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Cani di Dio e spari nel buio: una conversazione con Carlo Ginzburg

Bruce Lincoln: Ho il sospetto che l’attrazione seducente del rischio sia così grande che gli studiosi ambiziosi, intelligenti, energici e visionari sono regolarmente attirati al di là di ciò che possono realmente controllare.

Carlo Ginzburg: Sì. Ora sono veramente d’accordo.

Bruce Lincoln: Lo immaginavo.

Il vecchio Thiess. Un lupo mannaro baltico tra caso e comparazione, da poco pubblicato da Officina Libraria, è l’ultimo libro di Carlo Ginzburg. O meglio: di Carlo Ginzburg e Bruce Lincoln, storico delle religioni statunitense che, in anni recenti, ha finito per incrociare (con un dissenso nutrito di profonda disponibilità al dialogo) gli studi storico-morfologici e la parallela riflessione di metodo che l’autore dei Benandanti porta avanti da molto tempo – riflessione sui rischi e gli strumenti necessari per affrontare quel “viaggio nel mondo dei morti” che, come si legge in Storia notturna, è sempre il tentativo di conoscere il passato.

Chi scrive ha avuto il privilegio di porre alcune domande (e un paio di provocazioni) a Carlo Ginzburg in persona su questo suo ultimo lavoro a quattro mani e su alcuni nodi ricorrenti nella sua quête intellettuale: le riflessioni che ha voluto condividere per l’occasione con i lettori balenieri offrono una imprevedibile quantità di stimoli per chiunque si interessi, a ogni livello, dello studio della storia e delle sue tracce (compreso l’incontro con quelle che, nella “microstoria” di una vita, contribuiscono a fare di ciascuno di noi ciò che sarà). Buona lettura.


GM: Nelle prime pagine del Vecchio Thiess, l’interpretazione della vicenda di questo lupo mannaro baltico è da lei presentata nei termini di un “esperimento storico, che parte da un documento e ne esplora i contesti possibili”; in altre parole, direi (ma sempre restando nella metafora), il caso Thiess come un “reagente”: ora sottoposto a una serie di comparazioni di tipo morfologico (Ginzburg), ora situato nel contesto sociopolitico della Livonia del ’600, divisa tra élite tedesca e popolazioni indigene a essa sottomesse (Lincoln). In questo senso, più che un “semplice” libro di storia, Il vecchio Thiess si presenta come un serrato confronto a più voci sulle implicazioni metodologiche sollevate da questo eccezionale caso di licantropia: il resoconto, ancora, di un incontro-scontro tra due diverse concezioni della ricerca storica. La prima cosa che mi ha colpito di questo volume, “ad apertura di pagina”, è proprio l’indice, che presenta nell’ordine: 1) la traduzione del verbale del processo contro Thiess (1691-1692); 2) un brano del libro del nazista Otto Höfler sulle società segrete maschili (1934), libro galeotto perché ha trasmesso la conoscenza di questo processo a un’ampia schiera di studiosi, tra cui lei e Lincoln; 3) un’antologia di estratti ginzburghiani che dà conto, dai Benandanti a Storia notturna (1966-1989), del graduale inserimento del caso Thiess in una visione di tipo comparato, proiettata verso un remoto sostrato di sciamanesimo eurasiatico. Quindi, finalmente, il dibattito vero e proprio, che pure incrocia forme e generi testuali eterogenei: 4) la conferenza di Lincoln che contesta le sue precedenti letture del caso Thiess (2015); 5) una sua replica, sempre a mezzo conferenza (2017); 6) una lunga lettera indirizzatale da Lincoln (2017); infine, 7) la trascrizione di due conversazioni, risalenti sempre al 2017, che nell’insieme costituiscono un vero e proprio “dialogo sul metodo storico” (e di questa dialogicità la figura di Thiess, più che un mero oggetto, risulta essere quasi il correlativo oggettivo). Un certo sperimentalismo di struttura è una componente tipica di molti suoi libri, debitori in ciò di dichiarate suggestioni letterarie (su cui magari torneremo). Ma qui, assieme al montaggio provocatorio di materiali testualmente disparati, si nota anche un effetto ritmico di graduale focalizzazione sul presente, sul tempo di chi scrive e di chi legge: una “zoomata” che, dal ’600 di Thiess alla nostra ipermodernità, sembra ricordarci una volta di più che “ogni storia è storia contemporanea”, e che la ricerca è un cammino accidentato fatto anche di errori, obiezioni e correzioni di rotta…

