Paragonato a scrittori del calibro di Melville e Faulkner, tanto per il respiro epico di alcune sue opere che per aver proseguito e rinnovato la tradizione del romanzo americano Southern gothic, Cormac McCarthy abbonda indubitabilmente di tutti i doni fondamentali del grande scrittore: sensibilità nell’osservare, grande abilità espressiva e una visione del mondo tanto profonda quanto personale. Nel corso di una lunga carriera letteraria, cominciata nel 1965 con Il guardiano del frutteto, McCarthy ha infatti prodotto opere di enorme interesse per la critica, come Suttree (1979) e Meridiano di sangue (1985), ottenendo inoltre un ampio riconoscimento di pubblico grazie ai tre romanzi che compongono la Trilogia della frontiera (1992-98) e a La strada (2006), romanzo vincitore del premio Pulitzer .

È naturale, quindi, che le aspettative per il suo successivo lavoro letterario di ampio respiro fossero piuttosto alte, anche per via di una serie di voci che circolavano ormai da tempo, lasciando immaginare che si sarebbe trattato di un’opera diversa dalle precedenti. Finora, infatti, lo scrittore si è mosso all’interno di una nube tematica di cui fanno parte laconici cowboy con le loro immancabili pistole e conseguenti sparatorie catartiche, una fascinazione per la desolazione dei deserti e una marcata (e per alcuni sospetta) mancanza di personaggi femminili. Il dittico che comprende The Passenger e Stella Maris, uscito a fine 2022 e in corso di pubblicazione per Einaudi, in preparazione già dagli anni ’80, ha lasciato però ipotizzare da subito che queste ultime opere si sarebbero distaccate dalle precedenti per almeno due ragioni. La prima sarebbe stata la scelta di una protagonista femminile, Alicia Western – una rarità per un autore i cui personaggi femminili, quando presenti, ricoprono di rado ruoli lusinghevoli. La seconda sarebbe stata la centralità della prospettiva scientifica, fin qui marginale – anche se in parte presente, volendone rintracciare le orme nel vocabolario botanico de Il guardiano del frutteto, ad esempio, o in alcune considerazioni del giudice Holden in Meridiano di sangue.

I protagonisti di The Passenger e Stella Maris, infatti, sono a tutti gli effetti scienziati, e non solo, dal momento che gli interessi di entrambi spaziano dalla biologia alla matematica, dalla filosofia alla letteratura, ricalcando forse quelli dello stesso McCarthy. Dagli anni ’80, infatti, lo scrittore collabora con il Santa Fe Institute, un istituto di ricerca scientifica multidisciplinare che si occupa principalmente di sistemi complessi adattivi, e i cui membri, a detta dello stesso McCarthy (nonché a giudicare dalle loro pubblicazioni) sembrano trovarsi a proprio agio tra le più disparate branche del sapere. Gli interessi di ricerca scientifici e filosofici di McCarthy, come pure la possibilità di una loro influenza sulla sua produzione letteraria, sono però rimasti piuttosto nell’ombra, vista la nota reticenza dell’autore a concedere interviste di qualsiasi tipo. Questo, almeno fino alla pubblicazione di The Passenger e Stella Maris: due opere che offrono finalmente l’opportunità di leggere un Cormac McCarthy teoreta.

I romanzi si incentrano rispettivamente sui fratelli Bobby e Alicia Western, figli di uno scienziato coinvolto nel progetto Manhattan, che portò storicamente alla costruzione delle prime bombe atomiche. In The Passenger, Bobby, un sommozzatore di salvataggio, ritrova un aereo in cui mancano un passeggero e la scatola nera. Per motivi ignoti il governo sembra voler tenere nascosto l’incidente e Bobby, in quanto possibile sospettato (o testimone) si ritrova presto bersagliato da interrogatori, conti in banca bloccati e sequestri di proprietà personali, venendo di fatto costretto alla fuga. Nel suo progressivo allontanarsi dalla società, scopriamo che Bobby è in realtà il personaggio di una «missing Greek tragedy» (p. 138), nelle parole di un suo compagno di bevute: la sua tragedia è in parte rappresentata dalla progressiva invasione delle autorità governative nella sua vita e in parte dall’amore e dai sensi di colpa verso la sorella Alicia, morta suicida qualche anno prima. Bobby è in questo senso un tipico personaggio McCarthiano, un vagabondo in lutto perpetuo per una perdita non quantificabile, ma un vagabondo che, questa volta, sembra più disposto a riflettere sulla natura e sulle ragioni metafisiche di questa perdita: buona parte del libro è infatti composta di dialoghi fra Bobby e conoscenti, in cui si discutono i soggetti più disparati –  dall’assassinio di Kennedy alla meccanica quantistica, dall’influenza della costruzione della bomba atomica sulla letteratura alla filosofia di Kant.

