A dispetto della qualifica di “maestro in ombra”, che per diverso tempo lo ha accompagnato, Giampiero Neri è oggi un autore canonico. Non del Novecento, però, o non solo; piuttosto degli anni Duemila: quasi un paradosso, per un uomo nato nel 1927. Eppure negli ultimi due decenni Neri ha scritto la parte più corposa della propria opera, che libro dopo libro, a ritmi intensi, si è rivelata qualcosa di imprevisto: una commedia umana.

Qualcosa di imprevisto, perché Neri è stato per eccellenza l’autore del Teatro naturale: così il volume del 1998, ma piante e animali erano stati protagonisti delle sue raccolte fin dall’esordio, con L’aspetto occidentale del vestito (1976), seguito da Liceo (1986) e Dallo stesso luogo (1992). Una produzione centellinata, che faceva pensare a un poeta del “libro unico”.

Invece, dopo Armi e mestieri (2004) e Paesaggi inospiti (2009), intercalati dall’Oscar Mondadori delle Poesie 1960-2005 (2007), l’opera di Neri fa la muta, e la stagione del bozzolo trapassa nella stagione della farfalla. Formalmente, la cadenza del verso si assesta una volta per tutte nel fermoimmagine della prosa (poesia in prosa, ma dai confini permeabili in direzione del saggismo o dell’oralità, o di entrambi).

Scenicamente, qualche maschera cade. Il sipario rimane aperto sul teatro della memoria, ma la strategia mimetica, che nascondeva l’umano dentro la corazza naturalistica, si allenta. Finalmente, il ruolo del protagonista tocca a una personaIl professor Fumagalli, come titola la raccolta del 2012, il maître à penser incontrato alle medie che rimane centrale nei libri successivi, sino al recentissimo Un insegnante di provincia, uscito nel novembre del 2022. Torna qui un riferimento, quello alla provincia, ossia alla cittadina natale di Erba, che aveva segnato la rotta da Via provinciale (2017), il libro del passaggio da Mondadori a Garzanti. Gli ultimi quattro volumi, Da un paese vicinoPiazza Libia Un difficile viaggio, oltre a quello già menzionato, sono usciti invece per Ares (che ne ha in bozze un quinto, Utopie).

Per quale ragione scriveva, Giampiero Neri? Le circostanze non gli erano favorevoli. Aveva un fratello, Giuseppe Pontiggia, di tanto più visibile nel mondo editoriale. Lui, Giampiero, aveva lavorato in banca fino alla pensione; portando avanti il mestiere del padre Ugo, ucciso dai partigiani nel novembre del ’43, forse in un tentativo di rapimento finito male, proprio all’uscita dal Banco Ambrosiano. Ugo stava con i neri; i fratelli della moglie, ben più attivi di lui, erano stati gli importatori del fascismo a Erba. Dunque per quale ragione scriveva, Giampiero Neri, venuto al mondo dalla parte sbagliata della storia d’Italia? Se il fratello Peppo, del ’34, graziato dall’anagrafe, era potuto entrare di slancio nel Dopoguerra, Neri viene di continuo risospinto lì, negli anni dell’infanzia e della giovinezza, culminata nei tempi drammatici della guerra civile. Perché?

Credo che molte delle sue energie fossero rivolte a combattere il cosiddetto bias della sopravvivenza. Ossia la tendenza delle persone a concentrarsi sulle cose che funzionano, su chi ce la fa, sui vincitori, dando per scontato il loro trionfo. È il tema esplicito di un componimento di Via provinciale: «Si riflette sulla sconfitta, non sulla vittoria. / Si cercano i perché della sconfitta e si finisce per ritenerla inevitabile. / Sulla vittoria invece si festeggia».

Detto in altri termini: la Liberazione ha illuso molti, intellettuali, politici, artisti, che si potesse ricostruire l’Italia da zero, ex nihilo, democraticamente. Anche a costo di dimenticare il passato. I nemici, gli sconfitti. Il primo libro che parla di guerra civile è il saggio omonimo di Claudio Pavone, ma siamo già nel 1991. E la loro voce, la voce dei vinti? Lo aveva capito bene il Montale di Satura: «la storia non si snoda / come una catena / di anelli ininterrotta», anzi «lascia sottopassaggi, cripte, buche / e nascondigli. C’è chi sopravvive». Giampiero Neri, da dentro una buca, è stato la voce dei vinti, a modo suo. Un uomo di destra, nel secolo dell’egemonia culturale del marxismo. Un cattolico, nel secolo della morte di Dio. Un poeta che inseguiva la verità, nel secolo della scienza come falsificazione.

