[immagine in copertina: una veduta di Piazza dei Cavalieri, nel cuore di Pisa, realizzata al tratto da Marcello Sessa]


Sono inevitabilmente attratto, per essere io stesso un professore universitario, dai racconti che appartengono al genere del “romanzo accademico”. Nell’insieme generalista – di cui Il professore va al congresso di David Lodge (1984) è forse l’esempio più famoso e Pnin di Vladimir Nabokov (1957) è a mio parere il più riuscito – va individuato un sottogenere particolare, che si potrebbe chiamare “romanzo para-accademico”. Qui l’eroe o anti-eroe non è il professore arrivato – o, come si dice in gergo, «strutturato» –, bensì un eroe imberbe, quasi sempre maschio, rigorosamente precario e wannabe (laureando, dottorando, assegnista, post-doc, altro), che lotta per la sopravvivenza nell’ambiente ostile e ipocrita dell’università.

Esistono anche in Italia ottimi esempi di questo particolare filone, penso soprattutto ad Apocalisse da camera di Andrea Piva (Einaudi, 2006) e a La fine dell’altro mondo di Filippo D’Angelo (minimum fax, 2012). Per certi versi si potrebbero associare al medesimo insieme anche alcune sezioni della tetralogia di Elena Ferrante, che offre una prospettiva interessante, anche perché non molto esplorata dalla narrativa, sulle carriere accademiche femminili. Alla serie viene ora ad aggiungersi La ricreazione è finita (Sellerio, 2023), ottima seconda prova di Dario Ferrari.

È il racconto in prima persona di Marcello Gori, un trentenne che, dopo una laurea in lettere, galleggia nella dorata nullafacenza della Versilia. Quintessenza del millennial choosy e bamboccione (ma nonostante questo tutt’altro che antipatico), Marcello vive a Viareggio con la madre e cerca al contempo di sfuggire al richiamo del bar di famiglia, dove il padre vorrebbe impiegarlo.

«Ci sono decisioni che segnano la piega che prenderà tutta una vita», esordisce Marcello, «e io finora quelle decisioni le ho sempre prese a caso». Il caso – o forse, si ipotizzerà poi, una manina interessata – porta Marcello a iniziare una tesi di dottorato all’Università di Pisa, nel dipartimento di Italianistica che è il regno del professor Sacrosanti, personaggio in odore di terrorismo nei suoi anni giovanili, e ora (siamo nel 2017) incontrastato barone.

Molto meno attrezzato dei suoi più giovani, determinati e sgamati colleghi, Marcello cerca di raccapezzarsi tra le incomprensibili dinamiche del mondo accademico. Dinamiche che al lettore non addetto ai lavori potrebbero apparire troppo smaccatamente farsesche proprio laddove Ferrari (che per la cronaca ha un dottorato in filosofia) più si avvicina al verosimile. Quando per esempio Sacrosanti apprende che l’odiato Martesana ha osato sottrargli una brillante allieva facendole avere una borsa di dottorato nel dipartimento rivale, la vendetta del barone consiste nel far vincere a un allievo di Martesana un concorso da ricercatore a Pisa. Poco importa se questa cervellotica manovra (un fuoco incrociato di favori indesiderati) penalizza Carlo, il fidato portaborse di Sacrosanti, da anni in attesa di quello stesso concorso… Ecco, chiunque conosca le dinamiche del mondo accademico prima sorriderà, poi rifletterà, infine ricorderà un aneddoto simile.

La seconda parte del romanzo prende una direzione diversa e inattesa. Con l’avanzare della ricerca, infatti, il protagonista-narratore, sempre meno ingenuo, è entrato nel vivo della tesi che Sacrosanti gli ha affibbiato: uno studio monografico delle opere di Tito Sella, vecchio amico di Sacrosanti e letterato di nicchia, morto in carcere dopo una condanna per banda armata. Nell’ambiente degli italianisti si vocifera che l’archivio di Sella, conservato nella Parigi mitterandiana dei rifugiati politici, potrebbe conservare la Fantasima, l’opera perduta nella quale Sella ripercorreva la parabola della propria militanza e delle azioni eversive che l’hanno portato in galera.

Nel nucleo del romanzo – che si intitola appunto La Fantasima – la narrazione diventa un racconto storico, condotto in terza persona e al passato remoto. E inevitabilmente si irrigidisce. Il racconto resta efficace e ben costruito, intendiamoci, ma le trovate, la lingua e i ritratti dei personaggi – Tito Sella e i suoi compagni, fondatori dell’improbabile Brigata Ravachol – non sono all’altezza della prima parte. Il sottogenere con cui dialoga questa sezione diventa l’inesauribile serie di romanzi e opere di nonfiction dedicate agli Anni di piombo (vedi da ultimo Ufo 78 dei Wu Ming). È una tradizione a cui Ferrari in parte si allinea; ma in parte, per fortuna, percorre anche una direzione nuova. Ci riesce toccando qua e là le corde del comico e ambientando la vicenda della banda non più nelle metropoli post-industriali, ma in un’inedita Versilia proletaria degli anni ’60 e ’70. Chiusa questa parentesi, si torna al racconto in prima persona di Marcello che, trovandosi a Parigi per le sue ricerche, viene tra l’altro coinvolto nelle manifestazioni dei gilets jaunes. Il ritorno a casa, le indagini sulla vicenda di Sella e sull’ultima, decisiva azione dei Ravachol portano a un colpo di scena molto ben congegnato.