Allo stesso modo, ma più ampiamente e profondamente, Alicia stessa discute assieme al suo psichiatra nella clinica il cui nome dà il titolo al secondo romanzo del dittico, questa volta composto interamente in forma dialogica. Stella Maris non è solamente il nome di una clinica e il titolo del romanzo, ma anche, significativamente, una delle possibili denominazioni della stella polare (oltre che della vergine Maria, altro riferimento pregnante se si considera l’immaginario religioso di McCarthy), unica stella immobile attorno a cui ruotano tutte le altre. Così la relazione fra i due libri, come anche quella fra i due fratelli, protagonisti rispettivamente dell’uno e dell’altro, si caratterizza appunto come quella fra un cardine e ciò che vi gravita attorno.

Se The Passenger è più vicino ai lavori precedenti di McCarthy per modalità narrative, stile e temi, la sua novità risiede nel far gravitare una tipica trama noir McCarthiana attorno al personaggio assente di Alicia, centro del lutto di Bobby e delle sue scelte di vita – personaggio che in Stella Maris si rivela poi completamente, gettando luce su molti punti oscuri del romanzo precedente e non solo. Nonostante alcune debolezze nella caratterizzazione di Alicia, viziata da una serie di stereotipi evitabili (McCarthy stenta a abbandonare lo spettro duale Madonna-whore, quando si tratta di donne), Stella Maris si colloca infatti fra i libri più interessanti di McCarthy proprio per questa sua capacità di dischiudere la visione del mondo del suo autore, incastonandosi come una chiave al centro della sua produzione letteraria.

Ma qual è questa visione? E quanto delle parole di Alicia può effettivamente essere attribuito a McCarthy, operando una pericolosa e forse impropria sovrapposizione fra autore e personaggio? Anche se non tutto ciò che Alicia dice è rintracciabile altrove in interviste e dichiarazioni (rarissime) di McCarthy, almeno uno dei suoi argomenti di discussione, e forse uno dei più cruciali, sembra essere estratto direttamente, se non dalla filosofia personale, almeno dagli interessi di ricerca dell’autore. L’argomento in questione è trattato nella sua unica pubblicazione accademica, The Kekulè Problem. In questo articolo, i cui contenuti sono discussi apertamente da Alicia in diversi passaggi di Stella Maris, McCarthy discute le potenzialità dell’inconscio, utilizzando come esempio centrale il famoso aneddoto per cui il chimico tedesco August Kekulé avrebbe ricevuto in sogno la soluzione a un problema su cui rifletteva da tempo, ovvero come immaginare la struttura di una molecola di benzene: nel sogno di Kekulé sarebbe infatti comparso un serpente che si morde la coda, permettendogli di indovinare la struttura circolare della molecola. Per McCarthy, la possibilità di risolvere problemi in sogno è significativa nel dimostrare l’esistenza di operazioni mentali complesse che restano però del tutto inconsce, tra le quali spicca, come esempio lampante, l’espressione linguistica. Riprendendo Wittgenstein (che si affaccia qua e là tanto nelle meditazioni di Alicia quanto nelle interviste rilasciate dall’autore), McCarthy sostiene infatti che buona parte dell’espressione linguistica quotidiana non pianificata avvenga esprimendo linguisticamente contenuti mentali fino a poco prima inconsci, che vengono in qualche modo tradotti istantaneamente in parole comprensibili dalla loro originale forma prelinguistica. Ma che forma hanno allora questi contenuti mentali, prima di essere espressi?