CG: Dunque, qui vorrei precisare alcune cose: l’idea di questo libro non è mia, ma di Bruce Lincoln, di cui non sono non solo collega (a distanza) ma amico da molti anni. Dopo essere intervenuto su questo caso di cui mi ero occupato, Bruce mi propose di costruirci un libro a quattro mani: quindi l’idea del libro, appunto, è sua. E poi vorrei aggiungere una cosa: lei non ha menzionato l’introduzione, perché il dissenso in realtà comincia lì, dall’introduzione di Bruce a cui io ho aggiunto un post-scriptum che già va in un’altra direzione. Quello che mi pare da sottolineare in questo “esperimento”, però, è la battuta con cui ho cominciato la conversazione finale, e cioè che io non avevo nessuna obiezione nei confronti della prospettiva di Bruce, mentre lui ne aveva nei confronti della mia: c’era una asimmetria. Non è che si “scontrassero” due prospettive (questo mi preme sottolinearlo): la sua lettura sincronica mi pareva illuminante, solo che io la consideravo – e la considero – comunque compatibile con la mia. Lui invece aveva dei dubbi. Ecco, su questa asimmetria è cominciata la nostra conversazione, a Chicago, naturalmente preparata dal materiale raccolto nel libro e scelto sempre da Bruce (che pure si è occupato della traduzione degli atti del processo). È certo un libro anomalo questo, e sarei curioso di vedere l’uso che eventualmente se ne può fare (se ne è anche parlato, con Bruce) per un seminario con degli studenti. Ho visto alcune recensioni, soprattutto online, e la cosa che mi ha colpito era che il tono della conversazione finale è sembrato insolito. Questo mi è sembrato curiosissimo: due amici si incontrano, discutono! Invece c’è un’idea un po’ inamidata dei rapporti accademici, per cui sembrava strano che ci fosse da parte di entrambi un senso di gratitudine per la possibilità di questo scambio, che per noi è stato molto istruttivo.

GM: E infatti questo senso di gratitudine reciproca si trasmette subito, alla lettura. Da “studente” ho molto apprezzato, a proposito, la drammatizzazione del confronto intellettuale e delle sue contraddizioni così come messa in scena nel vostro dialogo. E nella concezione aperta e non difensiva della ricerca che ne risulta (con l’invito a continuare là dove altri si sono fermati) mi sembra di cogliere un risvolto politico particolarmente attuale: qualcosa che riguarda il rapporto di noi contemporanei con la conoscenza del passato, le fonti storiche, le responsabilità di chi ne affronta lo studio.

CG: Lei citava il detto di Croce “ogni storia è storia contemporanea”, su cui sono ritornato in un saggio poi incluso nel mio libro La lettera uccide (Adelphi 2021), in cui ne ho proposto una versione diversa: “ogni storia è storia comparata”. Perché? Alle spalle di questa definizione c’era una distinzione tra domande e risposte. E tanto per precisare, questa definizione di Croce ha due possibili significati: uno idealista, “tecnico”, cioè la presentificazione della Storia poi portata agli estremi da Giovanni Gentile, che diceva che non esiste la Storia in quanto res gestae al di fuori di noi, e che il passato esiste solo nel momento in cui lo pensiamo (Croce non ha mai accettato queste argomentazioni: era molto più cauto, un idealista meno estremo). E poi c’è l’altra versione cui accennava lei, e cioè l’idea per cui la storia in quanto ricerca storica nasce da domande che sono legate al presente. Naturalmente io accetto questa posizione, il problema però è di evitare l’anacronismo, di non proiettare domande trasformandole in risposte. Una volta ho usato questa battuta: “bisogna evitare il ventriloquismo”, far parlare gli attori del passato con le nostre voci e le nostre categorie. Ora, mi piacerebbe ritornare su quello che diceva a proposito dell’insegnamento contenuto in questa pratica della discussione: io mi sono fatto una sorta di graduatoria mentale, a seconda dei paesi, sulla disponibilità degli studenti alla discussione. La cosa naturalmente non riguarda gli studenti in quanto individui, né il “carattere nazionale” (in cui non credo affatto), ma il tipo di educazione che ricevono, lo “stile di educazione”, che può renderli aperti e disponibili alla discussione o no. In fondo a questa mia graduatoria immaginaria, lo dico sempre, c’è il Giappone, perché gli studenti giapponesi hanno un atteggiamento così deferente nei confronti degli insegnanti che non sono disponibili alla discussione – questa è stata la mia esperienza, almeno: ci saranno certamente delle eccezioni. Salendo in graduatoria, al vertice secondo me c’è l’India, perché in India c’è una combinazione estremamente interessante e inattesa tra la cultura dei colonizzatori (in Inghilterra lo stile della discussione è vivissimo, con un’idea della discussione come noble art, paragonabile alla boxe) e la cultura locale, dove l’elemento veramente appassionante sono le studentesse: le donne emarginate per tantissimo tempo che trovano uno spazio in cui rivendicare il diritto alla discussione. Sono stato alcune volte in India, un paese che (da estraneo, ovviamente) amo moltissimo: la passione per la discussione che ho trovato lì è straordinaria. Devo dire – e qui chiudo la digressione – che secondo me l’Italia è più vicina al Giappone che all’India… E allora per questo sono contento che questo libro sia stato tradotto in italiano, perché propone uno stile di discussione insolito. (Ma insolito lo è, in realtà, anche per gli Stati Uniti – che naturalmente non sono l’Inghilterra –, dove la discussione accademica non ha quel carattere di confronto aperto che ho sperimentato insegnando e discutendo con gli amici inglesi). Quello che ho trovato in comune con Bruce, appunto, era l’idea di una discussione completamente aperta, in cui, come lei ha detto giustamente, non c’era un atteggiamento difensivo: e questo mi pare una cosa importante.