Mi sono chiesto, leggendo, in che misura il genuino entusiasmo che mi hanno suscitato gli episodi della prima parte (ricordo, tra gli altri, il divertentissimo elogio delle note a piè di pagina, luogo per eccellenza in cui l’aspirante accademico impara a curare le pubbliche relazioni) possa essere condiviso anche al di fuori della bolla di lettori (para-)accademici a cui appartengo. Non sono, temo, nelle condizioni di rispondere; credo però che la scrittura di Ferrari – cioè l’ironia vivace, l’aderenza ai modi del parlato, lo stile allusivo, l’equilibrio ben calibrato tra parodia e realismo – potrà essere apprezzata indipendentemente dalla materia a cui si applica e dal microcosmo rappresentato nel romanzo.

All’interno di un discorso letterario dove si è progressivamente eroso lo spazio tra l’elogio sperticato e la stroncatura, è diventato molto difficile avanzare qualche riserva su un’opera senza dare la sgradevole impressione di volerla, sotto sotto, demolire. Quello di Ferrari – lo ripeto forte e chiaro – è un romanzo eccellente. Ci tengo a ribadirlo ancora una volta prima di muovere una critica che è soprattutto una riflessione su come i nati negli anni ’80 tendono a rappresentare il proprio orizzonte di valori e simboli.

Non ho trovato del tutto convincente, nel finale, la soluzione narrativa di coinvolgere Marcello nel movimento dei gilets jaunes(non importa se si tratta di una partecipazione occasionale, motivata più dalle contingenze che da una matura adesione ideologica). In un bel passaggio della prima parte Marcello rifletteva sulla sua condizione di trentenne “privato della storia”, nato subito dopo gli anni di piombo e ancora troppo giovane nel 2001, l’anno dei fatti di Genova, che per inciso erano lo sfondo del romanzo di D’Angelo citato più sopra e, per altre vie, fanno da pivot storico-generazionale anche nell’ultima opera di Francesco Pecoraro, Solo vera è l’estate. Nella sua meditazione Marcello sottolineava, con un’ironia mista a disincanto, la distanza abissale che c’è tra sé stesso e Tito Sella, cioè tra i venti-trentenni di oggi e quelli che hanno avuto la fortuna (?) di essere giovani negli anni delle contestazioni e della lotta armata.

Partecipando alle manifestazioni francesi, Marcello si illude per un istante di poter azzerare questa distanza. Nelle ultime pagine riconosce, sì, che è tutta un’illusione («ho pensato di potermi immedesimare in Tito Sella, improvvisandomi intellettuale, rivoluzionario, perfino scrittore, ma ho dovuto riconoscere che non era possibile»), ma in fondo si convince che alcune somiglianze di classe e di impostazione contano più delle differenze: «Tito Sella in un certo senso lo sono diventato», perché entrambi «ci siamo imbarcati in qualcosa che era al di sopra delle nostre forze, ed entrambi siamo inevitabilmente capitolati». Mi pare, però, una soluzione di comodo, troppo autoindulgente e consolatoria: Sella – cioè quello che rappresenta – ha creduto nella rivoluzione e, per rincorrerla, si è preso un ergastolo. La capitolazione di Marcello è (semplicemente) quella di una “classe disagiata” che ha visto fallire i sogni aspirazionali inculcati ai figli degli anni ’80, nel pieno dell’edonismo reaganiano, da genitori usciti più o meno disillusi dal fallimento della rivoluzione. Resta il fatto che, salvo casi speciali (forze dell’ordine, foreign fighters, ecc.), la storia l’abbiamo vista, noi e Marcello, soprattutto in televisione, da ultimo durante la pandemia.

La prima parte del romanzo, che è un piccolo capolavoro all’interno di un libro complessivamente delizioso, mi è sembrata vincente proprio per la resa incondizionata del protagonista, per il modo con cui Marcello, anziché scrivere come tutti un piagnisteo su Facebook, rappresenta con tagliente ironia (e in questo sta la sua forza eversiva) il microcosmo inabitabile, avverso, tossico e ridicolo dell’università italiana. Che corrisponde, nei suoi meccanismi disfunzionali, a ogni sistema gerarchico governato da poche figure che, amministrando troppo a lungo il potere, si riducono a mitomani. Come spiega Marcello,

«Avrete capito, in particolare, che l’accademia è un mondo psicotico affetto da una grave dispercezione della realtà, popolato da individui dotati di fama estremamente limitata (alcune micro-aree del loro micro-campo di expertise), che operano in un settore marginale e assolutamente indigente della cultura, e che nondimeno si sentono delle rockstar, e hanno ego e comportamenti commisurati a questa loro convinzione. Gente che scuote la testa incredula nel constatare che il loro La metrica nella poesia vernacolare italiana tra Ottocento e Novecento ha venduto meno dell’ultimo Strega».

Vorrei poter confutare queste parole, dire che sono esagerate, o almeno ingenerose, perché tradiscono il tipico risentimento di chi avrebbe tanto voluto fare carriera all’università e non ce l’ha fatta. Ma più cerco nella mia esperienza argomenti o aneddoti contro, più rischio di trovarne a favore. Nel mondo accademico non sono – non siamo – tutti e tutte così, è ovvio. Eppure, a meno di non essere affetti dal disturbo dispercettivo di cui parla Ferrari, bisogna ammettere che La ricreazione è finita è un ottimo, doloroso esempio di romanzo verista ambientato nell’università italiana.


Dario Ferrari, La ricreazione è finita, Sellerio, Palermo 2023, 480 pp. € 16,00.