Questa domanda apparentemente specialistica assume in Stella Maris una portata esistenziale e filosofica più ampia, estendendosi dal rapporto fra inconscio e linguaggio a quello eternamente problematico e ad esso in parte sovrapponibile fra realtà e sue possibili rappresentazioni: «in the end this strange new code [language] must have replaced at least part of the world with what can be said about it. Reality with opinion. Narrative with commentary» (p. 175). Nelle conversazioni di Alicia, oltre a comparire esplicitamente nell’esempio sopracitato del sogno di Kekulé, il dualismo realtà/rappresentazione si riflette anche in una serie di passaggi sulla validità del platonismo matematico e delle rappresentazioni matematiche del mondo, come pure in altre discussioni ricorrenti sullo spinosissimo problema dei qualia, ovvero sulla possibilità di spiegare in termini puramente materialistici gli aspetti fenomenici della nostra esperienza percettiva e interiore – passaggi in cui l’idea di linguaggio arriva a includere tanto i codici verbali e matematici quanto, in senso più ampio, la facoltà stessa di percepire e pensare il mondo esterno tramite il filtro della mente.

Avendo tra le mani un’opera letteraria, non si può non cedere alla tentazione di applicarvi la prospettiva espressa dal suo autore – soprattutto quando essa riguarda direttamente il dualismo fra realtà e rappresentazione, fra narrativa pura e commento. Dal punto di vista stilistico, ad esempio, molto di ciò che viene espresso nelle teorie di Alicia potrebbe infatti motivare la predilezione di McCarthy per la descrizione piuttosto che per l’analisi interiore, come pure il progressivo inaridimento della descrizione stessa, evolutasi dallo stile articolato, lirico, ricco di arcaismi e periodi complessi di Suttree e Meridiano di sangue, a quello più asciutto ed essenziale di Non è un paese per vecchi e La strada. Per chiarire la relazione tra descrizione e analisi in McCarthy si può prendere come campione il paragrafo seguente, tratto da The Passenger:

«Quiet. Cold. The fires from the pipes at the wells burning like enormous candles and the lights of the town washing out the stars to the east. He stood there a long time. You think that there are things which God will not permit, she had said. But he didnt think that at all. His shadow from the motel lights fell away over the raw stubble. The trucks grew fewer. No wind. Silence» (p. 310).

Risalta subito l’alternanza di descrizioni punteggiate, brevi, fattuali, al centro delle quali si espande brevemente la bolla del ricordo di una conversazione con Alicia, solo per essere immediatamente riassorbita dal particolare descrittivo, dalla presenza esterna dell’ombra di Bobby. Alla luce della distinzione fra narrativa pura e commento, è possibile leggere ora questa predilezione per la descrizione come un tentativo di McCarthy di accedere e far accedere il lettore precisamente a quella dimensione di narrativa pura che è la realtà: per quanto infatti la letteratura resti una forma di rappresentazione, McCarthy sembra aver tentato, nel corso degli anni, di spogliare il più possibile la prosa dei suoi aspetti accessori e ornamentali, eliminando prima di tutto le riflessioni e poi, almeno in parte, il lirismo descrittivo, ovvero tutti quegli aspetti che qualificano, invece di presentarla semplicemente, la realtà.

Alla luce di questa connessione fra visione del mondo e stile, il breve excursus filosofico e a tratti meta-letterario rappresentato da Stella Maris può inoltre aiutare a comprendere la funzione del linguaggio e della letteratura stessa in questo autore così restio a parlare di letteratura. Con Stella Maris, McCarthy ha compiuto un passo ulteriore rispetto alle sue opere precedenti, ripensando, in questo libro fragilissimo ma risolutamente eloquente come la sua protagonista, il ruolo della mente e il legame che essa intrattiene con la realtà. Stella Maris funge infatti da commento a quella narrativa pura che è The Passenger, senza però presentarsi come semplice glossa al romanzo precedente, ma invece integrando e a tutti gli effetti completando un materiale di base che, senza di esso, sarebbe rimasto mutilato – così come forse la realtà stessa rischierebbe di rimanere mutilata in assenza delle sue rappresentazioni possibili.