GM: Dietro la mia domanda sui risvolti politici e “educativi” di un certo tipo di discussione c’era anche (senza con questo voler schiacciare il vostro lavoro sull’attualità) un’allusione alle circostanze in cui noi tutti abbiamo vissuto questi anni di pandemia, con la banalizzazione della stessa autorevolezza conferita a chi “detiene” il sapere e l’impoverimento del relativo dibattito…

CG: Certo, nel caso mio e di Bruce si trattava pur sempre di una discussione (in qualche modo) “simmetrica”, anche se abbiamo formazioni e orientamenti diversi. Ma io penso che, nell’insegnamento, il rapporto sia inevitabilmente asimmetrico – e questa asimmetria va sottolineata. Naturalmente all’interno di un seminario si tratterà di dare agli studenti e alle studentesse gli strumenti utili per discutere, per muoversi all’interno di questa asimmetria: imparare vuol dire accettare di inserirsi in questo rapporto.

GM: Torniamo al Vecchio Thiess. Mentre lei, nei saggi antologizzati nel terzo capitolo, propone di ricondurre il caso di questo lupo mannaro all’insieme delle cosiddette “alterità sciamaniche” (benandanti friulani, kresniki sloveni, táltos ungheresi ecc.), accomunate dalla partecipazione a battaglie combattute in estasi per la fertilità dei campi contro streghe e stregoni, l’analisi della vicenda proposta da Lincoln è una lettura di tipo “conflittuale”, incentrata com’è sulla dialettica dominanti/dominati: le accuse di licantropia e stregoneria, con relativi processi, come tentativo di legittimare moralmente lo sfruttamento dell’élite di origine tedesca sui contadini livoni, rei di un’adesione tardiva e superficiale alla fede cristiana, e insomma “barbari” in balìa di credenze superstiziose da debellare per il bene della stessa comunità. Così, la deposizione di Thiess sarebbe il documento di un rovesciamento dal basso del discorso dominante, con l’inferno saccheggiato dai lupi mannari descritto come un granaio signorile dove gli stregoni, per conto del diavolo, ammassano le sementi rubate ai contadini. Peraltro, nella sua rilettura della testimonianza processuale, Lincoln si produce in alcuni esempi di “lettura tra le righe” (vedi la possibile allusione di Thiess sull’esistenza di un inferno “speciale” per i lupi mannari tedeschi): al di là dei singoli esempi, ecco, queste mi sembrano forme di close reading (talvolta proprio “a contropelo”) che mi hanno d’istinto ricordato diversi luoghi del Formaggio e i vermi. Eppure il suo libro sul mugnaio Menocchio non è mai citato nelle pagine del Vecchio Thiess, neppure di sfuggita…

