Come reagisce l’essere umano di fronte alla prospettiva della morte? Con L’avventura terrestre Covacich riprende un discorso iniziato con Di chi è questo cuore (2019) e prosegue l’indagine sulla vulnerabilità umana di fronte alla malattia di un corpo che si trasforma da rifugio in minaccia. Se nel romanzo del 2019 il protagonista era costretto da un problema cardiaco a rallentare la sua attività di corridore agonistico, e si ritrovava quindi a corricchiare per Roma, lasciandosi andare a pensieri e a rievocazioni dei momenti salienti della sua vita, l’anonimo protagonista dell’Avventura terrestre soffre di un disturbo all’udito che potrebbe essere causato da una neoformazione cerebrale. L’intero romanzo si gioca proprio intorno al condizionale potrebbe: la vicenda si svolge infatti nei pochi giorni che separano la visita medica dalla risonanza magnetica che stabilirà o meno l’effettiva presenza della sospetta neoformazione. Anche in questo caso l’improvvisa vicinanza con la malattia (o meglio, con la sua possibilità) costringe il protagonista a confrontarsi con i momenti e le persone cruciali della sua vita, in un’ininterrotta rievocazione di fantasmi del passato, che riemergono con forza, rivendicando il loro diritto all’esistenza proprio quando questa sembra accelerare improvvisamente in direzione della sua fine.

Peculiarità del romanzo, dal punto di vista strutturale, è l’alternanza tra la storia principale, narrata in terza persona, e brevi capitoli in cui la narrazione autodiegetica adotta il punto di vista di un giovane uomo che, proprio negli snodi cruciali della sua vita, è visitato dallo spettro di un vecchio che pronuncia vaticini funesti riguardanti la sua vita futura. Il risvolto di copertina (che sicuramente non rende merito al libro), forse per dare al romanzo una – del tutto ingiustificata – coloritura thriller, forse in ossequio all’isterica ossessione collettiva per il no-spoiler, ammanta di mistero la relazione che intercorre tra il protagonista della vicenda principale e il giovane che compare negli inserti in prima persona, quando è evidente fin dalle prime pagine (e non solo al lettore più accorto) che i due personaggi sono semplicemente la stessa persona, colta in due momenti distinti dell’esistenza: lo spettro che si manifesta al ragazzo altro non è se non il sé stesso di mezza età, che si volge indietro per mettersi in guardia da tutti gli errori che compirà nel corso della sua vita. Insomma, Covacich ipostatizza due fantasie molto umane: da un lato quella di provare a guardare alla propria esistenza con gli occhi impietosi di un sé più giovane, e dall’altro quella di poter tornare indietro nel tempo per darsi suggerimenti alla luce dell’esperienza vissuta. L’aspetto interessante da sottolineare è, piuttosto, la scelta di narrare in terza persona le vicende del protagonista adulto e in prima persona gli inserti relativi al sé giovane, quasi a suggerire una maggiore aderenza esistenziale del secondo rispetto al primo: l’adulto è altro ed estraneo rispetto all’autenticità del sé stesso giovane, come peraltro dimostra l’ultimo capitolo del romanzo, in cui le due linee narrative convergono, e la diegesi si stabilizza sul punto di vista del ragazzo, che osserva stupito le azioni, per lui del tutto assurde, del «vecchio».