Nel gioco di interdipendenza che questo romanzo stabilisce col precedente, completandone la trama e illuminandone gli aspetti tematici più oscuri, è infatti possibile riconoscere il rapporto di interdipendenza più ampio che intercorre tra narrativa pura e commento, tra realtà e sua rappresentazione: Alicia riporta nella sua conversazione una serie di incubi e osservazioni che suggeriscono, prima di tutto, quanto più complessa sia la realtà rispetto alla nostra capacità di descriverla (complessità evocata anche dalle cosiddette “allucinazioni” della stessa Alicia, la cui natura ultima non viene mai chiarita) e, in secondo luogo, che nella dualità realtà/rappresentazione la realtà potrebbe non essere il polo positivo fra i due. La realtà percepita da Alicia – la stessa realtà che la spinge al suicidio – sembra infatti incorporare un oscuro difetto connaturato, se non una volontà manifestamente malvagia, che potrebbe giustificare al suo interno un’invasione parassitica del linguaggio e della mente come tentativo di ristrutturarla. È forse la realtà stessa, inaspettatamente, a costituire il polo satanico, maligno, nel dualismo fra realtà e rappresentazione; è forse la narrazione pura a contenere insensatezza e orrore, come sembrano suggerire anche le lunghe e infernali sezioni narrative di Meridiano di sangue.

Nel commentare questa realtà, indagandola scientificamente e filosoficamente tramite i dialoghi dei suoi personaggi, come pure ricongiungendola in una narrativa letteraria sensata, ovvero compiendo tutto quel lavorio intellettuale unificato in cui consiste l’illuminazione della realtà tramite le operazioni della mente, dalle più elementari alle più complesse, la realtà stessa sembra venire in qualche modo riqualificata e completata dall’aggiunta di un senso e di una direzionalità che prima le mancavano, nello stesso modo in cui Stella Maris riqualifica e completa la narrativa pura di The Passenger. Nelle parole di Bobby, che si richiama a Kant: «There were no starry skies prior to the first sentient and ocular being to behold them. Before that all was blackness and silence» (p. 149).

Ovviamente, quello del rapporto fra realtà e rappresentazione non è che uno dei molti nodi argomentativi all’interno di The Passenger e Stella Maris: forse quello centrale e attorno a cui ruotano tutti gli altri, ma certamente non l’unico degno di interesse. Il libro lascia infatti molti misteri irrisolti, e i molteplici sogni raccontati dai personaggi meriterebbero a loro volta un’analisi più approfondita alla luce della distinzione fra linguaggio e inconscio. Non solo: McCarthy riesce a scrivere di topologia, fisica e biologia come pure di Kant e Wittgenstein, Joyce e Bach, mostrando allo stesso tempo la piena estensione della propria cultura e, forse, l’aspetto che una discussione intellettuale multidisciplinare potrebbe assumere oggi, quando si riesca a combinare una preparazione culturale estesa, pronta a confrontarsi con le difficoltà tecniche dello studio scientifico, con l’arroganza ingenua del voler connettere cieli stellati e piccoli pensieri umani.

E, bisogna aggiungere, il McCarthy filosofo di questa ultimissima fase potrebbe addirittura invecchiare meglio del McCarthy narratore. Le parabole apocalittiche di insensata violenza, i personaggi che incarnano diavoli e offrono patti faustiani, i cowboy teologi-esistenzialisti, solitari e in lutto nella desolazione del deserto del mondo sono forse oggi meno incisivi di fronte alla creatività apparentemente illimitata del male reale, che supera e dileggia la nostra capacità di rappresentarlo. In Stella Maris, invece, una ragazza che ha voluto pensare fino alle profondità più oscure del pensiero e prega di vedere la verità del mondo prima di morire sembra voler aggiungere una chiosa sulla determinazione necessaria ad affrontare la realtà e il male, quando, pur avendo fallito nella sua ricerca, sceglie di prendere per mano un altro essere umano in un atto di solidarietà finale, «because this is what people do when they’re waiting for the end of something» (p. 190).


Cormac McCarthy, Il passeggero, traduzione di Maurizia Balmelli, Torino, Einaudi, 2023, 21€, 392 pp.