CG: Non avevo notato questa assenza! Credo – e mi spiace che Bruce non sia presente – che in realtà sul Formaggio e i vermi non ci siano divergenze: non se n’è parlato perché c’era un accordo. L’idea che nelle dichiarazioni di Menocchio i conflitti della società in cui viveva fossero presenti in una maniera, diciamo, non rielaborata attraverso il linguaggio dell’estasi, ma in maniera letterale… beh, questo fatto di per sé riduceva l’area della nostra divergenza. Quindi, per dirla con una battuta, interpreterei questo silenzio come un silenzio-assenso. Invece, tutti gli elementi che lei ha menzionato implicavano una divergenza che bisognava mettere in luce: rileggendo la nostra conversazione in traduzione, ho risentito il piacere del dissenso! E questo spero che sia in qualche modo comunicabile ai lettori. Ora, questo elemento del “leggere tra le righe” le testimonianze è certamente condiviso (anche se i risultati possono essere diversi): si notano elementi che non sono elaborati né dai giudici né, eventualmente, da uno dei due interlocutori.

GM: Una certa importanza assume, nel libro, il famigerato saggio di Höfler del ’34 sui Männerbunde, di cui fin dall’introduzione Lincoln sottolinea la funzione di medium fra il caso Thiess e le vostre primissime ricerche. Di più, a conclusione della sua lettera, lo stesso Lincoln avanza un paragone a mio parere inquietante fra lo studio comparato di Höfler, incentrato sulla “violenza licantropica” delle società segrete maschili, e quello da lei sviluppato a partire da I benandanti, con un netto distinguo etico-politico: da una parte l’esaltazione di una violenza ferina che sarebbe all’origine del potere statale; dall’altra, scrive Lincoln, l’idealizzazione di “una comunità arcaica al di fuori dello stato (e in qualche modo in opposizione a esso), caratterizzata da guarigioni sciamaniche e voli estatici e da un impulso a combattere, spinti dal dovere, per il bene comune”. A suonare inquietante, insomma, non è tanto l’accostamento tra due prospettive di ricerca antitetiche nei loro presupposti intellettuali e ideologici, quanto la ricchezza potenzialmente criptomemoriale (uso una sua categoria) dell’accostamento stesso. Lei ha molto riflettuto, a partire dalle risonanze biografiche del suo interesse per le vittime della stregoneria, su “le più profonde paure, i desideri e/o gli ideali dello studioso” (Lincoln); in una parola, sui presupposti (anche) emotivi e inconsci che orientano la traiettoria della ricerca intellettuale. Cosa pensa di questa ipotesi di lettura “in contropelo” del suo stesso lavoro? È possibile che il saggio di Höfler, con i suoi pesanti sottintesi, abbia rappresentato un inconsapevole termine di confronto per la sua interpretazione del culto dei benandanti e della testimonianza di Thiess? D’altra parte, farà notare lei, non è meno interessante che il saggio di Höfler, in un primo momento accolto acriticamente, abbia poi finito per incarnare per Lincoln “una norma di cautela nei confronti dei documenti”. Lo sguardo esterno (mi ricollego a quanto dicevamo poco fa), il gioco incrociato dei punti di vista chiarisce così origini, presupposti, contraddizioni del lavoro proprio e altrui…