Tutti i personaggi del romanzo, compresi il protagonista e la sua compagna, per quanto tratteggiati in maniera definita (con ammiccamento autofinzionale: lui è uno scrittore di mezza età, triestino, residente a Roma) non hanno nome, ma sono chiamati in causa o attraverso pronomi (è il caso dei due personaggi principali) o facendo riferimento alla loro funzione (la madre, la prima moglie, il suocero e così via). In questo modo il romanzo dichiara la sua intenzione universalizzante: vuole raccontare la storia di un individuo ben preciso, ma al contempo si presenta come la possibile storia di ogni essere umano, in quanto ogni esistenza, se posta di fronte alla morte, viene ridotta al suo nucleo essenziale. Questa prossimità ipotetica alla morte causa nella vita del protagonista una sospensione per cui il tempo sembra dilatarsi all’infinito fino a condensare in una manciata di giorni la sua intera avventura terrestre: nel breve arco temporale in cui si svolge il romanzo, infatti, al protagonista accade di tutto (tiene una lezione, viene coinvolto in una rissa, sviene, viene ricoverato, cade in bicicletta) e anche i pensieri si affastellano in una rievocazione continua di volti ed eventi. Questa assoluta densità esistenziale trova il suo contraltare narrativo in un personaggio minore ma importantissimo nell’economia del romanzo: si tratta del «camminante», un vicino di casa del protagonista che trascorre le sue giornate percorrendo a piedi il breve perimetro del giardino antistante la casa. Il protagonista e la compagna si divertono a formulare ipotesi sempre più bizzarre sul comportamento del loro vicino (una tra tutte: «è un raeliano, la setta gli ha ordinato di percorrere sul posto la distanza che lo separa da Elohim»), fino a quando, proprio nelle ultime pagine, viene svelato il piccolo mistero.

La tematica quasi esistenzialista del romanzo, che sembra voler mettere in scena una versione postmoderna dell’heideggeriano essere-per-la-morte, è costantemente ricondotta alla sua matrice creaturale, attraverso la presenza ossessiva della corporeità ostentata in tutte le sue possibili manifestazioni. Il corpo è messo in scena senza pudore: nella descrizione di interventi chirurgici a cranio aperto, negli amplessi, nella malattia, nella digestione, nella rievocazione del cadavere paterno riesumato a dieci anni dalla sepoltura. In particolare, proprio il tema del corpo morto, divenuto cadavere, è motivo ricorrente nel romanzo: sia negli episodi narrati (la visita al cimitero di Palidoro, la notte al Pronto Soccorso), sia nelle allusioni ipertestuali disseminate lungo tutto il libro. Se l’Eneide (soprattutto, ovviamente, il libro VI) è a più riprese chiamata in causa dalle riflessioni del protagonista, è possibile individuare un altro ipotesto, più celato ma altrettanto importante: la narrazione evangelica della passione di Cristo, interpretata nel suo senso – ricorrendo alla terminologia auerbachiana – creaturale. Proprio nelle prime pagine del romanzo, infatti, il protagonista dichiara di credere «nel figlio lungo disteso nel suo loculo […] staccato or ora dalla croce». Questo riferimento è estremamente significativo, soprattutto alla luce della struttura del romanzo: l’arco temporale della narrazione va infatti dal giovedì sera al lunedì mattina, ripercorrendo le tappe della passione evangelica: la cena giovedì, la passione il venerdì notte, la visita al cimitero il sabato mattina, e la chiusura fintamente euforica di un rapporto sessuale borghesemente violento la domenica. Il racconto procede a tappe, in una sorta di via crucis che lascia però la narrazione in sospeso sul finale, dimostrando – qualora ce ne fosse bisogno – che il fulcro della narrazione è l’indagine della reazione umana di fronte alla morte, non certo la risoluzione individuale della vicenda del protagonista.

L’avventura terrestre è insomma un romanzo che si colloca coerentemente nella produzione di Covacich, portando avanti una riflessione che per gradi si avvicina al tema inesauribile della finitezza umana e del (non)senso di tale finitezza. Sebbene l’impianto narrativo e la struttura tentino di depistare il lettore, si tratta di un romanzo a tesi, che intende dimostrare l’assunto per cui la vita assume un disegno e un significato quanto più si avvicina al suo termine. Se resta il dubbio che forse l’autore avrebbe potuto osare di più, rendendo meno ipotetica la possibilità della morte del protagonista, resta la speranza che questa sia solo la seconda tappa (e d’altronde Covacich non è estraneo alle grandi strutture, si pensi al «Ciclo delle stelle») di un’indagine più ampia, all’interno della quale le singole storie potranno assumere un significato alla luce di un orizzonte di senso più ampio.


M. Covacich, L’avventura terrestre, La Nave di Teseo, Milano, 2023, 336 pp., € 20.