A due passi dalla Tour Eiffel, al numero trentasette di Quai Jacques Chirac, sorge il Musée du quai Branly, ossia il Musée des Arts premiers o arts et civilisations d’Afrique, d’Asie, d’Océanie et des Amériques, un museo insomma dove c’è esposto un po’ di tutto purché non sia occidentale. Tra le sale si aggira Gabriela Wiener, scrittrice, giornalista di El País e performer di origini peruviane ma residente a Madrid. Gabriela, a Parigi causa lavoro, coglie l’occasione per visitare il museo etnografico che ospita una collezione di circa quattromila manufatti portati in Francia dal Perù alla fine dell’Ottocento da Charles Wiener. No, non è un caso che il cognome sia lo stesso. Da generazioni nella famiglia della scrittrice si tramanda il mito della discendenza da un esploratore europeo spintosi quasi fino a Machu Picchu.

Gabriela osserva ogni reperto e ogni statuetta – quei corpi che somigliano così tanto al suo – e cerca risposte ai dubbi sulle origini, una qualche verità sull’appartenenza, sulla sua famiglia, sul trisavolo Wiener. Tra le sale del Branly l’autrice getta le basi per una riflessione complessa e attualissima portata avanti in Sanguemisto, sua quinta opera arrivata in Italia grazie a La Nuova Frontiera con la traduzione di Elisa Tramontin. Sanguemisto sfugge a qualsiasi categoria letteraria: è un romanzo familiare, un’inchiesta, un saggio sul razzismo scientifico, un memoir e un manifesto della decolonizzazione nel mondo contemporaneo.

«Sono consapevole che cerco di costruire qualcosa con i frammenti rubati di una storia incompleta».

Il racconto muove da due pretesti narrativi. l primo è la ricerca intrapresa da Gabriela, autrice e protagonista allo stesso tempo, sul trisavolo Wiener e sulle origini del ramo della famiglia che lei stessa definisce bastardo; il secondo è la morte del padre, il dolore ma anche la consapevolezza di somigliare al genitore più di quanto credesse. Le due linee narrative si alternano nel testo per poi incontrarsi – e scontrarsi – sul terreno comune del corpo e dell’appartenenza.

Chi era Charles Wiener? E perché nella famiglia dell’autrice è considerato ancora oggi, dopo due secoli, un antenato illustre di cui vantarsi? Nella seconda metà dell’Ottocento Karl Wiener, figlio di Samuel e Julia, aveva sedici anni, era ebreo e aveva appena perso suo padre. La famiglia decise così di trasferirsi in Francia dove Karl prese a farsi chiamare Charles. Diventò un comunissimo insegnante con un cognome storpiato dai francesi. Negli anni e con non poco sforzo riuscì a entrare nel giro dei salotti della Società Geografica di Parigi dove amava pavoneggiarsi delle sue idee liberali – «che avrebbero inorridito il bisnipote, quel socialista di mio padre», scrive Gabriela.

Pubblicò un saggio in cui argomentava con profonda convinzione l’esistenza di un impero comunista degli inca; un governo, secondo Wiener, basato sull’autoritarismo a cui si sarebbe ispirato Luigi XIV per la formula “Lo stato sono io”. Era convinto delle sue supposizioni, ma è evidente che avesse le idee molto confuse. Nonostante questo, fu così persuasivo che nel 1876 riuscì a partire per il Perù a capo di una spedizione finanziata dal governo francese; l’intento era raccogliere manufatti da esporre in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1878.

Non aveva competenze archeologiche o antropologiche che gli permettessero di pianificare una missione scientifica. In realtà, il suo unico intento era essere riconosciuto e apprezzato per il suo operato dalla società. Il come ci sia riuscito è a distanza di secoli abbastanza chiaro. Si è attribuito meriti di altri esploratori, ha trascritto delle memorie di viaggio – il suo Perú y Bolivia. Relato de viaje – così fantasiose che, per usare le parole dell’autrice, «se fosse vissuto nel XXI secolo lo avrebbero accusato del peggio di cui si può accusare uno scrittore: di fare autofiction».

Nei mesi trascorsi in Sudamerica, Wiener conobbe María Rodríguez. Dal loro rapporto – fugace, struggente o sincero non è dato sapere – il 6 maggio del 1877 nacque Carlos Wiener Rodríguez, il bisnonno di Gabriela. Carlos restò in Perù con la madre, e non conobbe mai il padre. Il quale invece, tornato in Francia, ottenne la legione d’onore per il servizio reso alla comunità scientifica.

