metri cubi siano riservati all’espiazione di una colpa (quella di essere uno quando «uno è troppo poco. | È niente. È il suo rimorso»[9]) non esclude che a volte l’io ne sia attratto come fosse un’oasi in mezzo al deserto. Chiudercisi dentro è anche un sollievo e infatti, in mezzo ai cortei e alle strade, la cabina «luccica», «giorno e notte sta accesa», «brilla, ti invita», ti attende; in Foto-tessera, la prima poesia della raccolta, appare come un antro quasi magico «sul piazzale | dove si affaccia | la Camera del Lavoro» e «splende, sola» (p. 19).

L’anno di inizio della collezione di fototessere è il 1968, lo stesso anno in cui Fiori inizia a militare nella sinistra extraparlamentare e il desiderio di superare i confini dell’io, riunendosi in una collettività ideologicamente coesa, è totalizzante; più tardi, quando – scrive lo stesso Fiori – «le utopie rivoluzionarie si spengono e lasciano il posto a un eccitato fervore godereccio»[10], il suo passato di militante contribuisce alla definizione di una scrittura anti-aristocratica e censoria nei confronti delle tentazioni autobiografiche. Nel pometto La bella vista scriveva:

[…] Sentivo
che vergogna è chiamarsi
in quel modo preciso, essere vivo,
essere uno, sapere che la gente
ti vede mentre ti sporgi
tutto gonfio di te
dal niente
come il verme si sporge dalla mela.[11]

In Qui di Autoritratto automatico torna la similitudine del verme per descrivere il soggetto della fototessera, che «senza cielo né terra, senza gambe», espropriato di un contesto e di un’azione, sbuca dal nulla proprio come il verme che «si sporge dalla mela» – qualcuno che emerge nella sua paradossale singolarità e interrompe l’uniformità della superficie. Un’immagine simile, in cui un elemento isolato si staglia sullo sfondo, si trova in una poesia della raccolta Voi in cui il soggetto guarda il vincitore di una gara mentre solleva sul podio la coppa d’oro, e pensa:

[…]

sento una stretta al cuore.
No, non è invidia.
Penso: come può stare
così solo, lassù?
Come sopporta
di essere il più forte,
di non essere più
vostro pari?[12]

 L’insostenibilità della distinzione è il tema più importante della poesia di Fiori, non solo perché gli altri – il conflitto io | mondo; la condizione di separazione sofferta e combattuta dal soggetto; la critica all’io lirico tradizionale – sembrano derivarne (o tornarvi), ma perché ne illumina la specificità e il significato delle soluzioni retoriche e stilistiche. Se il senso degli «sciacalli» montaliani poteva essere chiarito solo dallo stesso Eugenio Montale perché di natura privata, la biografia di Fiori non ha fornito emblemi alla sua poesia – il senso delle immagini che impiega è per lo più comune, così come la sua lingua.[13] Il rifiuto della condizione di separazione e privilegio di una, benché egemonica, tipologia di soggetto lirico – simile al vincitore che solleva il premio, perché più in alto e diverso da tutti gli altri – spinge infatti Fiori a una pronuncia aperta, più vicina a un Sandro Penna che a Montale:

Quando dice «mondo», Penna intende – lo vediamo nelle sue poesie – la realtà più familiare e più ovvia, la realtà come più o meno tutti la concepiscono; intende il cielo e i cinema, il mare e le portinerie, i prati e gli orinatoi.[14]

Il passo citato richiama alla memoria alcuni versi del Conoscente, quelli con cui Umberto Fiori descrive al suo interlocutore l’armonia che a volte capita di sentire con il resto delle persone:

Sento, tra noi, un bene
che non facciamo.
E non potremmo farlo: è troppo grande.
Un bene che ci precede.
È da lì
che vengono le parole. Albero, casa,
nuvola, cane, mondo: l’Uno e l’Altro
convengono in loro, concordano.

Si abbracciano, fino a confondersi. La lingua di Fiori è fatta di parole che uniscono invece di distinguere e tenere separati. In Autoritratto automatico il tema del conflitto apertura/chiusura – e unione/separazione del soggetto – si esprime nella chiusura rituale dell’io nella cabina delle fototessere: «non ero una sezione, un collettivo, | un soggetto di classe; lì con me | non c’erano le masse popolari. | Chiudevo le tendine | e mi sedevo, come al gabinetto» (p. 52). Sebbene i temi di cui parla non siano lievi, nei testi l’io preserva un profilo discreto e una pronuncia ironica, latamente comica. Quando in Vanità scrive di sé: «ma che pavone […] un disgraziato che nuota nuota e si sbraccia | tra i flutti della sua faccia» (p. 59), Fiori rivela come l’emancipazione da un io capriccioso, che ci tiene isolati dagli altri, passi anche attraverso il non prendersi troppo sul serio. Se ne trova una conferma nella dichiarazione di poetica contenuta nella poesia A mio fratello Andrea, dove riferendosi al repertorio delle «trecentomila barzellette» che il fratello ha l’abitudine di raccontare, scrive: «così vorrei io che suonassero | a chi la vita la sa già | le quattro poesie che scrivo» (p.115).


[1] Susan Sontag, Sulla fotografia, Einaudi, Torino 2004, p. 4.

[2] Ibidem, p. 4.

[3] Umberto Fiori, Poesie 1986-2014, Mondadori, Milano 2014, p. 215.

[4] Ibidem, p. 219.

[5] Il conoscente, Marco y Marco, Milano 2019, p. 305.

[6] Poesie 1986-2014, p. 106.

[7] Ibidem, p. 96.

[8] Ibidem, p. 104.

[9] Ibidem, p. 217.

[10] Il conoscente, p. 305.

[11] Poesie 1986-2014, p. 171.

[12] Ibidem, p. 239.

[13] Rimando al saggio dello stesso Fiori Gli “sciacalli” di Montale. Riflessioni su oscurità e chiarezza in poesia (2000), da cui traggo questa citazione: «Va da sé che la chiarezza della poesia (fine implicito dello “spiegare”) non può essere equiparata a quella di un testo scientifico o di un resoconto in prosa. Non è chiarezza concettuale, didascalica. E tuttavia, comporta un rigore, una fedeltà alla cosa. Rigore e fedeltà che nascono non da una pedissequa aderenza all’oggetto e neppure da intenti banalmente “comunicativi”, ma dall’amore, dal rispetto profondo che lega la poesia alla forma che essa ha riconosciuto nel suo movente».

[14] Ibidem.


Umberto Fiori, Autoritratto automatico, Garzanti, Milano 2023, 128 pp., € 18,00.