CG: La risposta alla sua domanda, e cioè se ci può essere stata una memoria inconscia per quanto riguarda il libro di Höfler, è no, per le circostanze direttamente legate all’elaborazione dei Benandanti. Io avevo scritto questo libro in accordo con Einaudi, scambiando lettere (allora non c’erano le e-mail) con il mio amico Corrado Vivanti, storico bravissimo che lavorava lì come redattore. Nel ’65 (un anno prima di quella che sarebbe stata la pubblicazione) io gli mandai una versione del lavoro che consideravo definitiva, dove però la parte sul vecchio Thiess non c’era: e questo perché non ne sapevo niente, non avevo ancora letto il libro di Höfler. Insomma, mandai la mia versione del libro e non ottenni risposta. Passarono dei mesi, e nell’attesa continuavo a riflettere sulla mia ricerca: allora vivevo a Roma, e studiavo prevalentemente alla Biblioteca Vaticana. A un certo punto lessi il libro di Höfler e trovai un rinvio al processo del vecchio Thiess che era stato pubblicato da von Bruiningk. Ricordo che il volume della rivista baltica in cui era uscito il processo era in consultazione nella sala di lettura della Vaticana (nei suoi scaffali si trovavano i libri più incredibili). Questo è stato il mio incontro con la trascrizione del processo contro Thiess – una trascrizione “filtrata”, in realtà: Lincoln, che l’ha studiata da vicino, invita a chiedersi se il processo sia stato condotto in tedesco oppure no. Certo la trascrizione è in tedesco: sarà opera di un notaio? Io mi sono imbattuto in un problema del genere nel caso dei benandanti, dove, in un paio di processi, l’inquisitore richiese l’intervento di un interprete perché gli imputati parlavano in friulano. Nel caso di Thiess c’è stato bisogno di un interprete? Mah, forse! Comunque, dopo aver letto questo processo scrissi a Vivanti, il quale, per un equivoco, pensava che dovessi lavorare ancora al mio libro, come in effetti è successo! E alla fine, in tempi rapidi, il libro poi uscì. Ora, qui torna un motivo che mi è caro, quello del “caso”: in effetti è stato il caso a portarmi a Thiess (anche se il libro di Höfler avrei dovuto leggerlo prima). C’è poi un altro tema, su cui ho scritto un saggio che si intitola Rappresentare il nemico. Sulla preistoria francese dei Protocolli [ora in Il filo e le tracce, Quodlibet 2023]: Höfler era un nazista convinto, il suo è un libro carico di ideologia (come ho sottolineato in maniera particolareggiata in una nota di Storia notturna), e però è uno studioso che aveva visto molto materiale: e questo materiale si presta – come sempre – a quella lettura “in contropelo” che lei ha evocato citando Benjamin: ovvero indipendentemente e anche contro i presupposti di chi ha prodotto il documento. Quindi l’idea di “imparare dal nemico”, perfino da un nazista convinto come Höfler, è una possibilità: il risultato della ricerca (mi è capitato di dirlo su un piano generale) è qualcosa che per definizione ha degli elementi che sfuggono a chi l’ha prodotta – e questo si può dire in realtà di qualunque documento: cioè, qualunque documento contiene degli elementi che sfuggono a chi l’ha prodotto. Ciò fa sì che la lettura in contropelo sia in qualche modo un fatto non eccezionale, ma potenzialmente normale.

GM: Lei nominava il caso, e sul caso mi piacerebbe tornare in conclusione. Ma prima vorrei aggiungere un’osservazione ancora sullo scambio con Lincoln, e in particolare sulla conversazione che chiude il libro: conversazione che da subito mi sembra trovare un suo passo ragionativo, a momenti circospetto, fatto di proposte, obiezioni, esitazioni, in uno sforzo di concettualizzazione delle stesse “tappe” della ricerca storia che avvicina il confronto a una partita a scacchi. Ecco, in questo tragitto due mi sembrano essere i concetti più “importanti”, o forse semplicemente più suggestivi anche per il lettore non specialista: uno è l’elogio del rischio, lo “sparo nel buio” (come lo chiama lei) che orienta la ricerca; l’altro è lo strumento dell’immaginazione, necessaria a colmare il buco fra la traccia documentaria in possesso dello storico e la struttura dimenticata o rimossa cui essa rimanda.

