Nelle pagine iniziali del romanzo autobiografico Un destino tedesco (1960), Ernst von Salomon ripercorre i primi giorni di servizio militare del suo alter ego, A.D., arruolatosi volontario dopo la Grande guerra sotto l’incitamento di un professore votato alla causa nazionalista. Spicca, quale prima impresa narrata, la repressione armata di un corteo socialista, manifestazione di strada reputata «assurda in sé» dal protagonista (il quale confessa, tuttavia, di non aver ancora compreso il senso della temine “socialismo”), ma che ha avuto il merito di fargli apprendere «la terribile euforia del potere che dà il fucile». Dalle parole usate da von Salomon per descrivere la vicenda, traspare anzitutto il ribrezzo provato alla visione del corteo da disperdere, la cui qualità umana viene qui radicalmente negata: «Fu preso dalla paura quando, pronto a far fuoco dal muro, vide le masse, tremende masse di uomini, con bandiere rosse, avanzare imperturbabili, un unico brulichio scuro che assomigliava, quantunque fossero riconoscibili i volti, piuttosto a uno sciame di insetti in movimento che non a uomini in marcia».

Von Salomon non è certo il primo a descrivere in tali termini l’immagine moderna della massa, e di quella particolare massa riunita nel sollevamento o nella ribellione. La descrizione minacciosa delle folle aveva già garantito, d’altra parte, una fortuna straordinariamente longeva a scrittori come Le Bon, e prima ancora a Taine, con i suoi raccapriccianti resoconti della violenza rivoluzionaria. Per l’uno come per gli altri, quel brulichio ostile della folla non è indice della reciproca avversione promossa dalle parti in gioco, bensì della nuova e perturbante qualità con cui la cultura europea di destra, tra Otto e Novecento, connota l’emersione delle masse quale inedito soggetto collettivo nello spazio politico.

Si dovrà attendere l’elaborazione del primo conflitto mondiale, nonché del nuovo ruolo delle masse entro la mobilitazione totale della nazione, per registrare una torsione degli intellettuali, d’un tratto interessati non più a negare le masse bensì ad accoglierle subordinandole a un principio unificatore (lo Stato, il movimento, il partito). Come afferma Mimmo Cangiano nel suo Cultura di destra e società di massa. Europa 1870-1939 (Nottetempo, Milano 2022, pp. 527), la destra novecentesca si prefiggerà il compito di integrare le masse entro politiche identitarie e statali, che permettano di canalizzarne la presenza al di fuori delle partizioni di classe, secondo un modello in cui il nazionalismo è elevato a strategia di gestione della stessa modernizzazione capitalistica. La posta in gioco di una simile strategia, ricorda Cangiano, consisterà nel «contenere l’ascesa di quella concreta alterità (ideologica e prammatica) rappresentata dalle masse» (p. 177) entro progetti di Comunità o di Popolo declinati secondo un discorso identitario. Come il sottotitolo del volume non manca di precisare, i confini della ricognizione corrispondono al costituirsi della società europea contemporanea in seno ai tentativi di nazionalizzazione e capitalizzazione delle masse, quegli stessi tentativi che precipiteranno di lì a breve l’intero continente nella guerra civile. Seguendo i suggerimenti metodologici già espressi da Furio Jesi (omaggiato fin dal titolo stesso del volume) circa la necessità di non trascurare la valenza propriamente politica di quanto si presenta sotto i tratti del letterario, il libro di Cangiano è il risultato di una ricerca archeologica nella variegata galassia discorsiva della destra, così come si è sedimentata in una cultura europea ancora incapace − se non ancora reticente − di pensare le implicazioni delle proprie stesse rivoluzioni, e tuttavia così rapida nel fornire una risposta politica a una modernità che si presenta, secondo le parole degli autori menzionati, quale processo di alienazione e sradicamento.

Nella cultura di destra circoscritta da Cangiano trovano allora spazio tanto i seminali dibattiti sullo scontro tra Kultur e Zivilisation, argomento dei primi capitoli del volume, quanto le successive teorizzazioni circa il nuovo ruolo dell’intellettuale di fronte alle masse nazionali (e che vedono, a titolo di protagonisti, autori di respiro e fama europei quali Barrès, Brasillach o Malaparte), fino al problema della tecnica così come delineato da Spengler e Jünger, in un caleidoscopio di voci e produzioni letterarie che, per quanto difformi per stile e posizioni,  vengono nondimeno presentate secondo una innegabile coerenza.