Nel corso della narrazione l’opinione dell’autrice muta. Se in un primo momento sembra rinnegare l’antenato, proseguendo con le ricerche prova a immedesimarsi nella sua vicenda. L’improbabile etnografo voleva solo appartenere, sentirsi parte della nazione in cui si era trasferito, voleva dimenticare Karl ed essere solo Charles. Non fu una condizione così diversa da quella che Gabriela vive da più di dieci anni in Spagna dove continua a essere insoddisfatta, irrequieta. Alla fine del diciannovesimo secolo il patriarca dava alla Francia un racconto efficace delle sue imprese grazie a figure retoriche – l’iperbole di sé stesso era la sua preferita – che lo aiutarono a costruirsi come personaggio; oggi la sua discendente decostruisce sé stessa come membro della famiglia Wiener e come donna del suo tempo.

«Se provassi a fare un riassunto simile della mia vita bisognerebbe aggiungere, alla mia condizione attuale di emigrante di una ex colonia spagnola in Spagna, la natura bastarda in cui mi collocano le spedizioni scientifiche franco-tedesche dell’Ottocento, movimenti geopolitici che mi rendono, al tempo stesso, una discendente dell’accademico e un oggetto archeologico e antropologico qualsiasi».

Il secondo pretesto narrativo è la morte del padre. Il lutto diventa ancora una volta occasione di riflessione e ricerca. Gabriela torna a casa in Perù e, senza pensarci troppo, quasi fosse guidata da una forza a lei estranea, rovista tra mail e messaggi archiviati dal genitore. Ci sono le sue mail di figlia e quelle della donna con cui lui ha avuto per trent’anni una relazione parallela. Due vite, due donne, più figlie. Così l’infedeltà del padre verso la moglie «ufficiale» diventa quella di Charles verso il patrimonio peruviano – strappato alla sua terra come le pale d’altare rinascimentali per essere musealizzate – e Gabriela si chiede quanto di questi due uomini ci sia in lei, quanto egoismo occidentale e quanto patriottismo peruviano. Ma non si tratta solo di questo.

Gabriela ha un marito cholo, che è anche il padre di sua figlia, e una compagna bianca. Vive da anni una relazione di poliamore che lei stessa ha voluto e desiderato ma nella quale sembra non riuscire più a riconoscersi. Tradisce e si maledice. Tradisce e la gelosia la tiene sveglia di notte. L’autrice sa che «è agghiacciante ma la gelosia muore solo con il corpo». E lei ha desiderato morire per non sentirsi più così vulnerabile.

«Il poliamore è una pratica bianca che non tiene conto di come funziona la circolazione della desiderabilità e i suoi limiti per persone come noi, le brutte della festa».

Sarà l’incontro con una donna nera e il desiderio fisico di lei a dimostrarle che il processo di decolonizzazione non si è ancora compiuto, né per il suo corpo né per la sua mente.

Marguerite Yourcenar in Il Tempo, grande scultore ha scritto che «gli esseri imperfetti si agitano, e si accoppiano per completarsi, ma le cose perfettamente belle sono solitarie come il dolore dell’uomo». Sentirsi completi o meglio tutti interi – parafrasando il titolo del romanzo di Espérance Hakuzwimana – è un obiettivo spesso raggiungibile solo attraverso il dolore. Un dolore viscerale, che ha origini lontane nel tempo e nello spazio; e si manifesta attraverso il corpo che tradisce un cognome occidentale ereditato secoli prima. 

Sanguemisto è proprio questo, il racconto di una donna schiava delle sue origini e della contemporaneità, che avverte forte l’esigenza di una consapevolezza ultima. È quindi la facoltà di discernimento di una condizione nuova: essere insieme huaquero e huaco, colonizzatore e colono, vittima e carnefice. La storia del corpo diventa la storia di una famiglia, del Perù depredato e dell’America Latina tutta. Ma anche della Francia colonizzatrice e della Spagna che non è casa, senza verità assolute né soluzioni illuminanti, ma solo l’esigenza di comprendere e comprendersi.


Gabriela Wiener, Sanguemisto, tr. it. di E. Tramontin, Roma, La Nuova Frontiera, 2022, € 17,90 (e-book €10,90).