CG: Per quanto riguarda il rischio, certamente lei ha ragione nel sottolineare la presenza di questo elemento nella discussione. E poi sì, l’immaginazione: la traccia evidentemente evoca qualcosa di cui è traccia, e quindi a questo punto bisogna formulare delle ipotesi. Nel saggio Microstoria e storia del mondo [in La lettera uccide] ho sottolineato l’importanza dell’esperimento mentale (ed ecco che torniamo all’esperimento), trovandomi per la prima volta a dissentire da Marc Bloch. Nelle riflessioni metodologiche apparse postume col titolo Apologia della storia, o mestiere dello storico Bloch scrisse che la differenza fra le scienze umane e le scienze dure, come vengono chiamate oggi, è il fatto che l’esperimento non è accessibile a coloro che praticano le prime. Io invece ho sostenuto che, se prendiamo in considerazione l’esperimento mentale, questa distinzione cade: l’esperimento mentale fa parte del lavoro di ricerca di chiunque faccia ricerca. Questo mi pare un punto incontrovertibile. Ma in che cosa consiste poi l’esperimento mentale? Beh, noi di fronte a una traccia diciamo (cito Lincoln) “sì, ma la traccia si spiega perché qui c’è un contrasto fra i contadini baltici e l’élite tedesca ecc.”: questa è un’ipotesi che andrà controllata, quindi è un esperimento che può essere falsificato (cioè abbandonato) oppure al contrario può essere accettato, può generare nuove domande ecc. Ora, tutto questo lavorio può lasciare traccia nel prodotto finale della ricerca: mi è capitato, per esempio nel Formaggio e i vermi, di enunciare delle ipotesi per poi scartarle. E ho sottolineato che l’idea di lasciare che l’impalcatura sia visibile è un debito che ho nei confronti della letteratura del ’900 (intesa in senso lato, da Proust a Brecht). Qualcosa, quindi, che in un’altra situazione culturale sarebbe stata inammissibile (e ancora lo è per molti studiosi, in verità). Diciamo che anche nel caso del Vecchio Thiess, evidentemente, l’impalcatura è presente, se non altro nella discussione finale… E poi ci sono tutti questi materiali, che in qualche modo invitano a una rielaborazione successiva. Può essere che arrivi qualcuno che dia torto a entrambi, a me e a Bruce Lincoln, per elaborare delle ipotesi diverse…

GM: Se lo augurerebbe, immagino.

CG: Una volta il grande Carlo Dionisotti disse “il nostro lavoro, che è destinato a essere superato”. Eh sì, la ricerca va avanti.

GM: Ha accennato finalmente al suo rapporto con la letteratura novecentesca, specie per quanto riguarda la sua dimensione metatestuale (e il conseguente effetto di straniamento che l’esibizione dell’“impalcatura” induce nel lettore). Si sa che per lei ha molto contato, nella riflessione sulle forme letterarie e il loro valore conoscitivo, anche il confronto con Italo Calvino e Gianni Celati: in più occasioni ha infatti ricordato di aver ipotizzato, per la stesura del suo libro su Menocchio, una sorta di continua variazione di registro, sul modello degli Esercizi di stile di Queneau. Ecco, la mia curiosità riguarda allora il suo rapporto odierno con la letteratura, i suoi gusti di lettore; detta altrimenti: quali sono (se ci sono) le opere che più ha apprezzato in tempi recenti? Segue qualche autore o tendenza in particolare del panorama letterario odierno? E se sì, pensa che certe sperimentazioni oggi particolarmente di moda, al confine tra fiction e (auto)biografismo, possano sollecitare una nuova riflessione in termini di scrittura storiografica?

CG: Confesso di non saper rispondere. Da molto tempo ormai sono talmente preso dall’affollarsi nella mia mente di nuovi progetti e di nuove ipotesi di ricerca che il mio rapporto con la letteratura che si viene pubblicando è assolutamente inadeguato: non riesco a seguirla. Con il cinema mi succede lo stesso: rivedo vecchi film, oppure vecchi film che mi erano sfuggiti. È un limite grave, di cui sono consapevole. Con le persone (a cominciare da quelle molto più giovani di me) è diverso. Lì scatta una forte curiosità, e una disponibilità verso il nuovo.

GM: Mi colpì molto, a conclusione del saggio su Freud, l’uomo dei lupi e i lupi mannari (saggio che a sua volta conclude la raccolta di Miti emblemi spie, 1986), la domanda che lei poneva in questi termini: “siamo noi che pensiamo i miti o sono i miti che pensano noi?”. A distanza di anni questo dilemma (e la riflessione che seguiva), ritrovato nelle pagine riprodotte nel Vecchio Thiess, non smette di turbarmi. Forse perché è una domanda che (avrebbe detto Celati) dà aria ai pensieri, per il suo portato immaginativo straniante. D’altra parte (se non fraintendo quelle che già all’epoca erano le sue conclusioni), in una civiltà solipsistica come la nostra, veramente l’impossibilità di spingerci oltre il simulacro della nostra “identità” sollecita linee di pensiero inaccettabili in termini razionalistici. In altri termini, se vogliamo, la domanda potrebbe essere anche: cosa ci dice oggi lo studio (comparativo o meno) dei miti? Cosa dice di noi, della nostra civiltà?