Se, da un lato, la cultura di destra non è la sola ad aver registrato tanto l’esperienza della crisi quanto il desiderio di comunità che, dirette conseguenze dell’esito atomizzante proprio della società di massa, si pongono a motivi ricorrenti entro le sue numerose variazioni, d’altra parte essa si è contraddistinta per una specifica tonalità emotiva e uno specifico stile reattivo. Solo a prima vista le considerazioni di Bataille sul mondo liberale come «mondo di vegliardi dai denti cascanti» sembrano prossime a quelle, loro contemporanee, di Drieu La Rochelle in merito alla tradizione europea ridotta a «rovina e polvere», o di Jünger sul «mondo invecchiato»: dove la cultura di sinistra finisce per riconoscere nuove polarizzazioni e nuovi conflitti dagli esiti ancora incerti, ma che attestano la presenza irriducibile dell’antagonismo in seno a una società troppo a lungo ammantata di omogeneità (basterebbe, a titolo di esempio, citare le ricerche di Bataille sul fascismo, quelle di Balibar sulla paura delle masse, o lo stesso concetto di populismo secondo Laclau), la cultura di destra osserva la società scorgendovi piuttosto inesorabili movimenti di disgregazione e frammentazione, pronti a compromettere una totalità la cui certezza è fuori discussione. Ad accomunare l’ampio spettro di posizioni in seno alla cultura di destra è proprio la tendenza a presentare la nascente società di massa nei termini di un disfacimento dell’ordine sociale preesistente, con le sue differenze e le sue gerarchie ontologicamente giustificate.

Ciò che la cultura di destra di inizio secolo, nelle sue molteplici rifrazioni, non manca allora di sostenere è l’ipotesi di una manovra demiurgica nei confronti di una società avvertita come irrimediabilmente compromessa nel suo decorso storico; una manovra posta indecidibilmente tra l’attivismo celebrante la violenza, quale mezzo esclusivo di trasformazione, e il pessimismo che accompagna una lettura decadente del mondo. La cultura di destra si mostra così costantemente esitante tra l’illusione di un ritorno del passato, ora infranto, e la celebrazione di un patrimonio tradizionale assunto come un repertorio di elementi imperituri e disponibili, da recuperare entro un approccio strumentale della storia, il cui fine altro non è se non «la produzione di ordini simbolici tesi a mantenere unita una società in procinto di frantumarsi» (p. 29). Che si tratti del compito destinale a cui Hofmannsthal chiama il Popolo, o dell’esaltazione jüngeriana del potenziale creativo della Tecnica, in grado di saldare nuovi e inauditi legami tra individui altrimenti sconnessi, o del diniego operato nei confronti della storia dai cultori di una concezione mitico-archetipale della Tradizione – da affermare contro ogni esperienza del presente – la cultura di destra si troverebbe perennemente tesa a «postulare un orizzonte di verità fuori dalle continue modificazioni storiche» (p. 120). All’ombra di un simile orizzonte, tanto i movimenti dialettici del pensiero quanto i tentativi di analisi critica della complessità recedono lasciando il campo a un linguaggio permeato di elementi assertivi, mitologici, pienamente autoritari nella loro pretesa autoevidenza: «compito dell’intellettuale di destra è appunto operare in modo selettivo su tale materiale storico, razionalizzandolo in un coerente progetto politico-culturale che risulti spendibile a livello ideologico» (p. 193).