Mi sembra, per un altro paradosso, che tutto questo fosse inattuale nel Novecento, e tuttavia d’avanguardia rispetto all’estremo contemporaneo. È uno di quegli enigmi che tormentano chi affronta la modernità letteraria, come ha insegnato Antoine Compagnon: l’assoluta preponderanza, addirittura fondativa, degli anti-moderni, da Baudelaire a Céline, da Verga a Pasolini. In letteratura, vince chi perde, con eccezioni scarse nel numero se non nella qualità. «Sono uno sconfitto» dice Neri, al termine di Via provinciale. Ma oggi è importante interrogarsi sulle ragioni della sua fortuna, diagonale nell’editoria e presso il pubblico.

Una ragione è questa: Neri ha ripetuto Pirandello. Ha messo insieme i ritratti di un’umanità sofferente, a tratti ridicola. Dimostrando però come di fronte alla miseria sia la pietà dello sguardo a dover prevalere. Dove gli altri vedevano il nemico, Neri ha visto delle vittime o dei poveri cristi, degli esseri umani illusi male, degli infelici, dei traditi. Senza dubbio è una versione di parte, partigiana. Ma la letteratura, al contrario della storiografia, si alimenta in maniera programmatica di questi ingredienti. È la letteratura a salvare Raskol’nikov, non certo la giustizia umana, che infatti e doverosamente lo condanna. Credo che Neri intendesse la poesia come l’anticamera del Regno dei Cieli, dove anche il ladrone può entrare, perché Cristo stesso l’ha voluto con sé. Il nemico va disinnescato, decostruito, compreso.

Questo spiegherebbe, da un lato, la devozione di Neri verso le figure dei benefattori: a partire da quel professor Fumagalli che, nel Dopoguerra, si era messo a far lezione ai bambini mutilati. E proseguendo con il preside della scuola, partito al seguito di don Zeno Saltini per unirsi alla comunità di Nomadelfia, dove il denaro non esisteva ed, etimologicamente, la fraternità era legge. Dall’altro lato, questa intrinsecità della poesia all’umano dà ragione dello stile medio di Neri, comunicativo, quotidiano, al limite del banale talvolta. In una totale manifestazione di disprezzo verso l’arte intesa come esercizio tecnico, come virtuosismo. Non che Neri fosse uno scrittore umile, in rapporto alle aspettative su se stesso.

Mi ha detto una volta: io non voglio primeggiare, ma non voglio nemmeno secondeggiare. E con una mano, per illustrare il neologismo, faceva un gesto ascensionale, sollevandola nell’aria al pari dell’altra. Queste due facce della medaglia si riassumono in una glossa, scritta a matita, che Neri ha lasciato sul libro Contro i poeti di Witold Gombrowicz, un’edizione del 1995 di cui mi aveva fatto dono qualche tempo fa (quanto a generosità nel donare, gli tenevano testa in pochi). Per la precisione a pagina 103, nel bordo inferiore, Neri postilla così l’analisi di Gombrowicz, un’invettiva contro l’assurdità della Poesia astratta, che mira a una altrettanto astratta Bellezza o Purezza: «che noia! che noia! l’Arte! W NOMADELFIA». Poi, nel margine a destra: «E gli U2».

Vorrei congedarmi qui da Giampiero Neri con un suo autoritratto, uno dei più celebri, che riscrive L’albatro di Baudelaire in idioletto provinciale, restituendo la dimensione «domestica» della sua poesia e al tempo stesso aprendola all’enigma definitivo, quello del destino umano:

A giudicare dall’andatura sgraziata e malferma, non si darebbe molto credito all’oca e forse per questo ha il nome che porta.

Ma in acqua, per via delle sue zampe palmate, fila con eleganza e in aria vola.

Anche l’oca domestica, dai cortili, dalle aie, quando è il suo momento prende il volo.

Lei sa dove va. E noi?


(Foto di David Talukdar)