I Racconti romani, quinto libro scritto in italiano – dopo una cospicua produzione in inglese – da Jhumpa Lahiri, condensa nelle battute finali il suo significato profondo: «“Che città di merda” dice una di noi spezzando il silenzio. “Ma quanto è bella!”». Tutta la raccolta, composta da nove racconti, si muove sul paradossale e sottile confine che separa la bellezza e la merda. Non si tratta solo “della bellezza” e “della merda” estetiche, del parco di Doria Pamphilij e dell’abbandono della vicina scalinata di Trastevere. Sono altre le bellezze e le sozzure che emergono dalle pagine delle raccolta: rari gesti di gentilezza e di reale comprensione umana, a cui fa da contraltare un profluvio di cattiveria e violenza, nella maggior parte dei casi ingiustificata: bambini che lasciano biglietti carichi di insulti a una bidella straniera, una raffica di pallini sparati da una moto in corsa, fino alla persecuzione da parte di un gruppo di nazifascisti ai danni di una giovane famiglia appena insediatasi nelle case popolari.

Fin dal titolo la città di Roma è la vera protagonista della raccolta, come dimostra l’omaggio moraviano, ma qui Roma non è un luogo, e nemmeno un “non luogo”, bensì uno spazio in-between, area ibrida e relazionale, sede di scambi e di scontri, in cui le diverse civiltà entrano in contatto e in contrasto plasmando uno spazio diverso da quello di partenza e in continua evoluzione.

I protagonisti dei nove racconti sono tutti privi di nome, identificati senza scampo nella loro funzione: sono, per un motivo o per l’altro, spatriati. Hanno lasciato la loro casa per l’amore, a causa della guerra, per inseguire un futuro migliore o senza una ragione vera e propria.

Roma non fa solo da paesaggio, ma è il vero e proprio protagonista dei racconti di cui i personaggi umani sono figure secondarie, la città è il collante proteiforme e magmatico che tiene insieme vite senza patria, ma non per questo apolidi.

La raccolta è divisa in tre parti (un implicito ossequio a Dante Alighieri che tornerà nell’ultimo racconto?), la prima e la terza delle quali contengono quattro racconti ciascuna, mentre la seconda è costituita solo da La scalinata (per un totale di nove racconti: ancora un omaggio alle simbologie numeriche della Commedia?). L’insistenza sul modello dantesco – simbolo antonomastico di italianità che tanto può significare per una scrittrice non italofona – è giustificato dalla scelta del titolo dell’ultimo racconto, che si intitola per l’appunto Dante Alighieri, in cui la vita di una donna – prima giovane e poi anziana – è narrata sulle tracce del poeta fiorentino.

Il testo centrale La scalinata è costituito da sei micronarrazioni ed è al contempo figura e allegoria dell’intera raccolta, e di Roma stessa, come luogo di incontro di esistenze e di destini. Le sei vicende si svolgono tutte sulla scalinata di Trastevere: i protagonisti di ciascuna di queste non si conoscono e le loro vite non si intersecano mai, ma la scalinata rappresenta il punto di incontro di tutte le loro vite; da una giovane donna che deve essere operata a due fratelli che si ritrovano per il funerale del padre omosessuale, passando per una vecchina misantropa e tradizionalista. La scalinata accomuna le esistenze di chi vi transita e crea un filo invisibile che le unisce, al netto delle loro profonde differenze. Allo stesso modo, la scalinata è vista come luogo idillico o come tremendo spazio di degrado e malavita, così come Roma può essere «bella» o una «merda».

Il libro di Lahiri racconta soprattutto delle diversità e dei traumi che la città di Roma può causare. Nella raccolta ognuno ha una sua peculiarità, ma questo non significa, come il lettore sarebbe portato a pensare, che tutti sono uguali nella differenza. La disuguaglianza resta tale e non si omologa a una posticcia originalità.

Nella rappresentazione della diversità di Lahiri c’è però sempre qualcosa di ombroso e inquietante: non c’è quasi mai l’euforia dello scambio tra culture diverse, neanche tra bambini. La vita per i personaggi sembra sempre essere percorsa da traumi, più o meno segnati da angosce invisibili e mai somatizzate: una governante che si prende cura di una casa e ogni settimana ripete ritualmente l’addio alla famiglia ospitante cela il trauma più grande e silente del pestaggio subito dal padre; una battuta cattiva di una bambina fa adombrare una giovane donna straniera, a cui viene detto che è brutta – ripetutamente – perché ha il colore della pelle più scuro; due ragazzi in motorino sparano colpi a pallini a una giovane,  e immediatamente la scena si sposta sul pomeriggio trascorso in spiaggia dai due assalitori, come se nulla fosse successo.

Il libro di Lahiri è scritto magistralmente, con una prosa limpida, paratattica, che non diventa mai banale: racconta vite intere in poche frasi, senza mai essere cursoria. Eppure questa sapienza tecnica non basta a rendere la raccolta del tutto convincente: il suo neo più evidente è la costante contrapposizione manichea tra chi è diverso, e dunque buono, e chi non lo è, e dunque è descritto come necessariamente cattivo. La cattiveria in questi racconti è spesso banale, alla Arendt, e forse anche inconsapevole, mentre la bontà appartiene sempre a chi è diverso, a chi è emarginato. Lahiri avrebbe voluto scrivere un libro sfumato, chiaroscurale, ma finisce per avvalersi di un “bianco e nero” morale molto netto, che manca di raccontare come chiunque, se osservato dalla giusta prospettiva, può presentare aspetti di meschinità o magnanimità.

Lo stereotipo del romano verace non è mai in scena: l’alta borghesia è rappresentata da ricchi americani alla ricerca dell’esotico. Ci sono traumi, ma non c’è un vero conflitto di classe, e questo collide con le intenzioni di un libro che vuole invece raccontare la città come un in-between. Il mondo romano di Lahiri sembra dividersi in immigrati deraciné, costretti a sbarcare il lunario, e il mondo dell’alta borghesia, che dà suntuose feste annuali. Manca il mondo di mezzo, che è il vero mondo di Roma, che dovrebbe davvero trovare spazio in dei Racconti romani che si rispettino, e che, in effetti, costituisce il nucleo caldo dei Racconti Romani di Moravia.

La quarta di copertina – anonima – parla di una «Roma mista e metafisica». Sicuramente l’atmosfera è metafisica: seppure nella durezza degli scontri, che però sono sempre rarefatti, la città perde la sua concretezza e resta solo la silhouette di un mondo bipartito. Questo è il punto della metafisicità: non c’è nulla di fisico, nulla sembra accadere, e anche i traumi attorno a cui ruotano i racconti restano talvolta allegorie vuote. Simboleggiano il male del nostro mondo, della città di Roma, ma non la raccontano attraverso traumi “in alta definizione”, bensì attraverso episodi che restano metafisici, schematici. Essi rimangono emblema di quel mondo in-between che rimane il focus della narrazione di Lahiri. Il testo conclusivo, Dante Alighieri, è sintomatico di questo fallimento esistenziale: si racconta di una vita che sembra partire da grandi premesse romanzesche (un tormentato amore adolescenziale americano) e si riduce ai triti e banali avvenimenti di una vita alto-borghese romana, per poi concludersi in chiacchiere da bar vuote e ridanciane.


J. Lahiri, Racconti romani, Milano, Guanda, 2022, 256 pp., € 17.