CG: Ricordo che scrissi quella frase – “siamo noi che pensiamo i miti o sono i miti che pensano noi?” – d’impulso, come se fossi trascinato da una forza estranea. Arrivai a formulare una risposta a quella domanda, senza rendermene conto, solo molti anni dopo, in un saggio intitolato The Bond of of Shame (“Il vincolo della vergogna”), pubblicato nel 2010 e ripreso recentemente (2019) dalla “New Left Review”. È stato tradotto in varie lingue, ma non ho ancora preparato una versione italiana. Alla fine del saggio ho proposto (contro la nozione di identità, cha a mio parere ha un significato solo politico) di definire l’individuo come il punto di intersezione di insiemi diversi. Per esempio, io che parlo sono membro della specie animale homo sapiens, della sua metà maschile, dell’insieme che include i professori in pensione nati a Torino, e così via specificando, finché si arriva a un insieme con un unico componente: quello rappresentato dalle impronte digitali. Questo elemento di unicità ha un significato in determinati contesti (per esempio quello giudiziario): ma chi si occupa di storia deve sapere che in un individuo elementi unici entrano in relazione con elementi via via più generici. Non credo affatto che questa sia un’ipotesi originale: ma se la si prende sul serio può aprire la strada a riflessioni inaspettate. Se immaginiamo un “io poroso” (è una metafora che mi è capitato di usare in passato, riferendomi al quadro di Boccioni intitolato La strada entra nella casa), la possibilità di essere pensati dai miti diventa più comprensibile. Credo che Freud abbia insegnato che compito della scienza è quello di ridurre nei limiti del possibile lo spazio attribuito al libero arbitrio.

GM: Vorrei concludere con una questione che mi auguro non suoni troppo peregrina. Assieme ad anomalia, probabilità e, ovviamente, comparazione, il termine caso è, fin dal titolo, la parola-chiave de Il vecchio Thiess. Sappiamo che, nella sua riflessione recente, i riferimenti al caso spesso e volentieri contemplano la doppia accezione del termine: il caso come genere a cavallo fra diritto, medicina e teologia (da cui il prediletto “studio di caso”), e insieme il caso come “casualità” (anche detta, con l’inesauribile formula del citato Dionisotti, “la norma che presiede alla ricerca dell’ignoto”). Mi permetto allora, se accetta la provocazione, di fare un piccolo passo avanti (di tentare anch’io il mio “sparo nel buio”): fino a che punto un caso che, retrospettivamente, ha orientato e condizionato per intero la propria esperienza (penso, in primis, all’incontro con il benandante Menichino da Latisana) può continuare a essere considerato casuale? Quando è possibile parlare, se è possibile farlo in termini non mistici, di fatalità? In altre parole, parafrasando Dionisotti: c’è un momento in cui la ricerca dell’ignoto cessa di essere centrifuga per riportarci, magari dopo un lungo giro, ai nostri presupposti di partenza? O è solo un’illusione ottica data, appunto, dalla retrospezione? Come che sia, alla chiusura del libro la figura anomala di Thiess, irriducibile a ogni interpretazione univoca, sembra stagliarsi come una figura del (doppio) destino: quel destino che ha portato lei e Lincoln a “essere pensati” da Thiess, e non viceversa.

CG: Qui ritrovo una riflessione che mi ha molto colpito, da lei fatta alla fine di un articolo (Letteralmente Ginzburg) dedicato al mio libro La lettera uccide. Alla sua domanda risponderei così: la scintilla del caso può spegnersi subito se non viene alimentata da un filtro, che rinvia alle interazioni di quegli insiemi multiformi di cui parlavo prima. Sul mio incontro con il bovaro Menichino da Latisana, incontrato per caso nei processi dell’Inquisizione conservati nell’Archivio di Stato di Venezia, ho riflettuto per la prima volta trent’anni dopo, in una conferenza fatta a Tokyo in occasione della traduzione giapponese del mio libro Storia notturna (ho rielaborato la conferenza nel saggio Streghe e sciamani, incluso nella raccolta Il filo e le tracce). E mi sono chiesto: come avrebbero reagito altri studiosi o studiose a quell’incontro casuale? Fino a che punto le mie origini familiari, la mia formazione e così via avevano condizionato la mia reazione? Tutti siamo bombardati, in ogni momento, da eventi casuali: ma le nostre reazioni a quegli eventi non sono affatto casuali.


Carlo Ginzburg e Bruce Lincoln, Il vecchio Thiess. Un lupo mannaro baltico tra caso e comparazione, Officina Libraria, Roma 2022