E tuttavia, quali che siano le forme in cui si condensa questo «desiderio di immobilità», questa «eternizzazione del presente» (p. 121), esse non possono esimersi dal tradire una segreta complicità con quella cultura borghese della razionalizzazione strumentale da cui i tentativi politici della destra vorrebbero prendere le distanze (giungendo, talvolta, a considerarsi addirittura quale rimedio). Così come l’esaltazione del suolo e del sangue hanno sempre lavorato in posizione ancillare rispetto alle pretese coloniali d’Europa, similmente la riaffermazione dei “veri” Valori spirituali da opporre alla presunta decadenza dell’Occidente, lungi dal costituire un punto di fuga rispetto processi della modernità, ha piuttosto accelerato sia i processi di nazionalizzazione delle masse che il consolidamento delle élite politiche ed economiche del tempo. Nonostante i vagheggiamenti di rivolta contro il mondo moderno, o le retoriche di un’azione assoluta e definitiva, in netta rottura rispetto alla sterile agitazione presente, la cultura di destra si riconferma ogni volta «parte del medesimo orizzonte borghese, cioè parte integrante di quella costruzione strumentale del Verum che, mentre chiama continuamente all’autorità di ciò che è fuori-del-tempo, vi sostituisce quella dell’ordine corrente» (p. 123).

La proliferazione di simboli, miti, discorsi e «idee senza parole», quali espedienti per governare l’ingovernabile esorcizzando ogni trasformazione storica, «re-introduce immobilità nel flusso della storia e tiene dunque sotto chiave gli svolgimenti storici (quelli che possono anche portare alla caduta della struttura economica corrente: il capitalismo» (p. 169). Prova ne è l’intima connivenza tra quei valori supposti eterni (siano essi nazionali, razziali o sociali) con cui la modernità sembra aver smarrito ogni contatto, e l’azione di uno Stato costantemente proteso a porsi quale difensore di tali valori, attraverso la ricostruzione forzata di legami connettivi tra individui. Ecco allora che, a loro volta, anche le formulazioni più avverse alla storia, quale massima imputata nel processo moderno di allontanamento dalla trascendenza, vengono riprese e strumentalizzate entro precisi movimenti storico-ideologici, organizzati come altrettanti modi per arginare, rallentare o incanalare il farsi di un mondo così fluido da scorrere tra le mani di chi brama ardentemente governane il divenire.

Nel percorrere le diverse tappe entro cui si snoda la ricerca di Cangiano, la cultura di destra finisce così per presentarsi come il mero riflesso di un capitalismo intento a porre sotto controllo le sue stesse implicazioni. E se le sue produzioni culturali posseggono talvolta il fascino dell’attuale, «riflett[endo], come sintomi, i cambiamenti sociali in corso, a cominciare dall’ascesa delle masse» (p. 196), non per questo giungono a porre in questione, dialetticamente, i processi che contribuiscono a un simile divenire. Emblematici, in tal senso, sono i discorsi prodotti attorno alla guerra, concepita quale operatore di riunione e consolidamento, poiché in grado di fondere il popolo disperso, con i suoi elementi disgregati e le sue classi, in un Popolo sovraccarico di destino. Cangiano, a tal proposito, osserva come gli intellettuali interventisti del 1914, illudendosi di riconoscere nella guerra il rimedio alla degradazione tecnologico-nichilista patita dalla propria epoca, non si siano accorti per tempo di aver contribuito, in tal modo, alla sua parossistica esasperazione. Se ne resero conto, non senza amarezza, proprio alcuni esponenti della medesima area, come lo stesso von Salomon, il quale già nel 1930, con I Proscritti, giunse a confessare come l’agitazione confusa dei reduci, la loro spinta cieca a combattere a qualunque prezzo, fosse alla fine servita da ancora di salvataggio per trattenere al proprio posto l’ordine borghese in pezzi: «Dio ci perdoni, quello fu il nostro peccato contro lo spirito. Credevamo di salvare il cittadino e salvammo il borghese».

Ancora oggi non mancano quanti, animati da analoghe velleità di salvezza, vorrebbero riabilitare le «cattivissime compagnie» (p. 527) che popolano il volume, col proposito di fornire una bussola ideologica al disorientamento presente: se queste continuano a sedurre i propri lettori, è perché, capaci di rendere sensibile nei loro discorsi una certa modalità di esperire il malessere contemporaneo, si comportano come altrettanti segnalatori di cambiamento: linguaggi appariscenti ed estetizzanti, così appaganti nella loro vistosità altisonante, benché radicalmente incapaci di scorgere, in seno alle trasformazioni in atto, una qualsiasi carica emancipatoria.


Mimmo Cangiano, Cultura di destra e società di massa. Europa 1870-1939, Milano, nottetempo, 2022, pp. 512, € 22.